L'edicola digitale delle riviste italiane di arte e cultura contemporanea

::   stampa  

Art'O (2005-2009) Anno 8 Numero 19 inverno 2005-2006



Il sex appeal dell'organico

Annalisa Sacchi

A proposito del progetto Di Stanze di Cortesi-Bragagli



cultura e politica delle arti sceniche


1 PRIMA PAGINA
Avvelenata o il teatro inutile

4 GO EAST
Per un terrorismo poetico
di Alvis Hermanis

5 Uomo - che nome maestoso
A proposito del teatro di Alvis Hermanis
di Gianni Manzella

11 GEOGRAFIE
Il collasso della linea da un punto di vista cellulare
"You made me a monster" di William Forsythe
di Enrico Pitozzi

16 La tenuta e la presa
Una riflessione sul tempo come detonatore di forze
di Sonia Brunelli

20 La cucina esistenziale
Conversazione con Eva Meyer-Keller
di Jacopo Lanteri

25 Citare e sedurre
Conversazione con Jacopo Miliani
di Piersandra Di Matteo

30 Il sex appeal dell'organico
A proposito del progetto Di stanze di Cortesi-Barzagli

di Annalisa Sacchi

36 VISIONI
Sulla possibilità di cancellare le tracce
Riflessioni sulle opere di Arnold, Schneider, José Galindo e Rhode
di Elfi Reiter

46 L'Eden profano di Pipilotti Rist
Note sull'installazione "Homo Sapiens Sapiens"
di Gaetano Salerno

57 Una cartina al tornasole della realtà
Conversazione con Olafur Eliasson
di Hans Ulrich Obrist

62 STATO DELL'ARTE
Con i piedi per terra e gli occhi negli occhi
Conversazione con João Fiadeiro
di Silvia Bottiroli

68 SCRITTURE DI SCENA
L'impero della ghisa
(o dell'età dell'oro)
di Leo de Berardinis

81 DEC ROOM
Flavio Favelli

85 DARK ROOM
di Fabio Acca

ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

My Complement, My Enemy, My Oppressor, My Love. Kara Walker
Giulia Grechi
n. 28 autunno 2009

Teatro Superstite
Marco Pustianaz
n. 27 primavera-estate 2009

Il teatro della memoria futura
Annalisa Sacchi
n. 26 autunno 2008

Deep Trance Behavior in Potatoland di Richard Foreman
Giulia Palladini
n. 25 primavera 2008

Il critico come etnografo?
Viviana Gravano
n. 24 autunno-inverno 2007

Alla ricerca del gesto perduto
Gianni Manzella
n. 23 primavera 2007


Cortesi - Barzagli, Di stanze 2005
foto Elena Foresto

Cortesi - Barzagli, Di stanze 2005
foto Elena Foresto

Cortesi - Barzagli, Di stanze 2005
foto Elena Foresto

Di stanze, la performance creata dalla coppia formata da Luisa Cortesi, danzatrice, e Massimo Barzagli, artista visivo, conserva una memoria del gesto pittorico che l'ha preceduta, unendovi la flagranza del suo accadere innanzi ai nostri occhi.
La collaborazione tra i due artisti inizia infatti quando la Cortesi in-scena le figure che imprimono tracce del loro passaggio sulle tele di Barzagli, quando il corpo spalmato di colore della performer deposita, per impronta, la sua memoria pittorica sulla tela. Nella serie di lavori che prevedono l'immersione della figura umana entro un sistema d'oggetti, la scena è fondata su un prelievo ready made di immagini di ambienti domestici tratte da cataloghi e riviste specializzate in architettura e interior design.
Sin dal titolo, com'è nel progetto La casa assente, la forma dell'oggetto e il concetto dell'abitare sono convocati per esibire la propria assenza. Le immagini fotografiche vengono ingrandite e riprodotte su tela, fungendo da campitura su cui imprimere l'"impressione" di una figura che galleggia nell'ambiente.
Il corpo della Cortesi ha qui un ruolo letteralmente matriciale, è una materia di immagine, presente là dove l'immagine si forma, si dispiega. Il corpo crea, per impronta, una riserva che sarà resa visibile solo nell'atto del suo levarsi dalla tela. Come in ogni procedura d'impronta, infatti, il fenomeno si instaura necessariamente da un ritiro, da una delocazione. La figura è colta nell'atto di abbandonare la scena: lasciare l'impronta è essenzialmente un modo di andarsene, di "fuggire dall'immagine", com'è nelle parole della Cortesi. La traccia impressa sulla tela esibisce la figura stessa come un gigantesco vuoto di memoria, come un inguaribile difetto di presenza.

Di stanze - coprodotto dal Festival Santarcangelo dei Teatri, dove ha debuttato nel luglio 2005 - in certo modo attualizza la dimensione performativa iscritta nell'opera pittorica, sorge come da un prosciugamento della pittura e da un ritorno del corpo.
Il lavoro prevede un dispositivo in cinque quadri, ciascuno - tranne il primo - definito dalla proiezione di un ambiente domestico o di un oggetto che ne suggerisca, metonimicamente, la qualità: un polittico d'abitazione i cui quadri ritraggono, rispettivamente, un salotto, un bidet, un lavabo e una camera da letto. Lo spettatore varca la soglia di un interno (la stanza) e di un'interiorità (la solitudine essenziale della figura): la visione, in questo modo, è inscindibile da un atto di voyeurismo, dall'insinuarsi dello sguardo nell'apertura di un'intimità privata.
La soluzione abitativa proposta risulta in qualche modo desiderabile, poiché estratta dal catalogo di un immaginario contemporaneo, dall'artificio patinato di una rivista o dall'insignificanza ottusa di un'esposizione di sanitari da bagno circondati da un alone auratico, da una luminosità neutra che non rischiara.
Nell'immagine virtuale lo spettatore si trova proiettato in una fantasmagoria d'abitazione, una sorta di casa del futuro come negli Smithson, ma pervasa da un alito di alienazione funebre. L'immagine dell'interno domestico è perfettamente illuminata, non ci sono zone oscure né ombre proiettate dagli oggetti, tutto è, per così dire, esposto e accessibile, e tanto più acuto diviene il confronto col corpo, continuamente braccato dall'ombra che proietta dietro di sé, sul fantasma dell'ambiente. Lo spazio è qui a dis-misura del corpo, l'ambiente una di-stanza. La bidimensionalità dell'immagine consiste poi essenzialmente nel sottrarre una dimensione al reale. Tramite questo movimento l'oggetto diventa perfettamente indifferente, mentre il corpo ribadisce il suo spessore, la sua densità.

Entrare nello spazio dell'immagine significa per la figura compiere un movimento radicale verso uno spazio dell'assenza, penetrare in un altrove il cui fondo appare senza profondità e insieme illimitato, luogo dove sprofondano gli oggetti quando si allontanano dal loro senso, quando s'immergono nella loro immagine.
Gli oggetti si espongono qui come pura superficie, assumendo l'intensità spettrale del simulacro che non ha alcun precedente, alcun debito di realtà, la cui radicale superficialità risulta impossibile da intaccare o da mettere in movimento.

L'azione principia in uno spazio neutro, un luogo vestibolare spoglio in cui la drammaturgia del movimento disegna la possibilità dell'abitare le superfici. Il corpo sonda gli angoli, appoggia e preme alle pareti agitandone la resistenza sorda.
Il secondo quadro proietta sul pavimento l'immagine di un salotto. Dal soffitto una videocamera riprende live la performance che viene proiettata, verticalmente, sulla parete di fondo scena. L'immagine tappeto si rovescia così in un luogo sospeso.
La Cortesi, supina, traccia un fraseggio coreografico fatto di slittamenti minimi, rannicchiamenti e distensioni. Il gesto produce l'illusione, nella sua proiezione verticale, di un abitare ludico, in cui la danzatrice scivola libera nell'ambiente come usava Trisha Brown nelle sue utopie danzate: qui però il debito con il peso è dichiarato in modo eloquente dalla presenza del corpo fisico.
L'ordine della rappresentazione appare così scisso tra l'esposizione di un corpo privato dal proprio coefficiente di gravità e la presenza di un corpo schiacciato al suolo: da una parte una figura libera di fluttuare, che esorbita letteralmente dal fondo, dall'altra un corpo che pesa, che ha massa. La qualità onirica dell'immagine proiettata è un paradigma cruciale del lavoro: è come se, abbattuta al suolo, ci fosse la figura strappata dalla leggerezza aerea dell'immagine di sogno, atterrata in un corpo "troppo umano" e materiale (la prossimità con la performer cui accede lo spettatore lo mette in contatto diretto col respiro che si affanna, col sudore che chiazza gli abiti, con la pelle che via via si arrossa per lo sfregamento con il pavimento).

Lo spettatore diviene un filtro a due canali: deve continuamente ri-negoziare l'oggetto dello sguardo e ri-semantizzare la rappresentazione, stretto nella coincidenza impossibile tra il qui del corpo fisico e il nessun-luogo del corpo proiettato.
È la Cortesi ad affermare: "lo spettatore si trova ad essere diviso ma il punto centrale è che può scegliere la propria visione. Quando un'immagine viene data al massimo si può decidere dove focalizzare l'attenzione, se ad esempio fissarla su un dettaglio. Abbiamo cercato con la dimensione installativa del lavoro di mettere lo spettatore nella condizione di scegliere o meglio di conquistare una visione".
Allo spettatore non viene più assegnata una postazione privilegiata e obbligata: la visione diviene così traiettoria dinamica, specchio mobile che coglie la scena fisica e quella virtuale come due facce che continuamente si scambiano.
Il soggetto reale sprigiona la propria immagine virtuale nello stesso tempo in cui questa, come soggetto immaginario, si addentra nel reale, secondo un circuito in cui ciascuno dei due termini insegue l'altro, si scambia con l'altro. È un invito a una nuova visione stereoscopica fatta di un raddoppiamento o sdoppiamento, di una coalescenza tra il corpo incarnato e quello inscenato, tra il reale e il suo altrove.
Quando la Cortesi abbandona la scena-tappeto la proiezione della stanza rimane sul fondo, in un'orbita astratta che non trattiene tracce del passaggio del corpo.

In questo senso la Filosofia del Mobilio affermata dal lavoro è tutta virata nei toni della perdita: l'ambiente interno, l'intimità privata della stanza, non sono qui ricettacoli in cui depositare una memoria di sé, contrariamente al concetto stesso di abitare il quale, mutuando l'espressione da Benjamin "significa precisamente lasciare impronte".
Scomparso il corpo fisico, non si può affermare: qualcuno è passato di qui.
Gli ambienti successivi ospitano i quadri fotografici di un lavabo e di un bidet, una fantasia di sala da bagno dove si svolge il rituale di una toelettatura autistica e animale, con la Cortesi che meticolosamente deterge, leccandolo, il proprio corpo. Sembra che la figura voglia opporre alla fissità algida dell'ambiente la sua carnalità, la sua grana, il suo umore: una figura tutta protesa in un'atletica del tatto - che sfiora, preme, rasenta, tasta - e in una fisica del gusto - che lecca e raspa. Il corpo, com'era nella prassi pittorica dei lavori di Barzagli, si ricopre.
Qui è la guaina liquida della saliva e del sudore che aderisce come pigmento invisibile, ribadendo l'impossibilità di depositare una traccia, contrariamente a quanto avveniva per le impronte vive del colore applicato sul corpo e impresso sulla tela. In questo senso la performance rappresenta il rovescio del gesto pittorico: lì l'abbandono della scena da parte del corpo era testimoniato dall'impronta, qui la presenza del corpo fisico è continuamente minata dalla sua scomparsa, dall'alito dell'assenza che si insinua fino ai bordi della figura.
Prima di raggiungere l'ultima stanza, definita dalla proiezione di una camera da letto, la Cortesi si cosparge di crema idratante e si trucca il viso, si "dipinge", contemporaneamente pittore e tela di se stessa. Non ci sono specchi: il gesto segue i contorni della memoria di sé, stende il rossetto come anticamera di un'ordalia del corpo per partorire una traccia. (La toilette, l'ha osservato Barthes, ha sempre un fronte vittimale, designando la parola anche "i preparativi ai quali viene sottoposto il condannato a morte prima di essere condotto al patibolo". È come se, al termine di ogni toilette, vi fosse sempre il corpo ucciso, imbalsamato, laccato, imbellito alla maniera di una vittima). Sdraiata, la performer compie una serie di rotazioni orizzontali descrivendo un cerchio sul pavimento. I segmenti di questa circonferenza immaginaria sono segnati da un'intermittenza di baci, che la Cortesi stampa a intervalli regolari sulla superficie.

È una sorta di action painting erotico e crudele, dove la relazione tra il corpo e la superficie raggiunge un punto critico: la pelle si escoria mentre il movimento viene forsennato sulle note di Girl dei Beatles.
La traccia audio continua in loop e il corpo, come soggetto a una tremenda imposizione, risponde, in una coazione a ripetere che ricorda quella di Marina Abramovic in Art Must be Beautiful, Artist must be Beautiful (1975): anche qui la toelettatura, l'azione di spazzolarsi i capelli - perché "l'artista deve essere bella" - viene ripetuta fino a far sanguinare, generando l'estenuazione, la passione del corpo. Infine, la Cortesi ritorna nell'ambiente iniziale, la sala, adagiandosi ancora sull'immagine proiettata in terra.
L'immobilità del corpo e quella della scena, come di sospensione o di raggelamento, sprigiona un alito perturbante: la scena diviene una scena del delitto, col corpo abbandonato al suolo, un corpo fuori-luogo. E allora viene in mente che nel fatto di lasciare tracce consiste la premessa fondamentale per risolvere il crimine, per svelare il segreto; che dalle tracce dell'inquilino impresse nell'ambiente nasce la storia poliziesca, la quale si snoda appunto attorno a questi indizi.
Le uniche impronte che qui ci vengono offerte si richiudono nel silenzio ermetico del cerchio, figura iniziatica ma tale da non iniziare a nulla. Mancano indizi perché la figura, come res extensa, si è dissipata nelle stazioni dell'azione, e le tracce della sua sparizione sono invisibili e aeree.
Abbandoniamo una scena che trattiene l'enigma raccolto intorno a un corpo proteso nel suo divenire immagine, come un'escrescenza del quadro che, sostando ancora, vedremmo dal quadro riassorbire.



Luisa Cortesi è nata nel 1977 a Prato, città dove attualmente vive e lavora.
Dopo aver studiato danza contemporanea in Italia, Europa e Stati Uniti, inizia una collaborazione con la Compagnia Virgilio Sieni Danza partecipando, tra il 2000 e il 2003, alle produzioni: L'entrare nella porta senza nome, Fulgor, yes,yes,yes cappux red, Babbino Caro, Messaggero muto, jolly round is Hamlet, Vento, Il Funambolo.
La collaborazione con Massimo Barzagli (artista visivo, dal 1987 ha esposto in numerose mostre personali e collettive in Italia e all'estero) si è sviluppata attraverso progetti performativi (Sarabanda per mercato e disastro, 1999; La spinta di Marea, 2002, La casa assente, 2003; Luisa Cortesi p.za dei macelli n. 3 59100 Prato, 2005) e mostre (tra il 2003 e il 2005, Moto a luogo galleria Schema, Rocca di Carmignano, Sonde Palazzo Fabroni, Pistoia, collezione permanente Museo Pecci di Prato).
Di stanze, coprodotto dal Festival Santarcangelo dei Teatri, ha debuttato presso la Fabbrica di Gambettola nel 2005.
Sempre nel 2005 Cortesi-Barzagli producono Natura morta con figura (debuttato al Festival Drodesera) e Fiorile (debuttato al Festival sul Mediterraneo, SESC Belezinho di Sao Paulo).