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Around photography (2004-2009) Anno 3 Numero 10 novembre - febbraio 2006



Tachiguishi Retsuden

Francesco Di Chiara

The Amazing Lives of the Fast Food Grifters



riverberi dalle immagini infocinevideofotografiche


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scene tratte dal film Tachiguishi retsuden

scene tratte dal film Tachiguishi retsuden

scene tratte dal film Tachiguishi retsuden

L’attenzione da sempre rivolta al cinema orientale da parte della gestione Müller ha fatto sì che nella selezione ufficiale dell’ultima mostra cinematografica di Venezia fosse presente un discreto numero di pellicole di animazione giapponese. Quello che colpisce, però, è il fatto che a fronte di un anime come Paprika di Kon Satoshi, visivamente traboccante e assestato su figure affini all’immaginario del genere come si era andato definendo dai primi anni ‘90 (automi, apocalissi urbane, confini sempre più labili tra realtà/finzione/sogno), Mamoru Oshii, che di quel processo di definizione era stato un veterano, si presenti con un prodotto di segno totalmente opposto, significativamente incluso nella competizione parallela “Orizzonti”. L’impostazione della rassegna, che si vuole dedicata ad opere improntate alla sperimentazione linguistica (ma basta dare una scorsa ad uno qualsiasi degli ultimi cataloghi per accorgersi di quanto tale indicazione sia pretestuosa) è questa volta assai calzante alla pellicola: l’impianto di Tachiguishi Retsuden (titolo internazionale e traduzione non molto letterale: The Amazing Lives of the Fast Food Grifters) è solo lontanamente assimilabile al cinema di animazione giapponese, e si configura piuttosto come un’operazione d’avanguardia. Dal punto di vista visivo, innanzitutto.
Gli autori si sono avvalsi di una tecnica di loro invenzione chiamata Superlivemation: gli interpreti non professionisti (tra questi i produttori del film, così come l’autore delle musiche) sono stati fotografati anziché filmati, dopodichè le immagini sono state rielaborate al computer per uniformare i colori e le luci agli sfondi in grafica cgi, e infine animate come se si trattasse di fogli di carta ripresi a passo uno. L’effetto finale è qualcosa di simile ai movimenti dei personaggi di South Park, si tratta cioè di uno spazio tridimensionale generato al computer che dal punto di vista iconografico rimanda al teatro di marionette. I personaggi in genere sono inquadrati dalla vita in su, e nelle rare sequenze in cui sono visibili a figura intera, spicca in mezzo alle loro gambe un bastoncino di legno (aggiunto digitalmente), quale “manico” tramite il quale un invisibile burattinaio li farebbe muovere.
Le sequenze che mettono in scena i personaggi in reciproca interazione sono solo una minoranza, la struttura del film ricalca quella del documentario, o meglio del reportage televisivo, e le sequenze recitate convivono con la ripresa di fotografie, testi, filmati di repertorio pertinenti alle vicende narrate (tutti rielaborati digitalmente in modo da garantire l’omogeneità della banda visiva pur nella dialettica dei materiali), così che il principale fattore unificante è la voce off. Il film, tratto da un romanzo dello stesso Oshii, da l’impressione di assistere alla lettura di un testo preesistente illustrato da immagini fisse o in movimento, il che è appunto lo standard del documentario televisivo almeno fino alla fine degli anni ‘70, struttura che Tachiguishi Retsuden segue con intento evidentemente parodistico.
Nella sua parziale autonomia rispetto alle immagini il narratore del film ci guida, con tono serissimo, attraverso ricostruzioni iperboliche delle vite di personaggi mai esistiti, mescolando realtà e finzione in un groviglio che si dipana sotto forma di informazioni statistiche, grafici, rapporti polizieschi. Tutto secondo la tradizione del documentario parodistico o mockumentary che ha come esempio più celebre lo Zelig di Woody Allen, ma che si avvicina anche alla fascinazione per l’inserimento di dati numerici, diagrammi ed elenchi che riscontriamo nella letteratura americana contemporanea (David Foster Wallace, o Mark Danielewski, per fare due esempi).
Ma per cosa viene impiegato un impianto così sofisticato? L’oggetto del film sono, come dice il titolo inglese, le straordinarie vite degli scrocconi dei fast food e la narrazione di queste personalità si svolge tra i chioschi di cibarie che, fioriti lungo le strade delle aree urbane all’epoca della disastrosa sconfitta del Giappone nella seconda guerra mondiale, sono diventati, con il boom economico degli anni ’70, le moderne catene in franchising. Di ognuno dei personaggi ci viene presentato il background storico e culturale, poi assistiamo alla ricostruzione di uno scrocco emblematico, mentre l’onnipresente voce off commenta ogni singolo gesto, mettendo in relazione la propria interpretazione con quella di numerosi altri studiosi dell’argomento o indagando su fonti contraddittorie.
Questo permette agli spettatori di leggere in filigrana quarant’anni di storia del Giappone, dal dopoguerra alla fine degli anni ’80, attraverso le vicende di insignificanti ladruncoli, i cui sotterfugi in locali di infima categoria vengono analizzati quali si trattassero di filosofie, stili pittorici, gesti sportivi, ecc. Ciò farebbe di tutto il film, con buona pace del suo elaborato impianto e della veste grafica accattivante, nient’altro che uno scherzo sterile (perpetrato per di più per cento minuti pieni), se non si intravedesse una presa di posizione piuttosto forte sul materiale narrato.
Ci si accorge allora che questi maestri dell’arte dello scrocco hanno una valenza metaforica piuttosto precisa, che la voce off tende pian piano ad esplicitare, ma senza forzare l’interpretazione. Fin dalla prima figura – l’ascetico Plenilunio Ginji che negli anni ’40 annichilisce i ristoratori visualizzando di fronte a loro, tramite una curiosa pratica di meditazione, un paesaggio notturno antitetico allo squallore dello sfacelo urbano dell’area periferica circostante – è chiaro come gli “scrocconi da fast food” siano figure che si contrappongono alla realtà cercando di individuare un’alternativa possibile. Allo stesso modo i tre personaggi successivi formano con le loro vicende un’ideale parabola della sinistra giapponese nel decennio cruciale che va dalla fine degli anni ’50 al 1970: la prima, Crocchetta Volpina O-Gin, fa la sua comparsa durante le manifestazioni contro il rinnovo del Trattato di Sicurezza Giappone Usa del 1960, che sanciva l’accettazione della sottomissione al vincitore di 15 anni prima in nome di un futuro benessere economico. Il personaggio, una ragazza che evita di pagare attraverso una timida seduzione del gestore, o mediante un accenno di prostituzione, è un’emblema della gioventù dell’epoca, travolta dalle possibilità esaltanti di nuovi valori che giungono dall’esterno ad affiancare o sostituire i precedenti. Acquisita una nuova consapevolezza sessuale tendente al mercimonio, frutto della nascente società dei consumi, sparirà senza lasciare traccia, quando la polizia reprimerà definitivamente le barricate dei manifestanti. La parabola discendente si concluderà con la figura di Tasso Freddo Masa, uno scroccone assassinato negli anni di piombo che secondo le ricostruzioni avrebbe provocato volontariamente il proprio omicidio, in ossequio al concetto di autonegazione (consegna spontanea al tribunale del popolo e alla condanna a morte) che contrassegnò le ultime fasi dell’estrema sinistra Giapponese degli anni ‘70.
Finita l’era della rappresentazione politica, gli scrocconi successivi finiranno per rappresentare soltanto atti di ribellione individuale (mangiare le scorte di cibo di un fast food fino ad esaurirle come atto “terroristico”) sfumando nel patetico (lo scroccone di wurstel fanatico di Disneyland).
La storia che viene raccontata è allora quella del fallimento del concetto stesso di alternativa politica in un paese che è diventato in breve schiavo del proprio stesso boom economico e in cui l’unico momento di esperienza del “possibile”, rispetto a decisioni che sembrano giungere sempre dall’alto, è il decennio che segue la sconfitta bellica. Non a caso, nello stesso periodo era ambientata una delle opere più importanti di Oshii: Jin-Roh, fondato su una dialettica tra uno stato fascista con la sua polizia repressiva e una popolazione civile che non può concepire come risposta che l’inganno e il terrorismo. Un pessimismo che in Tachigushi Retsudeni ritorna spostandosi però sugli ultimi decenni di un paese che sembra aver accettato come condizione esistenziale la definitiva atomizzazione e la riduzione ad aneddoto leggendario di ogni possibile alternativa, e che fa del film, nel suo delicato equilibrio tra sperimentazione narrativa e visuale, tra ironia e presa di posizione ideologica, una delle opere più convincenti viste quest’anno.