L'edicola digitale delle riviste italiane di arte e cultura contemporanea

::   stampa  

Millepiani Anno 13 Numero 30 febbraio 2006



Immaginare ambiente

Tiziana Villani



Filosofia, estetica e politica


5 Editoriale

7 Bernard Stiegler
La rimozione di Freud

33 Félix Guattari
Ecosofia

41 Ubaldo Fadini
Alla ricerca del mondo perduto

55 Tiziana Villani
Immaginare ambiente

67 Manola Antonioli
La svolta tecnologica della sensibilità

81 Pierre-Antoine Chardel
Diacronizzazione e sincronizzazione delle coscienze nell’età iperindustriale

95 Katia Rossi
La temporalizzazione industriale delle coscienze

109 Roberto Barbanti
Bernard Stiegler e il rinnovamento della questione estetica

141 Stefano Righetti
Relativismo dei valori,
valore del marketing
155 Gabriele Fadini
Ad(versus) imaginem

169 Saverio Caponi
L’eco di Narciso

191 Simone Biagini
Da dove nasce il bisogno della marca?

artefacts
205 Marco Scotini
Cartografie della Realidad

217 Recensioni
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

La macchina del senso
Nicola Lonzi
n. 40 novembre 2013

Ontologia e praxis istituzionale
Ben Matsas
n. 39 novembre 2012

L'uscita dal futuro
Tiziana Villani
n. 37 novembre 2011

Deep Ecology ed ecosofia
Silvano Cacciari
n. 36 novembre 2010

Il Fuori della Filosofia. Crisi di senso, vero dire e umorismo
Tiziana Villani e Ubaldo Ladini
n. 35 novembre 2009

Cittadinanza radicale nella repubblica della tecnologia
Darin Barney
n. 34 ottobre 2008


Regina José Galindo
Quien puede borrar las huellas?

Stefano Vailati
Corpo 64
Olio su carta telata 42 x 27,8 cm

Teresa Margolles
Bagno
Frankfurt – Alemanna- Maggio 2004

Quando si è completamente immersi in un’epoca di profonda trasformazione è di solito difficile comprenderne sia l’intensità, sia i processi che vi si producono.
Il nostro “essere al mondo” è mutato parallelamente al nostro modo di pensare e spendere le esistenze. Lo sviluppo delle tecnologie, degli usi e dei saperi ad esse connessi hanno forgiato un ambiente per un verso plastico, e apparentemente di facile accesso, e per un altro un piano esistenziale incerto e oscuro che richiede notevoli capacità di interazione e comprensione.
La rete delle relazioni, dei patti sociali, degli usi economici e politici è chiamata ad infrangere paradigmi di pensiero un tempo ritenuti consolidati, ma ormai desueti di fronte alle mutazioni in atto.
Alcuni strumenti utili per affrontare una simile riflessione provengono dalla considerazione dell’ambiente inteso come insieme dinamico dei rapporti tra soggetti, territori e tecnologie.
Tra i primi ad aver posto con forza la centralità di un simile approccio vi è senz’altro Félix Guattari che nel suo testo intitolato Le tre ecologie, affrontava così la questione: “Il principio comune alle tre ecologie consiste, dunque, nel fatto che i territori esistenziali con cui ci portano a confrontarci non si danno come un in sé, chiuso su se stesso, ma come un per sé precario, finito, finitizzato, singolare, singolarizzato, capace di biforcarsi o in reiterazioni stratificate e mortifere oppure in un’apertura processuale a partire da prassi che permettano di renderlo ‘abitabile’ da parte di un progetto umano. E’ questa apertura prassica che costituisce l’essenza di quest’arte dell’«eco» che sussume tutte le maniere di domesticare i territori esistenziali, sia che riguardino modi intimi d’essere, il corpo, l’ambiente o dei grandi insiemi contestuali relativi all’etnia, alla nazione o anche ai diritti generali dell’umanità”.1

Il per sé auspicato da Guattari è dunque strettamente connesso con la progettazione d’ambiente, con la pratica attiva dell’oikos. I territori esistenziali appaiono oggi complicati da stili di vita che richiedono elevate capacità performative. Si evidenzia in modo macroscopico una difficoltà di esistere in un insieme sociale senza che questo provochi continui cortocircuiti di ansia, frustrazione, paura e depressione.
Queste situazioni, lungi dall’essere individuate come inadeguatezze del singolo, si profilano come trama collettiva, cui si risponde attraverso il dispiegamento di tecniche depressive e repressive che finiscono con l’acuire i problemi.
Osservando il diffondersi delle nuove patologie sociali, possiamo comprendere in che modo l’accelerazione dei mutamenti, richieda un’estrema duttilità e adattabilità degli esseri umani che parafrasando Nietzsche si trovano sospesi tra l’animale e l’“oltreuomo”. La condizione di sospensione non è facile da gestire, siamo esseri caduchi tesi verso un orizzonte che cerca di governare la vita potenziandone la resistenza, la forza e la durata. Le biotecnologie, un certo “genetismo” positivista non possono essere gli unici strumenti chiamati a rispondere alle tensioni di un divenire che ci offre scenari di grandi possibilità, ma anche di profonde inadeguatezze. Questo scenario concretizza ciò che A. Berque, riferendosi a Leroi-Gourhan, chiama corpo mediale ossia: “Ciò che Leroi-Gourhan chiama «corpo sociale» corrisponde a quel che io chiamo «milieu umano»; e il processo di esteriorizzazione che lo genera, non è altro che la nascita dell’ecumene. Precisiamo, tuttavia, che i milieux umani aggiungono necessariamente la dimensione ecologica alle due dimensioni tecnica e simbolica, attributi del corpo sociale secondo Leroi-Gourhan. Dal punto di vista dell’ecumene, parlerò dunque di un corpo mediale, che combina l’ecologico con il tecnico e il simbolico, ossia con il sociale”.2

È dunque nel corpo mediale che si produce quel movimento contraddittorio che abbiamo definito di sospensione, in esso si potenziano delle capacità mentre altre ne risultano depresse, in questo modo si modifica la corporeità del nostro esistere e dell’ambiente che creiamo.
L’impatto che la rivoluzione tecnologica sta producendo sui modi di esistere è complicato dalla volontà di governare questo processo solo in modo tecnocratico. Tuttavia la quotidianità, il modo di intendere e produrre la vita, proprio in virtù di questa svolta, inclina verso un potenziamento del molteplice.
L’evoluzione della specie umana ha raggiunto un tale grado di esteriorizzazione delle proprie protesi da aver profondamente mutato non solo i tradizionali concetti di configurazione degli ambienti, ma anche l’idea di temporalità che li esprime. Il tempo ciclico, al pari del tempo lineare è stato sostituito da una temporalità multidirezionale, caratterizzata da variazioni ed intensità compresenti.
La condizione animale ha subito dunque una torsione, che richiama l’intuizione di Giordano Bruno riguardo all’animale “quasi pazzo” e al furioso, che accetta di compromettersi con le tensioni contraddittorie del sentire umano.
In che modo è possibile oggi concepire il “divenire furioso” della specie umana?
L’immiserimento dell’immaginario rende l’esistenza una “cosa pazza”, umiliata, offesa nella sua parte più istintuale e creativa.
Proprio nel tempo di quella che possiamo considerare una delle più profonde trasformazioni antropologiche della storia, siamo anche chiamati ad attraversare una perversa umiliazione. Umiliati, perché privati di mondo e costretti ad una brutale perversione, che cataloga ogni specie, e il vivente in generale, come se fosse il residuo di una perduta memoria di non si sa bene quale originario stato di natura.
Divenire una “cosa pazza” significa subire una privazione di mondo che l’effetto della catalogazione tende a celare: lo smarrimento di una capacità di progettare ed immaginare proprio all’interno della trasformazione. Si diviene “cosa pazza” quando il processo di soggettivazione è costretto a soggiacere a degli imperativi che prescrivono minutamente il modo di concepire le esistenze, di desiderare, di esprimere e dunque di creare la vita. La “cosa pazza” è la torsione che cerca di congelare e disciplinare il divenire, e ne è al contempo l’ombra, ossia l’indicazione di un disagio, di un mal di vivere che stenta a recuperare le ragioni di questa condizione.
Nell’analisi di B. Stiegler questo stato delle cose è così analizzato: “Cognitives et culturelles, ces technologies du savoir, concrétisant et généralisant l’extériorisation du système nerveux et de l’imagination, ont intégré et formalisé savoir-faire et savoir-vivre, et sont ainsi devenues des technologies du pouvoir de contrôler par lesquelles surgit un conflit dont la perte de partecipation est le symptôme le plus visible. En tant qu’elles sont culturelles et cognitives, elles devraient constituer les technologies d’un esprit nuveau. Or, elles sont, tout au contraire, entièrement mobilisées pour empêcher l’émergence de cet esprit nouveau: leur usage est donc proprement perverti”.3

Tutto ciò non avviene di certo in modo ingenuo, occorrono delle complicità, degli utilitarismi di corto respiro, e una vocazione gregaria perché si possa legittimare e accettare supinamente l’operato delle attuali tecnologie del controllo.
L’esercizio dei saperi, della ricerca, nel presente appaiono sviliti dalla banalizzazione dell’informazione e della comunicazione in generale. La “miseria” della filosofia, dell’arte e della scienza non attengono tanto lo stato reale della ricerca, quanto la volgarizzazione di un linguaggio retorico ed estetizzante, che intende nascondere le verità possibili dietro una violenta immagine di banale consolazione.
Ciò che è in questione è la creazione delle soggettività, che devono uscire, afferma F. Guattari, da una logica riduzionista: “Le formazioni di soggettività inconsce, ossia la fuoriuscita dalla soggettività predeterminita, la soggettività che è «causata» – in tutti i sensi del termine – nella società attraverso i media, le concertazioni collettive. Ciò significa la produzione soggettiva, l’invenzione di se stessi, l’invenzione del contesto in cui si vive”.4

La “cosa pazza” è indotta a non sentire, perché è stata pervicacemente addestrata a realizzare una costruzione di sé omologata, dunque è piuttosto incline a sviluppare una retorica che al massimo può dar luogo a un narcisismo vuoto, espressione odierna di un vero e proprio fenomeno di massa.



Ecosofia

Nel tempo in cui viviamo il panico appare singolarmente diffuso, ma è altrettanto vero che le radici di questo sono diverse e indicano la marginalizzazione di tante espressioni che non riescono a svilupparsi.
La costruzione di sé, come la creazione di ambiente sono movimenti che realizzano incessantemente alterità, straniamenti, modificazioni che non possono essere facilmente appiattite, e quando ciò accade ecco che questi processi profondamente creativi cadono sotto il segno del patologico.
Nelle parole di G. Deleuze dedicate al divenire minoritario, possiamo a questo proposito, leggere: “In breve, c’è una figura universale possibile della coscienza minoritaria, come divenire di tutti, ed è questo divenire che è creazione. Nello stabilire la figura di una coscienza universale minoritaria, ci si rivolge a potenze del divenire che appartengono ad una sfera diversa da quella del Diritto e del Dominio. Sarebbe questo il compito della filosofia, in opposizione alla sua astratta pretesa maggioritaria.
La filosofia sarebbe attraversata da tutti questi divenire, sarebbe in connessione con loro. Il suo discorso sarebbe il discorso indiretto libero (anche nel linguaggio, si è attribuita troppa importanza alle figure della retorica: metafora, metonimia…ecc., mentre tutte le funzioni del linguaggio si esplicano soltanto altrove, nelle forme del discorso indiretto: un rumore, un linguaggio di ogni popolo)”.5

Gli spiriti forti, nietzscheanamente intesi, sono chiamati a riconsiderare profondamente il ruolo della creazione del sé-ambiente, in un tempo che sembra spezzare ogni possibilità di liberazione.
Infatti, il processo in corso accentua il mutamento di funzione degli organi-protesi non solo attraverso un’esteriorizzazione sempre più intensa delle capacità performative, ma anche di tutto ciò che riguarda gli istinti chiamati ad interagire con questa radicale trasformazione di ambiente.
È in questo passaggio critico, in questa crisi che occorre individuare la possibilità di ripensare il modo di “essere al mondo”. Nell’Introduzione all’edizione italiana de Le tre ecologie, F. Guattari afferma: “la crisi ecologica rinvia ad una crisi più generale del sociale e del politico. Di fatto, ciò che viene posto in discussione è una sorta di rivoluzione delle mentalità che oggi si fanno garanti di un certo tipo di sviluppo, di un produttivismo che ha perduto ogni finalità, a parte quella del profitto e del potere, di un ideale di consumo che confina con l’infantilismo. […] Non si tratta più soltanto di affermare dei diritti democratici, dei diritti formali dell’uomo e della donna, ma è altresì necessario che, in tutte le concertazioni collettive, venga tenuto in conto l’essere dell’altro, con il suo carattere di differenza, di libertà, di apertura a campi di possibili infiniti”.6

L’odierno “disagio di civiltà” nasce dunque da una ferita che riguarda una radicale perdita di senso della vita, che comporta inoltre lo smarrimento della creazione di un “per sé” potente, progettuale e libero. Le esistenze raggiungono un vero e proprio punto crisi proprio nel momento in cui le capacità performative paiono svilupparsi in modo inarrestabile. Ma, un simile orizzonte segna al contempo, in modo inequivocabile, il limite dato dall’impossibilità di governare compiutamente il complesso delle trasformazioni accelerate del nostro tempo.
Il governo tecnocratico delle esistenze è una tendenza che non riesce a mascherare la percezione di un “rischio catastrofe” che incombe e che è dovuto a un modello di sviluppo ultraliberista ormai incapace di pensare un patto sociale più giusto.
Gli “spiriti forti” devono riconoscere questo rischio catastrofe senza cadere nella trappola del nichilismo, poiché questo non è inevitabile. Il conflitto si gioca così sul piano di un umano mutato all’interno del quale delle élite povere di mondo decidono che la maggioranza della specie è assoggettabile e sacrificabile.
U. Fadini legge nel modo seguente questo processo: “L’uomo è un animale che si sta spogliando della specie. Inoltre, l’istinto tradurrebbe le urgenze dell’animale e l’istituzione le esigenze dell’uomo: l’urgenza della fame diviene nell’uomo la rivendicazione di avere pane. In definitiva, il problema dell’istinto e dell’istituzione sarà colto al suo culmine, non nelle ‘società’ animali, bensì nei rapporti tra l’uomo e l’animale, quando le esigenze dell’uomo si affermano sull’animale integrandolo nelle istituzioni (totemismo e addomesticamento), quando le urgenze dell’animale incontrano l’uomo, sia per metterlo in fuga o per attaccarlo, sia per ottenere nutrimento e protezione”.7

L’uomo nel suo movimento di abbandono delle specie originaria è intervenuto sull’animale, come anche sull’ambiente configurando una “nuova natura” chiamata ad integrare, ridefinendole, le tracce originarie. L’agire degli istinti deve così commisurarsi con un esistere mutato, in un mondo anch’esso diverso, che richiede la creazione di un nuovo sé-ambiente.



Corpo selvaggio e desiderio

La soddisfazione degli istinti avviene attraverso le attuali procedure di un ambiente tecnicizzato, che richiede un agire trasformato dall’impiego costante di protesi e artifici. Il processo di soggettivazione che ne deriva evidenzia così caratteri originali. Si verifica, in questo agire, un automatismo che privilegia il mezzo rispetto alla tendenza e al desiderio.
Tuttavia, la memoria e la tensione di un desiderare meno mediato, più diretto e intransigente permane. La percezione di un desiderio capace di intervenire direttamente nel mondo per “ricavarne soddisfazione” risulta frustrata da una mediazione artificiale, che se da un lato amplifica il regno delle possibilità, dall’altro le struttura rigidamente veicolando la tensione del desiderare verso un orizzonte preconfezionato.
In questo modo il corpo selvaggio è costretto a tacere, a ritrarsi e a sublimare altrimenti le proprie pulsioni. Non è un caso se tutta una serie di patologie, che affliggono il nostro tempo, paiono ancorate al comune terreno di una depressione che ha assunto le forme di una vera e propria epidemia sociale. La morte, la “pulsione di morte” diviene uno scandalo negato, un divenire inaccettabile salvo poi riversarsi in un’infinità di forme distruttive e autodistruttive che feriscono l’esistenza.
Il movimento sopradescritto si configura come un dispositivo estetico che induce un processo di esteriorizzazione degli istinti del tutto omologato.
Ne deriva che l’agire, che lo sviluppo tecnico dovrebbe liberare e potenziare, risulta invece singolarmente controllato. Le forme del controllo sia diretto che indiretto tendono a rendere l’esistenza una cosa inserita nel circuito del consumo fine a se stesso. È questo il volto delirante del nostro modello di sviluppo giunto al culmine della propria insensatezza.
La vita privata della sua tensione verso il proprio potenziamento appare, nel circuito autoreferenziale della mercificazione, una “povera cosa”.
Riconsiderare il piano degli istinti e delle tendenze richiede la messa in opera di saperi che confliggano apertamente con l’attuale regime della mortificazione estetizzata, della mercificazione dell’esistere. In proposito B. Stiegler considerando quella che lui definisce una teoria dell’organologia generale, come praxis e non solo come modello, afferma: “L’organisme organo-logique qu’est l’âme noétique, non seulement réagit par rapport à son environnement, mais agit sur lui en formant à son endroit des dèsirs. Ces désirs constituent une volonté. Mais ceci n’est possible que parce que cet environnement n’est pas simplement un milieu, mais un complexe organologique – que l’on appelle habituellement un monde. Ce monde est celui du désir, et le désir s’y forme comme circuit du désir. Comme circuit, le désir est une action, c’est –à-dire l’économie libidinale de relations affectives et de pratiques instrumentales au sein d’un horizon d’artefacts techniques et de traces, d’œuvres, d’outils, d’instruments et de choses, où se constitue un horizon social formé d’organisations sociales, et où ces organismes sociaux individuent une loi”.8

È proprio questa produzione del desiderio che dobbiamo più attentamente indagare. Il flusso del desiderio è indirizzato alla creazione di un ambiente che dovrebbe soddisfarne la tensione, affinché ciò accada occorre che il desiderio custodisca una propria autenticità.
Ma l’autenticità del desiderio e delle pulsioni istintuali oggi sono posti in questione dall’ideologia produttivistico-consumista. Soddisfare gli istinti è difficile quando la loro sollecitazione è sempre più dovuta all’induzione di bisogni costruiti dal circuito della comunicazione massmediale. Il desiderio si configura così come un campo di intervento in cui gli istinti devono essere addomesticati e le istituzioni svuotate di potenza e di senso.
L’agire, lungi da perseguire un riconoscimento della necessità di un percorso di liberazione, viene immediatamente inscritto nel circolo vizioso: omologazione, identità, appartenenza, consumo.
Nasce così il regime depressivo, la grammatica della trasformazione di senso. La gestione del sistema del desiderio consiste principalmente nella strutturazione di un ambiente, indicato dalla grammatica dominante, che deve imporre con ogni mezzo i codici e le norme che disciplinano il nostro quotidiano.
Perdura così nella lingua dominante il presupposto di “un’anima patriarcale” unica ad essere in grado di stabilire l’ordine, soprattutto l’ordine pubblico. Quest’anima di antica memoria confligge con il corpo-terra, con il corpo-ambiente, ossia con quell’imago mundi sofferente di cui parla J. Hillmann.9

Questa sofferenza segna il corpo selvaggio che si trova ad essere sostituito dal suo doppio distorto: il corpo consumo. Alla creazione d’ambiente si oppone la pre-costituzione di un ambiente reso significativo dal linguaggio estetizzante. L’estetizzazione dell’economia, della politica è una tecnica di governo del desiderio piuttosto sofisticata. Infatti, l’agire estetico svincolato dalla creazione artistica, dalla creatività del fare si trasforma in codice normativo. In ragione di questa sua caratteristica l’estetizzazione dell’economia, del sociale e delle esistenze rivela la sua natura violenta. Le forme attraverso le quali si manifesta sono piuttosto differenziate, ma convergono in quello che potremmo definire come un neo-tribalismo di massa. Gli istinti brutalizzati diventano patologie, produzione di meccanismi di riconoscimento che si cristallizzano in identità precarie, la cui certificazione è assicurata dal meccanismo del consumo. Sempre più sacrificata appare la zona d’indiscernibilità tra l’uomo e l’animale, mentre sempre più tirannico appare il bisogno collettivo di stringersi entro procedure di tipo gregario. Diviene così patologico e ben poco rassicurante l’istinto del gregge, poiché in esso ogni alterità, ogni creatività dev’essere addomesticata.
L’eccedenza del corpo selvaggio rischia così di diventare il capro espiatorio del nostro tempo. Il corpo selvaggio è divenuto il luogo della ferita, della creazione artistica disprezzata. Affinché esso non venga completamente cancellato dal progresssivo movimento di spogliazione della specie ad opera dell’uomo, occorre riconoscerne la necessità e il valore. Non è dunque in questione alcun atteggiamento nostalgico, quanto con Spinoza continuiamo a considerare la potenza del corpo, “ciò che esiste e opera per la sola necessità della sua natura”, e come fondamento del patto tra esistenze libere.10

Lo sviluppo tecnologico può e deve riscoprire nel corpo selvaggio, l’“imprevisto dalla storia” come insegna il movimento delle donne, la sua radice, nonché la sua forza dotata di creazione di senso.
La moltiplicazione di nuovi linguaggi ad opera delle odierne tecnologie, soprattutto nel campo della comunicazione non è una negazione del corpo materiale e non può essere nemmeno essere considerata come un’ennesima variazione di protesi. Il moltiplicarsi dei linguaggi può costituire una valorizzazione delle capacità espressive e creative.
È dunque una considerazione artistica che occorre mettere in atto, poiché il corpo è essenzialmente una rete di linguaggi che intrecciano comunicazioni diverse permettendo di cogliere l’ambiente in modo articolato, rendendolo abitabile nel modo migliore possibile. Potremmo chiamare questa capacità d’azione, la forza immaginativa che artisticamente riesce a produrre felicità per l’esistenza, ancor più precisamente nelle parole di M. de Certeau possiamo leggere: “l’image, fantôme du corps expert et muet, préserve la différence”. Questa differenza, o molteplicità, è posta come fattore originario “Je suppose – continua de Certeau – que le pluriel est originaire; que la différence est constitutrice de ses termes; et que le langage est voué à cacher indéfiniment par une symbolique le travail structurant de la division”.11

A questa differenza produttrice di azione occorre rivolgersi nel tempo in cui il corpo è sempre più indicato come eccedenza da addomesticare, come potenza da rendere silente.




NOTE

1. F. Guattari, Le tre ecologie, Torino, Sonda, 1991, pp.33-34. In questo saggio Guattari avanza con notevole acutezza un proposito di ricerca teso a considerare l’ecologia come un ambito privilegiato di una critica propositiva nei confronti della crisi cui è pervenuto il nostro attuale modello di sviluppo.
2. A. Berque, Écoumène, Paris, Belin, 2000, p. 98.
3. B. Stiegler, De la misère symbolique. 2. La catastrophè du sensible, Paris, Galilée, p. 88-89.
4. F. Guattari, La philosophie est essentielle à l’existence humaine, Paris, éd. de l’Aube, 2002, p. 9.
5. G. Deleuze, Filosofia e minoranza, in «Millepiani», n. 12, Milano, Mimesis, 1997, p. 40.
6. F. Guattari, Le tre ecologie, cit., pp. 7-8.
7. U. Fadini, Introduzione a G. Deleuze, Istinti e Istituzioni (a cura di U. Fadini e K. Rossi), Milano, Mimesis, 2002, p. 32-33.
8. B. Stiegler, De la misère symbolique, cit. p. 226.
9. Cfr. J. Hillmann, Il piacere di pensare, Milano, Rizzoli, 2001.
10. Vedi in proposito il numero 22/23 di «Millepiani», Milano, 2002 interamente dedicato a questa tematica e a Spinoza.
11. M. de Certeau, L’invention du quotidien, vol I, Paris, Gallimard, 1990, p. 68 e p. 197.