Inside Art Anno 3 Numero 25 ottobre 2006
Incontro con Adrian Paci
Un baracchino, con la scritta “piktor” sulle lamiere e gli interni zeppi di Michelangioli in copia e certificati falsi. L’artista permeato di classicismo e bellezza rinascimentale, l’uomo del postcomunismo che per sopravvivere deve falsificare pure sé stesso. Una Mercedes nera e lucida in un campo profughi, col vano portabagagli aperto, inzeppato di bestie scannate. La tecnologia usata da una classe a cui non è destinata, da chi vive ai margini e di espedienti, carnefice locale e vittima sacrificale globale. Sé stesso, usato come calco a mo’ di novello Atlante che anziché il mondo regge sulle spalle un tetto. La fatica di trascinarsi il proprio vissuto, ma anche il rovesciamento dell’idea di casa, di radici e stabilità, in volo e libertà.
Non è più un nomade, Adrian Paci, dopo aver trovato a Milano quanto lasciato a Shkoder, in Albania, dove è nato 37 anni fa. Né la polizia lo ferma più accusandolo di pedofilia per aver pubblicato immagini di una delle figlie nuda col codice a barre impresso nelle carni – un’altra canta una filastrocca, o più elegiacamente è assisa con vesti da principessa in un portale di luce – ma la sua idea di arte attraversa ancora sensibilità distanti e luoghi comuni, per approdare al reale, al senso dell’esistere contemporaneo. A un atto di fede ma privo di compenso certo: l’impulso a cambiare, tutto e sempre, compresa l’idea stessa dell’arte. Ha detto: «Le mie opere sono radicate nella vita, vogliono essere testi per penetrare la realtà».
Cioè? «Spesso i miei lavori nascono in rapporto ad una vicenda vissuta. L’esperienza costituisce però solo il punto di partenza per poi dissolversi nella costruzione dell’opera che mira a vari livelli di lettura e possibilità interpretative. La connessione diretta e dichiarata con la realtà mi interessa per l’immediatezza e la spontaneità con cui riesce a nutrire il lavoro, ma dall’altra parte l’operazione artistica ha a che fare con la finzione e si tratta comunque di affrontare il problema della costruzione di un linguaggio».
I temi della natura, le radici e il senso della morte, sono al centro della sua riflessione artistica. Qual è il suo percorso? E c’è un filo che unisce le sue opere, l’andare sui sentieri dell’arte? «Io ho cominciato la strada dell’arte da piccolo e purtroppo nella vita non sarei capace a fare altro. Durante questo percorso ho avuto esperienze diverse. Ho cominciato con un’educazione classica utilizzando il disegno e la pittura, lavorando molto con la natura e seguendo come modello i maestri del passato. Questa esperienza, anche se molto restrittiva ha comunque fatto sì che io avessi con il linguaggio dell’arte un rapporto profondo. La fine dell’accademia è coincisa con il crollo del regime comunista e allora mi sono liberato verso l’astrazione, fino ad allora proibita, e ho fatto lavori dove la valenza del segno e del gesto erano al centro dell’espressione. Il contatto più ravvicinato con le esperienze contemporanee ha messo in crisi questo approccio entusiasta verso l’astrazione. E così, quando le vicende della vita mi hanno messo di fronte a esperienze di forte cambiamento e anche di forte coinvolgimento umano ho deciso di non considerare queste vicende come un ostacolo verso la strada dell’arte ma, al contrario, come una risorsa, giocando con esse come con qualsiasi materia che un artista usa nel suo lavoro. C’è comunque una partecipazione umana come c’è anche la distanza necessaria che ti permette di manipolare il materiale con cui stai lavorando. Il filo rosso se c’è deve rimanere nascosto e non penso di fare lavori che intenzionalmente si legano tra loro».
Angela Vettese, che ha curato una sua recente mostra a Modena, ha definito l’artista un nomade del concetto. Lei si sente nomade, in senso artistico e umano? «Le esperienze contemporane dall’inizio del Novecento ai nostri giorni ci hanno abituato all’idea dell’impossibilità di definire l’arte e ci hanno offerto sempre altre possibilita di apertura delle frontiere del suo concetto. Spesso io ho vissuto la mia avventura dentro il labirinto del concetto dell’arte in stretto connessione con la mia avventura umana. Ho trovato questa connessione stimolante e diversi lavori nascono proprio da questo punto di contatto».
Che rapporto c’è fra l’artista e il suo paese d’origine o quello d’elezione? «I rapporti che non solo un artista, ma in generale ciascuno di noi, crea con i luoghi di provenienza o quelli di adozione sono complessi. I fili che ci legano sono molteplici e non sempre quelli più visibili sono i più influenti. Poi quando diciamo paese intendiamo molte cose, dalla sua storia alla sua geografia, dai suoi personaggi del passato a quelli della cronaca odierna, dal cibo e dai costumi alla politica che un certo governo adotta. Non saprei dire se nel mio rapporto con l’Italia abbia avuto più influenza, per esempio, un film di Rossellini oppure la legge Bossi-Fini (fa pure rima). Questo solo per fare un esempio un po’ estremo, ma se vogliamo possiamo continuare con un elenco molto lungo».
Lei ha avuto problemi con la polizia italiana per aver fotografato le sue figlie nude, in alcune sue opere. Ha ricostruito quell’esperienza in un video dove appare l’incomunicabilità non solo fra due mondi, ma sull’idea di arte. Che riflessioni le ha suscitato quella vicenda, sul piano artistico e personale? «In quella esperienza si incontravano in un modo “naturale” una serie di elementi che possono aprire la strada ad una riflessione più ampia ma che comunque rimangono dentro la dimensione di una storia accaduta e vissuta in modo personale e intimo. C’è lo straniero di fronte ad un cittadino italiano, c’è l’individuo di fronte ad un rappresentante della burocrazia statale, c’è un uomo sospettato di abuso sui minori di fronte ad un poliziotto che lo interroga e infine c’è un artista davanti ad un fruitore del suo lavoro. Tutti questi elementi si incontrano in un dialogo assurdo ma anche divertente tra me e il poliziotto della squadra mobile di Milano. Mi interessava indagare la fragilità dell’artista quando, non protetto dal contesto dell’arte, deve affrontare un ambiente che lo guarda con sospetto e ostilità».
Insomma, cos’è l’arte per lei e qual è il suo sogno d’artista? «Ad una domanda messa così faccio fatica a rispondere in modo conclusivo. Abbiamo appena parlato della impossibilita di definire l’arte. Alla fine si tratta sempre di rispondere a degli stimoli interiori o esteriori con un linguaggio che porta dentro qualcosa di vivo, perciò anche di misterioso e non solo di razionale. Ho sempre avuto una certa diffidenza verso le decisioni prese a tavolino. Considero l’opera una specie di avventura nello stesso tempo giocosa e faticosa nel mondo, dentro sé stessi e il linguaggio. Non ho un sogno particolare, se non quello di continuare questa avventura».