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Around photography (2004-2009) Anno 5 Numero 13 maggio-ottobre 2008



Talking about Biennals

Elvira Vannini



riverberi dalle immagini infocinevideofotografiche


AROUND WORLD
talking about biennials
neo-assemblage, collage and suchlike

INTERVIEW
quentin bajac
simona ghizzoni
michael schmidt
cesare ballardini
enzo cucchi - cose mai viste

FRAME
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antonio biasiucci - ex voto

COVER
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“The challenge that we face is how to imagine and realize a biennial that is culturally and artistically significant in terms of embodying and intensifying the negotiation between the global and the local, politically transcending the established power relationship between different locales and going beyond conformist regionalism. More than ever, biennials of the future should be an occasion to conceive and construct new localities capable of responding to the age of globalization.”( 1 )

Le manifestazioni internazionali su larga scala e le Biennali cosiddette 'postcoloniali' proliferano, in modo esponenziale, in tutto il mondo. Si succedono a cadenza regolare e investono anche luoghi lontani dalla geopolitica dell'arte contemporanea. La rapida diffusione delle esposizioni internazionali dopo il 1990, le ha rese un sito privilegiato di consumo culturale.
Oggi molte di queste manifestazioni sono un dispositivo spettacolare e l'ultimo grand tour estivo (Venezia, Kassel Munster) ha assunto le dimensioni di un evento mediatico di proporzioni globali. Allora si potrebbe riflettere in questa direzione: come possono queste esposizioni cambiare il format espositivo? Hanno ambizioni geopolitiche? Possono denunciare il processo di globalizzazione avviato dall'impero (il nuovo ordine mondiale del sistema capitalistico e delle economie liberiste)? Quali scenari culturali tracciano?
L'ultima Biennale di Istanbul, diretta dal curatore cinese Hou Hanru, interessato da sempre, con un'attitudine radicale, ai rapporti tra arte, globalizzazione e realtà sociale, soprattutto in situazioni non occidentali, registrava l'accellerazione e l'impatto della modernità in relazione alle trasformazioni sociali e urbane, e tentava di fornire una risposta a queste problematiche, in modo efficace, con una cartografia delle pratiche artistiche e culturali come risposta alternativa ai processi di globalizzazione, reinventando nuovi concetti di modernità, democrazia e progresso in una città piena di contraddizioni dove le strategie caotiche neoliberiste hanno avuto un effetto visibile, per esempio sull'impatto nello spazio pubblico.
Allora in che modo queste Biennali possono disegnare una nuova mappa su diverse scale?

Elena Filipovic (che tra l'altro è curatrice insieme a Adam Szymczyk della 5th Berlin Biennial tuttora in corso) sottolinea come molte di queste manifestazioni si originano in contesti culturali che hanno subito profonde trasformazioni politiche: Gwangju nel processo di democratizzazione della Corea del Sud, la breve vita della Biennale di Johannesburg dopo la fine dell'apartheid e Manifesta, la Biennale europea dopo la caduta del muro di Berlino, e facendo un passo indietro, anche il più importante evento su larga scala, la Documenta di Kassel, nasce nel 1955, nella Germania post-bellica, nel periodo della ricostruzione nella cittadina dell'Assia rasa al suolo. Documenta, sin dalle prime edizioni con l’idea del “Museo per 100 giorni” si è posta come alternativa espositiva alla tradizione, dalla concezione anticonvenzionale e nell’impostazione spaziale decisa con l’allestimento, che si ricollegava all’esperienza delle avanguardie e che si poneva al tempo stesso come una mostra antimuseale. A cadenza quinquennale, investita da ambizioni di oggettività, si proponeva di documentare lo stato dell'arte, all'interno di un sistema, che posizionato sulla contingenza, registra i segni, i passaggi, insieme a conflittualità e derive.

Da Harald Szeemann con il suo progetto di “interrogare la realtà” che definisce un nuovo modello espositivo nella sua Documenta V del 1972, simbolo del display ananrchico e anticonformista degli anni settanta, a Catherine David che introduce, proprio a partire da Documenta X, la formula dell’evento d’arte contemporanea come “stato di agitazione”. La partecipazione di 115 artisti e la creazione di uno spazio di discussione nei 100 giorni d’apertura – con convegni, conferenze, incontri, tavole rotonde, cinema – abolisce il concetto di mostra in favore di una dimensione laboratoriale, per esporre i progetti e non le opere, per leggere più che vedere, per rilanciare l’utopia dell’”intellettuale organico” e favorire l’interrelazione col pubblico. La sua pratica curatoriale nasce da un discorso di decostruzione dello spazio museale come luogo esclusivo dell’estetico: la mostra ha luogo nel libro, nella città, nel museo, nei 100 giorni di dibattito.
Le necessità di espandere il campo dell'arte contemporanea allo spazio globale con la Documenta XI di Okwui Enwezor (che tra l'altro è il curatore della prossima Biennale di Gwangju) inaugura il modello delle Platforms, di carattere teorico, metodologicamente radicali e “avventurose”, disseminate per il mondo.
Le quattro transoceaniche Platforms rispondevano all'esigenza di anticipare l'esposizione di Kassel (Plattform5) stabilendo quali sarebbero stati i punti cardine della mostra ( 2 ): mondialismo, creolizzazione, globalismo, post-colonialismo, gender, alterità, migrazioni, diaspora, democrazia e totalitarismi, sono culminate nell'appuntamento finale, che è stato nelle intenzioni di Enwezor,"uno strumento di conoscenza e di ricerca, non di semplice presentazione dell'arte contemporanea". ( 3 )
Secondo Catherine David le esposizioni su larga scala sono determinanti nel presentare sè stesse in alternativa al Museo, tentando di dar voce alle culture, alle storie e le politiche 'sottorappresentate' dall'istituzione.

All'analisi sulle Biennali postcoloniali, si aggiungono questioni recenti legate al dibattito internazionale riguardo al blurring, allo sfumare dei ruoli tra artista e curatore nelle pratiche contemporanee.
All'origine di questo fenomeno l'aumento di potere da parte dei curatori negli ultimi anni, e il parallelo incremento della letteratura critica riguardante l'argomento, e in secondo luogo l'eventualità che in queste esperienze espositive gli artisti assumano sempre di più competenze connesse col lavoro curatoriale, col conseguente cambiamento, nel sistema dell'arte, dei concetti di autore, creatività, mediazione, istituzione, ecc. Si sono alternate mostre sperimentali realizzate da curatori indipendenti, megaesposizioni in cui gli artisti hanno assunto il doppio ruolo di curatori, sono cresciute di importanza le Biennali e le manifestazioni internazionali prima tra tutte Documenta di cui abbiamo accennatto attraverso qualche edizione paradigmatica. Se nei decenni precedenti le divisioni erano nette, radicali – Harald Szeemann era il curatore indipendente garante unico dell'esposizione in tutte le sue componenti - oggi tra questi processi esistono una serie di istanze di crossover. Ne sono un esempio il 'perfomative curating' o il co-curatorship ( 4 ) , o ancora self-curating tutte procedure assunte dalla critica e ormai ampiamente utilizzate per mettere a fuoco certe pratiche recenti.
La 50a edizione della Biennale di Venezia, diretta da Francesco Bonami, nel 2003, intitolata Sogni e Conflitti. La dittatura dello spettatore, ha rappresentato un momento di revisione e di rottura in questa direzione che ha segnato un passaggio importante. Frammenta in otto progetti espositivi, affidati in sinergia, all’eclettismo curatoriale, di autori internazionali con diverse provenienze geografiche; l’evento si articolava in più appuntamenti, distaccati e disgiunti, ma coordinati dal tema di fondo. Il sottotitolo, "La grande Mostra e l’inizio del XXI secolo", poneva l’accento sul finire di un’epoca in cui, secondo Bonami, la figura del curatore si era dovuta muovere in uno scenario sempre più globalizzato, passando così dalla figura del "curatore unico", regista e responsabile della Grande Mostra, sul modello szeemaniano, in una figura multipla che si avvale di collaborazioni continue.
La scoperta al pubblico internazionale del performative curating, ossia le mostre organizzate dai curatori cosiddetti 'performativi' che tendono ad avere un ruolo creativo all'interno di una mostra e comportarsi alla stregua degli artisti, avviene proprio nel 2003 con la presentazione del progetto cumulativo di Utopia Station a Venezia.
I curatori della Stazione Utopia, Molly Nesbit, Hans Ulrich Obrist e l'artista Rirkrit Tiravanija, affermano, senza alcuna dichiarata formalizzazione, che per realizzare una mostra "non serve un'architettura, basta un incontro, un raduno" la Stazione diventa un posto in cui far convergere temporaneamente una pluralità di persone. Un modo per creare una comunità temporanea.
E' un modello di display relazionale e perfomativo, un dispositivo in crescita, una sorta di grande babele attivista, l'esempio di una mostra che diventa processo, laboratorio.

Il prossimo 19 luglio inaugurerà Manifesta7. Una Biennale inaugurata nel 1996 come piattaforma per gli scambi culturali tra i nuovi paesi europei unificati dopo la caduta del muro. Lo scarso dialogo tra artisti, curatori e istituzioni, i drammatici cambiamenti storici, i fenomeni di moltiplicazione delle Biennali hanno contribuito alla definizione del progetto come alternativa al Museo, manifestazione nomade, con un'esistenza itinerante, concepita in ogni edizione in diverse città periferiche europee e ogni due anni cambia sede. Per la settima edizione non è stata scelta un'unica città ma quattro centri, disclocati nel territorio, in Trentino Alto Adige all'interno di un panorama architettonico particolare disseminato di monumenti di achitettura postindustriale. Tre unità curatoriali che lavorano in sinergia e convergono nella fortezza, un sistema di fortificazione asburgico, attraverso un complesso programma pubblico e un lavoro di co-operazione e di scambio tra pratiche artistiche e curatoriali.
Daniel Birnbaum – attualmente direttore di Portikus a Francoforte, prossimo curatore di T3, Torino Triennale a novembre e appena nominato nuovo direttore della prossima edizione della Biennale di Venezia, afferma:
“la Biennale è morta. La sua formula di contenitore dell'espressione artistica si è esaurita proprio come è accaduto al romanzo negli anni sessanta. [...] ma soprattutto credo che la 50a Biennale di Venezia del 2003 che annoverava mostre incompatibili tra loro e che ha spinto la pluralità radicale, il più lontano possibile, abbia centrato una missione. Dopo di essa, non si è più potuto tornare ad essere normali.”.
Ma nonostante questi passaggi, come sottolinea Hou Hanru, “The rapid global spread o Biennials has dramatically altered contemporary art and the exhibition practices” e nonostante tutto continuano a moltiplicarsi.



NOTE

1
H.Hanru, “Towards a new locality: Biennials and Global Art”, in Elena Filipovic, B. Vanderlinder, Manifesta Decade, debats on contemporary exhibition and biennals in Post-Wall Europe, MIT Press, 2006.

2
Iniziate nel 2001 tra Vienna e Berlino (Platform 1), e poi continuate a New Delhi (Platform 2), a St. Luzia (Platform 3), e a Lagos (Platform 4), Platform 5 approda nel giugno 2002 a Kassel durante Documenta XI carica di riflessioni e connessioni a cui, i piú interessanti studiosi dell’intero pianeta centralizzano le problematiche piú contingenti all’assetto globale.

3
La complessità geografica delle Platforms – che contribuivano a creare comunità temporanee di discussione, attraverso conferenze, simposi, workshop internazionali – svoltesi nelle più lontane e diverse parti del mondo, rifletteva la complessità di temi e di suggestioni e la natura multiculturale del team curatoriale (Carlos Basualdo, Susanne Ghez, Sarat Maharaj, Ute Meta Bauer, Octavio Zaya, Mark Nash) che ha affiancato Okwui Enwezor nel suo mandato per Documenta XI.

4
Con co-curatorship si intendono le mostre realizzate in stretta collaborazione e complicità tra artisti e curatori, in cui i contributi sono talmente mescolati da non essere più scindibili.


English version:

Large scale international exhibitions and the so-called “postcolonial” Biennials grow exponentially all over the world. One after the other, these events spread beyond contemporary art's usual geopolitical boundaries. Starting from 1990 this booming expansion has made international exhibitions a privileged site of cultural consumption. Nowadays, many of these events are a show business device, and last summer Grand Tour (Venice, Kassel, Munster) became a media event of global proportions. In light of this we may ask: How can these exhibitions change display formats? Do they have geopolitical goals? Are they fit to denounce the globalization process ignited by the new capitalistic world order and free trade economies? Finally, which cultural scenarios do they sketch out?

The last Istanbul Biennial - curated by Chinese curator Hou Hanru, who has always been engaged in a radical reflection about the relations between art, globalization and social issues, especially in non-Western countries - recorded modernity’s acceleration and impact on social and urban changes and it tried to address effectively these issues by mapping artistic and cultural practices as alternatives to globalization and by reinventing a new idea of modernity, democracy and progress in a contradiction-ridden town where chaotic neo-liberalist strategies, just to give one example, strongly and visibly affect the public space.

Elena Filipovic, who, among other things, curated the 5th Berlin Biennial together with Adam Szymczyk, underscores that many of such events develop in cultural contexts that underwent deep political change: Gwangju during the democratization process of South Korea, the short-lived Johannesburg Biennial after the end of Apartheid, Manifesta, the European Biennial, after the fall of the Berlin wall and, to go back in time, the most important large-scale event, Kassel Documenta, was started in 1955, in post-war Germany, during the rebuilding of the destroyed Hessen town. With its “100 Day Museum” format, since its first editions Documenta proposed itself as an alternative to traditional exhibitions. Unconventional concept and unusual locales connected the Kassel show to avant-garde experiences, making it an anti-museum exhibition. Every five years, Documenta aimed at offering an objective survey of the state of the arts within a contingent system that records signs, changes, conflicts and drifts. From Harald Szeemann’s “Questioning Reality” project at Documenta V (1972), which advanced a new exhibition model emblematic of the Seventies’ anarchic and unconventional display, to Catherine David’s Documenta X which first applied the formula “state of agitation” to a contemporary art event. Featuring 115 artists and a discussion space – for meetings, lectures, round tables, screenings – Documenta X abolishes the exhibition format for a workshop dimension where projects are exhibited instead of artworks, where one reads rather than looks, where the utopia of the “organic intellectual” is reintroduced and the relationship with the public is favoured. This curatorial practice originates from the deconstruction of the museum space as the exclusive site of aesthetics: now the exhibition takes place in the catalogue, in the museum, in the 100 day discussion. The need to expand the field of contemporary art on a global scale is fulfilled by Okwui Enwezor (who will also curate the next Gwangju Biennial) whose Documenta XI launched the Platform model characterized by a theoretical bent and radical methodologies. Also, an “adventurous” model since the Platforms are spread all over the world. The four transoceanic Platforms had the function to anticipate Kassel exhibition (Platform 5) by laying down the main points of the exhibition itself : creolization, globalization, post-colonialism, gender, alterity, migrations, diaspora, democracy and totalitarianism. All these subjects merged in the final meeting which, in Enwezor's intentions, was "an instrument of knowledge and research, not a mere introduction to contemporary art" . In Catherine David's opinion, large-scale exhibitions are fundamental in that they constitute an alternative to the Museum and try to give voice to cultures, stories and politics “underrepresented” by the institutions.

Beside the analysis of postcolonial Biennials, recent issues add up related to the international debate about the role-blurring of artists and curators in contemporary practices. In the first place, this phenomenon stems from curators’ growing power and from the increasing critical literature on the subject in recent years. Second, it is due to the fact artists often tend to develop skills associated with curators, with the result that concepts such as author, creativity, mediation, institution are changing in the art system. Thus, there are experimental exhibitions organized by independent curators, large-scale exhibitions where artists are also curators, Biennials and international events whose importance is greater and greater. First among all is Documenta, whose paradigmatic editions I have briefly discussed. If in previous decades the divisions were radical and clear-cut – e.g. Harald Szeemann embodied the independent curator who controlled, and was responsible for, the exhibition in its entirety –, today crossovers are the rule. I am referring to such instances as 'performative curating', co-curatorship , and self-curating. Today, these procedures are widely accepted by the critics and often employed to focus on certain recent practices.

The 50th Venice Biennial (2003), curated by Francesco Bonami and titled “Dreams and conflicts. The audience's dictatorship”, was a moment of revision and rupture which marked an important shift. Subdivided into eight exhibition projects entrusted to the synergetic eclecticism of curators coming from different geographic areas, the show featured several events revolving around a main subject. Its subtitle, The Grand Show and the Beginning of 21st Century, stressed the end of an era when, according to Bonami, the curator has had to work on an increasingly global scene, therefore evolving from the model of the “individual curator", i.e. the Grand Show’s “director” exemplified by Szeemann, to a multifaceted figure availing himself of many collaborators.

The first instance of performative curating - that is a show organized by the so-called “performative” curators who play a creative role and behave as artists in the exhibition process - experienced by the international audience was the presentation of Utopia Station in Venice, in the same 2003. Utopia Station curators - Molly Nesbit, Hans Ulrich Obrist and artist Rirkrit Tiravanija - state, albeit not with an official formula, that in order to organize an exhibition "no architecture is necessary, a meeting is enough". The station becomes the place where a plurality of people converge, a way of forming a temporary community. It is a relational and performative display, a device in growth, a sort of great activist Babel, an exhibition that becomes process, workshop.

This year, Manifesta7 will open on July 19. This Biennial started in 1996 as a platform for cultural exchanges among the newly unified European countries after the fall of Berlin wall. The lack of communication between artists, curators and institutions, dramatic historical changes, the multiplication of Biennials all contributed to shape this project as an alternative to the Museum, a nomadic event with a travelling life, the editions of which take place in different peripheral European towns. Rather than one city, the seventh edition will involve four different cities located in Trentino Alto Adige (northern Italy), within a peculiar architectural landscape dappled with post-industrial monuments. Three curatorial units work in synergy and team up in a Hapsburg fortress, developing a complex public programme and the exchange between artistic and curatorial practices.

Daniel Birnbaum – the current director of Frankfurt Portikus, the curator of T3 (Turin Triennial, opening November 2008) and the recently appointed director of the next Venice Biennial - declares: “The Biennial is dead. Its formula as a container of artistic expression is worn out in the same way as the genre of the novel tired out in the Sixties [...] Above all, in my opinion, the 50th Venice Biennial of 2003, with its welter of inconsistent exhibitions, has pushed radical plurality as far as possible, and it hit the mark. After it, it was impossible to get back to normal”. Yet, these developments notwithstanding, Hou Hanru states: “The rapid global spread of Biennials has dramatically altered contemporary art and the exhibition practices”. Despite all, Biennials keep on proliferating.