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Art'O (2005-2009) Anno 8 Numero 20 primavera 2006



L’impermanente trasparenza del tempo

Enrico Pitozzi

Conversazione con Christine Buci-Glucksmann



cultura e politica delle arti sceniche


PRIMA PAGINA
Cara Judith

GEOGRAFIE
Superfici dinamiche
Conversazione con Maria Donata D’Urso
di Enrico Pitozzi

L’immaginario fusion di Constanza Macras
di Gianni Manzella

Che succede?
Sulla scena di Bock&Vincenzi
di Joe Kelleher

Invisibile dances… from afar
di Bock&Vincenzi

Il fantasma e la visione da lontano
di Lucia Amara


VISIONI

L’impermanente trasparenza del tempo
Conversazione con Christine Buci-Glucksmann

di Enrico Pitozzi

L’oblio del mezzo.
L’arte immersiva di Kurt Hentschläger come punto di implosione dello spettatore
di Adele Cacciagrano

Nota per una fenomenologia dell’invisibile
Sul lavoro di Skoltz_Kolgen
di Enrico Pitozzi

La metamorfosi perpetua del guerriero della bellezza
Intervista a Pierre Coulibeuf
di Elfi Reiter

Trasversalità e film-simulacro
Il cinema nel campo delle pratiche artistiche
di Pierre Coulibeuf

Il gabbiano e Sarah Moon
di Silvia Bottiroli

Metafisiche dell’atopia
di Franco Purini

Tino Sehgal e l’opera effimera
di Annalisa Sacchi

Il teatro del contagio nervoso
Su Orthographe de la Physionomie en mouvement del gruppo Orthographe
di Alessandro Panzavolta

DEC-ROOM
Mk/Michele Di Stefano

DARK ROOM
Presenza/assenza
Di Fabio Acca
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n. 25 primavera 2008

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Viviana Gravano
n. 24 autunno-inverno 2007

Alla ricerca del gesto perduto
Gianni Manzella
n. 23 primavera 2007


Merce Cunningham, “Biped”, 1999,
photo Stephanie Berger

Toyo Ito, Mediateca Sendai, 2001

Toyo Ito, Mediateca Sendai, 2001

Aprirei questa conversazione partendo da un aspetto determinante del suo pensiero. A partire da l’Esthétique du temps au Japon [Paris, Galilée, 2001. Ndr], La folie du voir. Une esthétique du virtuel [Paris, Galilée, 2002. Ndr] ma soprattutto dall’Esthétique de l’éphémère [Paris, Galilée, 2003. Ndr] lei ha sviluppato un pensiero e un’estetica dell’effimero. Questa estetica ha una stretta relazione con un rinnovato concetto di tempo. Quali sono i suoi tratti principali?

L’estetica dell’effimero prende avvio dalla volontà di esplorare il paradosso dell’effimero nell’arte. Diversamente da una concezione dell’arte sviluppata a partire dall’idea, che sia di ordine sacro o religioso, ho voluto svilupparne una lettura totalmente immanente, in un tempo impuro, intendendola come processo e divenire, valorizzando, di conseguenza, la nozione stessa di effimero. Per effimero non intendo solamente il presente, l’istante nel senso classico, aristotelico del termine, ma la modulazione del tempo nell’impercettibile, nella dimensione del passaggio. Mi sono dunque soffermata su tutti quegli aspetti che permettono di captare il tempo, di renderne percepibile il movimento.
In questo senso ho sviluppato una filosofia dell’effimero di cui possono essere isolati facilmente tre momenti: prima di tutto il momento greco, in cui l’effimero è concepito come modulazione del tempo - è l’arte di captare il tempo, in altri termini si tratta di captare quello che i greci chiamavano kairós, il “momento opportuno”, di matrice eraclitea e non parmenidea; un secondo momento è il momento Barocco, in cui la stessa intuizione sembra avanzare ulteriormente e segnare uno scarto che va dal tempo delle forme alle forme del tempo; infine un terzo momento, quello giapponese o più ampliamente asiatico, che risponde, sotto diverse forme, alla stessa istanza di tempo.
Quella che ho sperimentato in Giappone durante il mio soggiorno, è una cultura che mette l’accento sulla valorizzazione dell’effimero, un effimero colto nel suo carattere di impermanenza, (mujo in giapponese). Questa impermanenza risponde al passaggio da una cultura degli oggetti e della stabilità al nostro presente, articolato attorno a una cultura del flusso, della fluidità e della trasparenza. Quindi, lavorando nella direzione di una valorizzazione dell’effimero, ho creduto opportuno distinguerne due modalità, da un lato un effimero che ho definito melanconico, che vive il passaggio del tempo come una sorta di tragedia ontologica, una perdita di sé e che, a ben vedere, non accetta veramente il tempo, non accetta il cambiamento nel tempo e, con esso, il cambiamento dell’identità che, in ultimo, è cambiamento di sé; dall’altro ho delineato un modo di pensare l’effimero che ho chiamato positivo, nietzschiano, e che è un effimero affermativo, rivendicato come coscienza del passaggio e del tempo. L’effimero positivo integra e accetta le trasformazioni e la forma fluida in opposizione a un effimero melanconico che tende a riattualizzare senza fine il passato e le sue tracce.

Quale è la matrice di questo paradigma temporale?

Il tempo definisce una pragmatica dell’evento e l’effimero ha quindi il compito di catturare il tempo nel flusso impercettibile e nell’intervallo tra le cose. L’effimero non è esattamente il tempo ma, per così dire, la sua vibrazione divenuta visibile. Ciò è prossimo, se vogliamo, al concetto giapponese di Ma che designa al contempo lo spaiamento, l’intervallo e il vuoto. Il Ma è una sorta di respirazione, di fluttuazione nello spazio infinitesimale tra le cose. L’intervallo instaura dunque contemporaneamente una distanza e una dinamica, un vuoto e una pluralità di senso [senso qui è inteso nel doppio vincolo terminologico, direzionale e significante. Ndr].
Articolazione di continuità e rotture del flusso nel flusso, il Ma è la forma stessa del tempo. Un tempo tuttavia non misurato e non misurabile. Il Ma ha un corrispettivo, se vogliamo, nel concetto di inframince di cui ha parlato Duchamp [in Notes, Paris, Flammarion, 1999. Ndr], vale a dire una distanza infinitesimale, un ritrarsi che tende ad annullare la distanza stessa. È pertanto una differenza separativa a originare il tempo impercettibile del passaggio e del divenire. Questa dinamica a intervallo è comune a tutti gli effetti di luce propri ai riflessi e alle superfici.

A proposito di questa separazione infinitesimale, nel volume dedicato al soggiorno in Giappone lei ha parlato, negli stessi termini, di un’estetica dell’indifferenza. Potrebbe delineare gli aspetti comuni all’estetica dell’effimero?

Ho parlato di un’estetica dell’indifferenza o del trattenere (retenue), in quanto un tratto importante dell’estetica giapponese è l’instaurazione di una certa distanza racchiusa nel concetto di iki, termine che rinvia precisamente a un’erotica della distanza, qualcosa che al contempo attrae verso di sé e mantiene a distanza. Riallacciandomi a quanto sostenuto in precedenza, vedere è in realtà un “intravedere”, vale a dire praticare una visione al contempo diversa e differita grazie a uno spazio infinitesimale che separa. Dal punto di vista della forma questo assume molteplici connotazioni, tra le quali possiamo distinguere diversi modelli o matrici estetiche correlate.
Mi soffermerei pertanto sull’effetto-onda (effet-vague), vale a dire lo spirito dell’onda, della curva, e sull’effetto-superficie (effet-surface), effetto che troviamo dappertutto nella città di Tokyo, nell’architettura come nell’arte. La prima matrice, certamente la più importante, rimanda a una temporalizzazione curva e dinamica della composizione come dello sguardo che osserva, tesa alla ricerca di una dimensione spaziale avvolgente. Si avvicina dunque alla dinamica della piega fluttuante, privilegiando un tempo fatto di forze, di vettori. La seconda matrice, non meno importante, rinvia a un tempo piano nel quale riposa una energia potenziale e astratta. Per questo motivo si parla, generalmente, di variazioni potenzialmente infinite sulla superficie. Né concetto né materia, la superficie è un genere amorfo, impassibile e inaccessibile, che chiama in causa contemporaneamente la vista e il tatto in una dimensione polisensoriale.

Un’estetica così declinata sembra avere diversi punti di contatto con il concetto di “neutro” così come sviluppato, seppur in modalità diverse, da Blanchot prima e da Barthes poi.

Certamente, questo aspetto dell’estetica giapponese implica una declinazione del concetto di distanza molto vicina al lavoro di Barthes, e non a caso Barthes ha scritto un importante libro sul Giappone, L’empire des signes [Genéve, Éditions d’Art Albert Skira, 1970. Ndr] sul centro assente, su questa città, Tokyo, che è una sorta di ameba, una città di flussi senza centro o con una molteplicità di centri differenti.
Il modello cui Barthes accenna, a proposito del neutro, è dunque una sorta di trasparenza che si maschera essa stessa, come qualcosa che avvolge poggiandosi sulle cose, come uno strato leggero, qualcosa che cambia d’aspetto anche secondo l’inclinazione dello sguardo del soggetto. È questa neutralità attiva a instaurare una distanza temporale tra le cose.

In altri termini, la questione è: dare a vedere il tempo. Al centro della sua visione estetica, come ha mostrato ne La folie du voir. Une esthétique du virtuel [Paris, Galilée, 2002. Ndr] c’è quindi una nuova teoria dell’immagine. Potrebbe parlarmene?

In un certo senso il Giappone ha funzionato, nella mia visione, come una archeologia del virtuale. Nel volume da lei citato ho rintracciato la matrice barocca presente nel virtuale, così come rilevabile nel virtuale tecnologico, che potremmo definire, a ragione, neo-barocco. Tuttavia per introdurre questo discorso è necessario riflettere sullo statuto dell’immagine-flusso (image-flux) da me proposta. Potremmo dire che siamo passati dall’immagine-cristallo (image-cristal), per riprendere il termine di Deleuze, a un altro tipo d’immagine, l’immagime-flusso appunto, che lega la fluidità del virtuale tecnologico a una certa estetica della fluidità.
L’immagine-cristallo (image-cristal), che si sviluppa idealmente con Manet e che ho ampliamente analizzato attraverso l’arte e l’architettura, mi sembra abbia trovato la sua metafora e la sua allegoria politica nel vetro, vale a dire in una certa idea di trasparenza. Il vetro è qualcosa di molto particolare perché è al contempo rigido e fluido. Penso ai padiglioni in vetro di Bruno Taut e di Mies Van Der Rohe. L’immagine cristallo risponde quindi al modernismo, per recuperare una periodizzazione di facile comprensione.
Questa concezione dell’immagine possiamo ritrovarla nell’analisi che Deleuze fa ne L’image-temps [Paris, Les éditions de Minuit, 1985. Ndr] de La dama di Shangai di Orson Wells e dei film di Ophüls. Sia nelle architetture sopra ricordate che nei film ora accennati, l’immagine-cristallo è caratterizzata da una coabitazione di dimensioni temporali, presenti e passate, c’è dunque un lavoro del tempo e ciò ne svela la dimensione bergsoniana. Si tratta di un tempo principalmente continuo che può essere intervallato da arresti.
L’immagine cristallo è un operatore riflessivo e apre quindi verso una visione caleidoscopica e anamorfica. Ciò vuol dire che, in tutti i casi, il vetro ha un effetto al contempo virtuale, riflettente e specchiante. Lo specchio è servito dunque da metafora per il virtuale, come in Duchamp per esempio, che non a caso ha legato direttamente il concetto di virtuale alla sua qualità specchiante (miroirique). L’immagine cristallo, ancora una volta, non è il tempo, ma dà a vedere il tempo, come accade, seppur in modo diverso, in alcune opere di Robert Smithson o di Olafur Eliasson.
Diversamente, ciò che caratterizza l’immagine flusso (image-flux), è un’immagine senza interruzioni, senza arresti, una sorta di flusso senza memoria. Il processo epistemologico di creazione di questa immagine è molto diverso da quello impiegato nel cinema: mi sembra che l’imagine-flusso possa avere contemporaneamente una funzione obliqua e curva, di apparizione e scomparsa, che implica una declinazione diversa del virtuale, non più come simulacro, bensì come un nuovo tipo d’astrazione che ho definito, richiamandomi agli architetti, “astrazione diagrammatica”.
L’immagine-flusso è quindi un’immagine virtuale, nel senso tecnologico del termine, che si presenta con i tratti di un’estetica della leggerezza e della fluidità, come nelle immagini video di Bill Viola per esempio, che non a caso ha esplorato gli elementi, in particolare acqua e fuoco, creando immagini fluide che rispondono a quella che ho definito altrove un’arte del tempo mondializzata.
Dunque il piano fluido è adatto allo schermo perchè concatena una costellazione di immagini e tempi più affini ai cristalli liquidi dei video di Viola o alle immagini fluttuanti e acquatiche di Sip My Ocean (1996) di Pippilotti Rist, di Five Revolutionary Second (1995-1997) di Sam Taylor Wood o di You are the Weather (1994-1996) di Roni Horn, fotografa che amo molto, che alle cristallizzazioni tipiche dell’immagine moderna. Potremmo quindi affermare che l’immagine-cristallo della deformazione è diventata l’immagine-flusso della circolazione, designando quello che ho chiamato il piano fluido dell’arte; pertanto, se rimontiamo genealogicamente la storia della pittura, ritroviamo non più Manet ma bensì Monet, una sorta di fluidità pitturale.

In diverse occasioni ha citato l’architettura come matrice e veicolo della dimensione effimera. Ne L’esthétique du temps au Japon, affronta particolarmente questo versante. Potrebbe sviluppare questo passaggio?

Durante il mio soggiorno in Giappone ho lavorato molto sull’architettura giapponese, perché Tokyo risponde perfettamente ai caratteri della città fluida. C’è una città di giorno e una città notturna, avviluppata di luci, che diventa una sorta di flusso luminoso proiettato su uno schermo (ecranique). In questo contesto mi sono particolarmente interessata al lavoro di architetti come Toyo Ito, in particolare sono stata colpita dal progetto per la mediateca di Sendai, dove sono andata personalmente per vedere l’edificio in costruzione.
Di Toyo Ito mi interessa la dimensione dinamica che assumono i suoi edifici sul modello fluido dell’acqua, cercando così di rendere percepibile il tempo nella forma; è dunque un’architettura che capta il tempo, tempo cosmico, visivo e sonoro, inaugurando quello che potremmo definire un tempo architetturale caratterizzato da un nuovo paradigma della fluidità. Questa nuova architettura la definirei topologica. Nel momento in cui il modello organico è soggetto a trasformazione attraverso un processo di duplicazione, il modello topologico si riorganizza attorno a una vitalità inorganica in cui le forme sono animate da un movimento dinamico e curvo, risultato di vibrazioni, dislocazioni e sospensioni.
Un altro esempio è rappresentato dal lavoro di architetti come Stephen Perrella che riprende in architettura la striscia di Moebius, forma ripiegata su di sé di una superficie continua. Architetto e teorico, Perrella lavora su quella che chiama un’ipersuperficie (Hypersurface). Ciò crea una topologia informe che permette di relazionare l’immagine dei media, quindi virtuale, e lo spazio fisico reale, così come avviene, seppur in declinazioni diverse, per i lavori di Miguel Chevalier o i progetti di Nox e di Marcos Novak che impiegano in particolare le nuove tecnologie nell’elaborazione dei modelli architettonici, costruendo una dimensione nella quale l’architettura diviene un’interfaccia del mondo.

Ciò che mi ha molto colpito nei suoi testi è la centralità assunta dal concetto di trasparenza nel designare una visione estetica…

È evidente che un’estetica post-melanconica e della fluidità è, di conseguenza, un’estetica che ha a che vedere con la trasparenza, vale a dire con qualcosa che passa attraverso e che, chiaramente, è il flusso della luce. Possiamo dire, se preferisce, che la trasparenza richiama l’architettura del vetro, da un lato il grande vetro di Duchamp e ciò che egli ha chiamato il miroirique, non solo lo specchio (miroir), bensì l’effetto specchiante (miroirique), gioco interno di trasparenza; non a caso la quarta dimensione, ricordava Duchamp, è il virtuale, e dall’altro il “policinema” di Moholy-Nagy che destruttura il centro della visione a favore di uno “sguardo di Icaro” (icarien), così come l’ho definito a partire da L’œil cartographique de l’art [Paris, Galilée, 1996. Ndr], uno sguardo fluttuante e destrutturante. A questa trasparenza “classica”, prioritariamente visuale, si affianca una dimensione nuova dal carattere eminentemente polisensoriale in cui la trasparenza è un’interfaccia del corpo e dell’ambiente; siamo dunque in una dimensione della trasparenza che definirei dell’entre-deux.
L’entre-deux è uno spazio che sta tra le cose, tra il virtuale e la sua attualizzazione, rimanda al concetto greco di diaphanes che è, come ha giustamente ricordato Anca Vasiliu [Du Diaphane, Paris, Vrin, 1997. Ndr], l’essere della luce. Né corpo né parte del corpo, il diafano è quindi una nozione operativa di tipo relazionale. Vale a dire che implica un corpo di luce che l’accompagna e lo attraversa (dia-phos).
Secondo Aristotele, la sua visibilità è legata a un grado di saturazione della luminosità, quindi al colore. Ora, il visibile è il colore, ma questo colore non è visibile che grazie a questo medium fatto d’aria o di acqua, il diafano appunto. Detto altrimenti, riprendendo Aristotele, il diafano in atto è luce, mentre il diafano in potenza è invisibile e rimanda all’oscurità. La trasparenza esiste dunque solo a patto che qualcosa la capti e la faccia apparire. Detto altrimenti, la trasparenza del diafano non è mai un effetto prodotto, ma un medium, un veicolo e un entre-deux produttore che permette di accedere alla visione delle cose così come esse sono. La trasparenza non è dunque uno stato bensì uno scarto, creatore di tutte le immaterialità concettuali che favoriscono, attraverso l’effimero, l’aspetto evanescente e spettrale delle cose.
Direi quindi che la trasparenza dell’immagine-flusso nell’arte virtuale, quale che sia la modalità d’impiego del virtuale, è una trasparenza raddoppiata, una trasparenza della trasparenza, perché il materiale impiegato diviene, come in architettura, esso stesso riflettente, dunque diafano.

Il visibile e l’invisibile sono quindi dello stesso tessuto, quello che rimanda alla trasparenza del tutto è luce. È dunque possibile parlare, per ciò che riguarda il diagramma del corpo tecnologicamente riprodotto, di un corpo trasparente?

Penso che sia opportuno soffermarsi su questo punto. Il corpo, in una certa misura, può essere attraversato, e questo è un dato. Da qualche tempo abbiamo la possibilità di scannerizzare qualsiasi cosa, corpo di luce e unitamente, direi corpo d’ombra. Ciò vuol dire che, in fondo, il corpo è come l’interfaccia del mondo e dell’identità, nell’arte come nella vita, di un’identità plurale e aperta che si delinea contro tutte le identità chiuse che sono, di norma, integraliste.
Evidentemente la filosofia del divenire implica che, come ricordava già Eraclito, noi stessi siamo divenire. Non c’è divenire senza pluralità. Senza pluralità in me e fuori di me. A mio avviso, per riprendere i termini di Foucault, mi sembra che tutto ciò è connesso a nuove forme di soggettivazione.
Foucault pensava al recupero della cura di sé e io credo che sia necessario passare oltre, verso il divenire di sé, che è un’altra forma di cura. Ora questo divenire di sé, questa alterità o questa diversità che mi costituisce, è un’articolazione di mondi possibili. Apparteniamo a mondi diversi e plurali, ibridi. In altri termini l’effimero è un dato esistenziale, ma se l’effimero è un dato esistenziale, è ciò che c’è dunque in una relazione che dovrebbe incessantemente inventarsi tra l’alterità che mi costituisce e l’alterità esteriore. Dietro questa estetica della fluidità c’è una politica delle identità fluide.
Questi soggetti aperti, pur rimandando al concetto di Umberto Eco, [L’opera aperta [Milano, Bompiani, 1962. Ndr] si estendono a un’idea di l’identità fluida, di corpo aperto, che mi sembra sperimentale in quanto permette una forma di raddoppiamento (doublure), vale a dire una sorta di Skin Art come si dice negli Stati Uniti, e questa dinamica tende a con-fondere il corpo, ecco il punto, con la sua dimensione artefattuale.

Potrebbe fare qualche esempio?

In Biped (1999), lavoro di Merce Cunningham, abbiamo una doppia articolazione, da un lato, in basso sulla scena, abbiamo il corpo reale e danzante e dall’altro, in alto sullo schermo, su un piano immaginario per dirla in termini deleuziani, una dinamica di corpi fatti di luce e d’ombra. Possiamo accennare anche a un dispositivo ancora più inglobante e freddo, ottenuto grazie alle proiezioni video a cristalli liquidi, come in Memorandum (2002) dei giapponesi Dumb Type, in cui il virtuale convoca il reale e l’invisibile in un nuovo “elogio dell’ombra” che generalizza la nozione, prima introdotta, di entre-deux. In termini operativi non siamo molto distanti dalla leggerezza di cui ha parlato, in modo magistrale, Italo Calvino ne Le lezioni americane [Milano, Garzanti, 1988. Ndr]. Dunque siamo di fronte a nuove fonti di creazione, nuove possibilità.
Nel passato il rapporto tra il raddoppiamento e la trasparenza, è stato ben evidenziato da Roussell, soprattutto né La Doublure (1897) ma anche da Picabia che, nella sua esposizione del 1930 intitolata Transparence, ha avuto l’idea di costruire un corpo a partire dalla sovrapposizione di luce e ombra.
Sono dunque d’accordo con lei, tuttavia bisogna anche andare oltre dicendo che il virtuale implica necessariamente nuovi processi di creazione in cui l’idea integri, su un piano di immanenza, il diagramma del modello tecnologico e gli effetti prodotti, come l’immagine flusso o l’astrazione fluida. Intendo dire che siamo di fronte a una nuova epistemologia della creazione in quanto il momento tecnologico, il suo portato e i suoi effetti, sono integrati nel processo creativo. Penso dunque che tutto questo entri, di diritto, in quello che ho chiamato l’effimero affermativo.

Ha parlato del virtuale in termini di potenza, designando una sorta di comparto reale-virtuale. Possiamo parlare del virtuale come di una dimensione immateriale (penso qui all’esposizione Les Immateriaux [Centre Pompidou, 1985. Ndr] curata da Jean-François Lyotard) che avvolge il reale, una sorta d’aura, di matrice benjaminiana, che avvolge i corpi e le cose?

Ho partecipato all’esposizione Les Immateriaux del 1985 al Centre Pompidou sotto la guida dell’amico Lyotard, che in fondo annunciava ciò che avremmo vissuto vent’anni dopo. Il nodo concettuale materiale-immateriale è stato rilevatore di una certa estetica ben prima della diffusione, su ampia scala, delle tecnologie. Devo dire inoltre che, in questi termini, costituisce un problema pensare a una possibile forma di recupero dell’aura.
Il declino dell’aura è declino della presenza, del qui e ora, dunque non credo nemmeno che la pura assenza possa recuperare una forma d’aura. Può essere che il gioco di trasparenze abbia una qualità auratica, questo non è impossibile. Tuttavia, come lei sottolinea, è necessario pensare il virtuale non solo in opposizione al reale ma, dall’immagine-cristallo all’immagine-flusso a tutte le architetture digitali della nuova trasparenza, dovrebbe anche, al di là della declinazione deleuziana, essere pensato come modalità di trasformazione del reale. Io credo che sia questo, perché altrimenti abbiamo una visione dell’arte riduttiva.
L’arte se si serve della tecnologia, lo fa per trasformare contemporaneamente il virtuale e il reale. Dunque se il virtuale recupera qualcosa dell’aura è per sospendere il mondo e non per incantarlo, e questa sospensione, o questo gioco di entre-deux, di trasparenze, d’interfacce trasparenti permette, probabilmente, di recuperare qualcosa dell’aura che potrebbe anche essere un’aura di luce, ma sicuramente non ha nulla a che vedere con il sacro, con la presenza o l’assenza.
Con questo credo che qualcosa di Benjamin sia irrecuperabile.

Possiamo parlare quindi, sulla scorta di un’estetica della fluidità, di un passaggio in atto da un concetto di forma a uno di forza?

Questo è essenzialmente il punto di raccordo tra il mio approccio deleuziano e l’estetica giapponese. Una forma è un’energia e dunque è all’opposto della forma-idea, platonica, o della forma-sostanza. Mi è parso che il concetto di intervallo, il Ma giapponese, o il concetto di entre-deux, definiscano uno spazio instabile i cui perimetri sono soggetti a deformazione.
Questa deformazione contiene la possibilità di un passaggio attraverso questa frontiera, dunque ecco il concetto di interfaccia. Tuttavia devo dire che esiste un concetto ristretto di interfaccia che è propriamente tecnologico, mentre ne esiste uno più ampio, che credo possa essere associato al virtuale in arte.
In opposizione a un pensiero della forma tipico dell’occidente, in cui la forma corrisponde a una certa pienezza e simmetria, ho ritrovato in Giappone, come d’altro verso in Leibniz, l’idea di una certa asimmetria, hitaisho in giapponese, o della forma informe, in cui il virtuale è concepito come l’attualizzazione d’una forza, dunque declinato dalla parte della potenza della forma.

A questo proposito penso al lavoro di Claudio Parmiggiani, soprattutto al suo ciclo di opere Delocazioni (1970), vero e proprio elogio dell’ombra, o a Polvere (1997), entrambe impegnate a designare forme di distanza, di allontanamento de/alla materia.

Si assolutamente. Sono d’accordo. Parmiggiani è un artista che ha esplorato abbondantemente la dimensione impercettibile delle cose, di ciò che ha una consistenza molto leggera, leggerezza dello sguardo e fluidità di natura eminentemente passeggera e impermanente…

…e lo ha fatto per rendere visibili forze che non lo sono altrimenti, impercettibli, tanto per recuperare un passaggio iniziale della nostra conversazione. Questo aspetto è particolarmente riscontrabile anche nell’elaborazione contemporanea del suono. Lavorare sul suono molecolare significa pensarlo nei termini di una pluralità di tempi concatenati e multipli.

Certamente, l’energia o forza, cui prima abbiamo accennato, è dinamica. Pensando la forma a partire dall’informe e dall’energia dispiegata rendiamo visibile l’invisibile, come ricordava Paul Klee. Non a caso Paul Klee è stato il più importante artista e teorico che ha analizzato la forma come gestaltung, vale a dire come sviluppo dell’energia. Energia circolante, della linea piegata o dispiegata.
Ho lavorato anche sull’aspetto musicale, in particolare sull’opera barocca [L’enjeu du beau, Paris, Galilée, 1986. Ndr] e inoltre sulle musiche, direi, connotate dalla sparizione del suono. Non ancora la musica elettronica, ma piuttosto delle opere come Papillons di Schumann, o alle vibrazioni e sospensioni sonore di Glissandi (1957) di Lieti.
Siamo anche qui in una dimensione sonora talmente leggera da rendersi quasi impercettibile. In questo contesto sono d’accordo con lei, il suono ha una sorta di quarta dimensione nello spazio. Il suono è uno spazio-tempo a velocità infinita, è in un divenire sonoro impercettibile o, viceversa, in un divenire sonoro violento. Questi estremi o queste modulazioni sono maniere diverse di scolpire il suono nello spazio.
Tuttavia, sia sul versante visivo che su quello sonoro, ciò che è rilevante è che dal momento in cui si è pensata la forma a partire dall’energia, si è messo in opera un altro pensiero del tempo. Credo che questo sia il compito dell’arte: essere, in un certo senso, in anticipo sul tempo.
L’arte è comunque un’arte del tempo, sempre.


Un ringraziamento particolare a Emanuele Quinz

Christine Buci-Glucksmann, professoressa emerita de l’Université Paris 8 (département Arts Plastiques) è tra le figure più interessanti del panorama filosofico francese ed europeo. Specialista di estetica e di arte contemporanea, è autrice di diversi volumi e pubblicazioni in Francia come all’estero, dove ha lungamente soggiornato ed insegnato (Cina, Giappone). Tra le sue opere più significative ricordiamo Gramsci et l’Etat, Paris, Fayard, 1975 (tr. it., Gramsci e lo Stato, Roma, Editori Riuniti, 1976); La Raison Baroque. De Baudelaire à Benjamin, Paris, Galilée, 1984 (tr. it., La ragione Barocca, Genova, Costa & Nolan, 1992) e le opere recenti L’œil cartographique de l’art, Paris, Galilée, 1996; L'esthétique du temps au Japon. Du zen au virtuel, Paris, Galilée, 2001, volume pubblicato dopo il soggiorno in Giappone. Ricordiamo inoltre il testo
"Les lieux de la transparence", contenuto nell’opera collettiva Œuvre et lieux diretta da A.M. Charbonnaux e N. Hilaire e pubblicata per i tipi Flammarion nel 2002;
 La folie du voir. Une esthétique du virtuel, Paris, Galilée, 2002 e Esthètique de l’éphémère, Paris, Galilée, 2003, nel quale sono racchiusi i tratti principali del suo pensiero estetico. Il suo ultimo volume, nel quale è delineata una visione dell’estetica post-melanconica, è Au-delà de la mélancolie, Paris, Galilée, 2005.