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Overview (2006-2007) Anno 1 Numero 8 novembre 2006



Anche l’occhio vuole la sua arte

Paolo Giaffreda

Dall’Op Art a Mario Consiglio



mensile bilingue a distribuzione gratuita


CREATING
6 Anche l’occhio vuole la sua arte
13 “Ceci n’est pas” une recension
14 Diario di un pellegrino dell’arte
17 L’artista del sesto senso
23 Appuntamenti arte
25 Sfumature sensoriali, Arash Radpour si racconta
32 Ciboh: questione di stile!

WEARING
36 Lost senses
50 Declinazioni optical
52 Kiehl’s la sensazione di essere a casa
55 Shopping a 17”
58 Il web veste Yoox

RUNNING
62 Droga in tutti i sensi
66 La fame vien fumando
68 Cortocircuito sensoriale
70 H2O vietato bere dalla bottiglia!

PLAYING
80 tracks & traces
84 ViSuoni
90 Islanda, l’impero dei sensi
94 Il sesto senso del “figlio unico”

WRITING
98 Dalla parola all’arte, intervista a Pedro Juan Gutierrez
105 Il Cuoco di Harry Cressing
107 OverComics
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n. 9 dicembre 2006-gennaio 2007


Mario Consiglio
Serendip, 2005
video

Mario Consiglio
Deep Purple, 2006
50x50 cm MDF, Lycra

Mario Consiglio
Vertical Cage, 2006
MDF, Lycra paint

Si è spesso portati a considerare l’Arte come un fenomeno naturale, molto vicino al sentimento di spontaneità, e in quanto tale, capace di colpire immediatamente la sensibilità di chi l’ammira. Eppure, questa lettura di partenza, agli occhi di analisti più radicali risulterebbe primitiva ed approssimativa.
Questo fu, infatti, l’approccio critico di una corrente di pensiero che, intorno alla metà del 900, rispose al quesito “Cosa è l’Arte?” con un’interpretazione di natura matematica. L’opera doveva essere considerata come una fonte di irradiazione capace intrinsecamente di creare campi elettromagnetici. Compito dell’autore era di generare centri di energia la cui rivelazione avrebbe significato Conoscenza di un Ordine superiore.
L’arte diventava un percorso di ricerca del “vero”, secondo uno svolgimento analitico-matematico. Se da un lato questa era l’Arte, dall’altro il coinvolgimento dello spettatore non era che la reazione percettiva dello stesso alla vista di particolari forme e colori.
Partendo da questi presupposti, prese vita il movimento artistico culturale dell’Arte Concreta, che annoverò in Svizzera alti esponenti (Bill, Lohse, Bodmer ecc.) ma che, anche in Italia, presentò personalità di notevole caratura artistica (Soldati, Munari, Monnet ma anche Nigro, Accardi, Dorazio, e Perrilli in maniera meno pregnante).
Ma ciò su cui va concentrata l’attenzione è un’alterazione della corrente dell’Arte Concreta: l’Arte Cinetica. L’intento espresso da questo movimento era di abbandonare l’idea di staticità e concentrarsi sull’opera d’arte realmente dinamica (Calder, Duchamp) o simulatamente tale (Vasarely, Soto, Riley). È proprio basandosi sul concetto di simulazione di movimento che si cominciò a parlare di Optical Art. Un’immagine, pur fisicamente ferma, agisce sulla percezione dello spettatore, creando l’illusione del movimento. L’interesse per l’Op Art (abbreviazione coniata da Rickey nel 1964) diveniva sempre più forte quanto più si diffondeva in Germania quello per la Gestalttheorie. La “psicologia della forma” arrivò a elaborare delle vere e proprie leggi della percezione ottica dello spettatore il quale, da mero fruitore, diventa esso stesso produttore ulteriore di arte. L’opera visiva è solo il punto di partenza, in realtà l’opera d’arte è ciò che lo spettatore involontariamente, attraverso la sua percezione ottica, vede. La sequenza di figure geometriche e l’uso di colori appositamente selezionati creano nell’occhio dello spettatore una realtà virtuale di movimento, una reazione psicologica creativa. La percezione visiva, trasformando lo stimolo che immediatamente invia al cervello, confonde la visione originaria e immagina una percezione nuova. Insomma anche l’occhio vuole la sua arte.

L’Arte Cinetica Virtuale, che a livello internazionale annovera apporti quali quelli di Grav Group, Yaacov Agam e Roy Ascott, nel corso del tempo ha fatto proprie tutte le possibili opportunità offerte dalla tecnologia. Si è assistito ad un processo di spiritualizzazione della macchina (usando le parole di Umberto Eco) capace di offrire possibilità infinite di innovazione. Oggi è possibile assistere a spettacoli tridimensionali direttamente sul nostro schermo LCD o a effetti ottico-sonori che, come per l’Op art più tradizionale, hanno il deliberato intento di confondere i sensi.
L’esperienza italiana di arte visuale si fregia dell’apporto creativo di Ballocco, ancora prima di Munari sino ad arrivare ad Alviani e poi di tutta una schiera di giovanissimi hackers visuali per i quali la confusione nel mondo dell’arte ha un senso vero proprio.
Oggi, la maggior parte dei produttori di immagini geneticamente modificate (modificabili) si muove per lo più sposando il contemporaneo quanto dilagante gusto figurativo, mentre difficile resta individuare chi, tra le giovani generazioni, recuperando l’originale astrattismo iconico-cromatico dell’Op Art, offre un’interpretazione personale e originale. Tale è Mario Consiglio che più di ogni altro, oggi, in Italia sembra aver riscoperto e rivalutato questa ispirazione artistica. Gli abbiamo rivolto alcune domande.


OVERVIEW: Si dice che l’Op Art fu la risposta europea alla Pop Art americana. Sei nato come artista Pop e ora sei vicino alla Op, come è avvenuto questo cambiamento?

MARIO CONSIGLIO: In realtà da studente ero più vicino all’arte povera. In seguito mi sono lasciato influenzare dall’arte americana, soprattutto, da Mike Kelly, che non è un artista Pop a tutti gli effetti. Mi riferisco ai miei imbottiti colorati. Il lavoro originale era una trappola per bambini... un’opera in bilico tra gioco e tragedia. Da un lato l’affabilità della materia, dall’altro l’atrocità del racconto. Non li consideravo Pop, è il pubblico che lo faceva mentre la critica non sapeva dove collocarmi. I Target, invece, non possono più essere catalogati in un ambito Optical, sono un classico dell’arte, come un ritratto o un paesaggio... Moltissimi artisti ci si confrontano. Anche i Cage, ad esempio, hanno un effetto Op ma li ho realizzati senza pensare ad un’idea astratta. Ho raccontato ciò che erano: “Gabbie”, un’idea concreta con le sue innumerevoli interpretazioni. Non c’è un perché nelle evoluzioni... avvengono quando hai molte idee e le coltivi.


O: Di fronte a un imperante figurativo tu proponi un modello astratto. È pura ribellione o pensi che oggi ci sia ancora spazio per una ricerca formale?

MC: La situazione non è esattamente così. In Italia un certo tipo di riviste fa credere che imperi il figurativo sebbene la realtà internazionale sia diversa. C’è, invece, un forte ritorno al “poverismo”, dovuto alle grandi mostre americane dei nostri maestri. Sono pochi i giovani artisti italiani famosi a livello internazionale che dipingono. Non c’è differenza fra figura e astrazione perché cambiano i punti di vista. Per quanto mi riguarda, se dovessi fare dei quadri realisti userei la fotografia, è più veloce. Ma non è detto che il prossimo anno non inizi a dipingere ritratti iperealisti ad olio... in ogni modo li farei dipingere da altri, perché non è importante la tecnica ma il concetto che si vuole esprimere. In Thailandia ci sono dei copisti formidabili, gli porti una foto e il giorno dopo è pronto un quadro ad olio come la volevi. Ma la vera pittura è un’altra cosa... Intendiamoci. La mia non è assolutamente ribellione, è un’evoluzione naturale che porta il mio lavoro a una sintesi estrema, con il passare degli anni sono infatti andato a togliere nel tentativo di raggiungere l’essenza, la purezza del concetto...


O: Qualcuno ti considera un raffinatissimo artigiano. Quanto incide il lavoro fisico nelle tue opere?

MC: È un limite valutare solo la parte artigianale del mio lavoro, se fosse così, anche un buon dipinto è artigianato se vuoi. È normale che vedendo alcune mie opere si abbia la sensazione di grande impiego di energia fisica, in realtà c’è grande impiego di energia mentale. Il mio vero segreto è l’utilizzo della tecnologia più avanzata che mi permette di dare più spazio al pensiero, alla ricerca e al viaggio. Un artista dovrà pure raccontare qualcosa, no?


O: Ti sei inventato e reinventato più volte nel corso della tua carriera. C’è voluto coraggio...

MC: Nella giungla che è l’arte contemporanea, dove una cosa invecchia subito, devi necessariamente essere coraggioso e rinnovarti. Questo deve avvenire in maniera naturale e non forzata. Ci sono artisti che per una vita fanno lo stesso quadro e gli va anche bene. Non capisco come facciano a non annoiarsi, per me sarebbe una vera tortura. Senza una continua ricerca dell’arte.