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Overview (2006-2007) Anno 1 Numero 9 dicembre 2006 - gennaio 2007



Italian Factory:quando l'arte è Logo

Overview

Intervista a Alessandro Riva



mensile bilingue a distribuzione gratuita


CREATING
7 Arte, trasgressione e icone nella Factory di Warhol
14 Segue...
16 Italian Factory
22 Una storia raccontata ad arte
24 “Anoressia e bulimia del Sistema dell’Arte”
26 Viaggio nella terra di confine tra Arte e Logo
32 Appuntamenti Arte
38 Design-life


WEARING
42 No sport land
54 Light & shadow
64 MM6: il lato informale dell’enigma Martin Margiela
68 Universo Agatha
72 About Logo
74 About Snow
76 About Christmas


RUNNING
79 Nel paese delle meraviglie
90 Clima di guerrilla
96 L’abito non fa il marchio
98 Kit del perfetto sabotatore
100 Face to fake
106 Nome in codice (a barre): ISBN
110 No logo, l’anonima gioia di piantare un ulivo
114 “Lifegate”, dal no logo al logo consapevole
118 La seconda vita
124 Just a little bit strange...


PLAYING
127 tracks & traces
138 ViSuoni
146 Malleus, sfumature e follia
150 Il marchio meticcio del cinema indipendente


WRITING
154 Survivor di Chuck Palahniuk
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Logo di Italian Factory

Critico d'arte, scrittore e giornalista - Overview intervista Alessandro Riva, creatore e ideatore di Italian Factory, una fucina di idee e talento di giovani artisti. Ha organizzato mostre come "L'Officina milanese (1997)" e "Sui generis"(2000), e ha scoperto e promosso artisti come Velasco, usando gli strumenti del marketing e della pubblicità.

OVERVIEW: Come è nata Italian Factory?
ALESSANDRO RIVA: L’idea di creare Italian Factory mi è venuta negli anni Ottanta quando, come critico d’arte, mi sono trovato a seguire una generazione di artisti che in maniera naturale lavorava in controtendenza rispetto a quello che si vedeva nei musei, nelle gallerie e nelle biennali. Creavano in modo abbastanza isolato, rifiutando un’arte fredda, concettuale, elitaria e molto chiusa su se stessa. Insomma, poiché si stava rinunciando all’opportunità di lavorare sui linguaggi classici della tradizione italiana, come la pittura e la scultura, l’idea è stata di reinventare tali linguaggi. Un artista come Velasco, per esempio, a vent’anni, quando al Pac (il Padiglione d’arte contemporanea di Milano) si vedeva solo la nuova scuola neoconcettuale o i neodadaisti, non pensava di poter diventare egemone e affermato, perché fuori contesto. Io mi sono trovato a fare il “leader” di questi giovani che lavoravano in controtendenza. Inizialmente, li proponevo in mostre autogestite o collettive e mai in spazi pubblici importanti, ma nel 2000 con la mostra “Sui generis” ho portato quasi sessanta artisti al Pac. Fu l’uscita ufficiale di una nuova scuola. La mostra partiva dall’idea di tornare a un punto zero per ripartire dai generi e da linguaggi classici della tradizione artistica italiana, non con un atteggiamento concettuale, come era stato quello degli anacronisti che proponevano un “ritorno al museo”, ma di sfida. Questa nuova generazione riprendeva e rivisitava i generi classici, come la pittura e la scultura. Per cui una natura morta era pronunciata dalla still life pubblicitaria e un ritratto veniva rivisto attraverso la fotografia. L’influenza arrivava anche da generi esterni all’arte contemporanea come il noir, la fantascienza, il porno, il cinema. Insomma questa scuola che si allineava all’ultima coda del postmoderno. Tutto ciò infatti non avveniva solo nell’arte. Giovani scrittori stufi di una letteratura estremamente intimista, chiusa sui problemi delle scrittore e che non affascinava più il lettore, adottavano una nuova chiave linguistica per parlare di problemi più appartenenti alla realtà di tutti i giorni, ritornando così al noir e al giallo. Nel caso di “Sui generis” però c’è stata un’operazione quasi di linciaggio da parte del sistema dell’arte. La rivista Flash art, che rimaneva legata a una visione dell’arte elitaria e che pensava che questa si dovesse occupare di problemi linguistici e interni al sistema, la vedeva come una mostra passatista, senza capire che era perfettamente in linea con ciò che accadeva nella letteratura e nel cinema. Io, invece, ho voluto valorizzare questi artisti che, dopo anni di immobilismo e di individualità, riscoprivano il linguaggio della scultura e della pittura e ho codificato e nominato una situazione esistente creando nel 2003 Italian Factory.


Come si è contraddistinto il logo “Italian factory” nel panorama artistico d’avanguardia?
Italian Factory non ha adottato il linguaggio tradizionale dell’avanguardia – il manifesto teorico, la rivista o il salotto culturale – ma gli strumenti del marketing e della pubblicità per promuovere per trovare nuovi spazi. Ho inventato un marchio, buono anche per l’estero, che fosse volutamente kitsch, molto riconoscibile, che si distinguesse da quello di un movimento artistico per essere più simile a un logo commerciale. Allo stesso tempo Italian Factory è stata strutturata come un’agenzia di pubblicità, dotata di un ufficio marketing che organizza mostre con un piglio manageriale. Il termine “Italian Factory”, poi, da un lato fa riferimento alla Factory di Warhol, con un evidente richiamo alla tradizione della Pop Art, una delle matrici artistiche di questi decenni, ma dall’altro, sottolineando l’italianità del marchio, riporta alla “bottega” di tradizione rinascimentale, a un clima che è legato alla riscoperta dei linguaggi tradizionali e non alla serialità della Pop art, da cui abbiamo ripreso la capacità di comunicare.


Quale è il rapporto tra i galleristi e Italian Factory?
Anche in questo caso c’è un approccio preciso. Italian Factory è un movimento e quindi non vende opere ma promuove artisti. Allo stesso tempo, però, ha rapporti con gruppi di collezionisti, di mercanti e aziende private che sostengono la factory finanziariamente. Con la consapevolezza però che sia importante prendere le distanze dall’ipocrisia del sistema dell’arte, in cui il critico, pur essendo legato a doppio filo con i galleristi, fa finta di non sporcarsi le mani con il mercato. Il curatore non deve vergognarsi di avere rapporti con il mercante, ma è importante non confondere i ruoli. Di fatto Italian Factory ha una strategia di mercato che parte dal presupposto che l’artista può avere successo tenendo alti i prezzi, senza svendere le opere e trascurare il mercato. Chi non lo fa è un perdente, perché il mercato è uno degli attori principali del sistema dell’arte. I galleristi di fronte a questo atteggiamento si sono trovati spiazzati, e per questo hanno polemizzato con Italian Factory.


Lei lavora con il Comune di Milano. Quale ruolo avrà Italian Factory nel promuovere l’arte a Milano?
Da pochi mesi sono il consulente per l’arte contemporanea dell’assessorato alla cultura di Sgarbi. Ma ci tengo a tenere separato questo mio ruolo pubblico e istituzionale da quello di direttore artistico di Italian Factory, non ho intenzione di lavorare con l’intento di promuovere e privilegiare i miei artisti. Allo stesso tempo però penso che le istituzioni pubbliche, a cominciare dai musei, non possano (come hanno fatto sistematicamente) ignorare chi, in questi anni, è venuto alla ribalta rinnovando il linguaggio della scultura e della pittura, come per esempio Velasco. Non so se farà una mostra o meno, però è vero che, negli anni passati, negli spazi pubblici e nei grandi musei hanno esposto soltanto artisti “concettuali”. Il mio ruolo e quello di Sgarbi punterà a aprire anche tutti i linguaggi perché non c’è una forma di espressione artistica più contemporanea di altre. Non è detto che la cosiddetta “avanguardia” oggi sia più d’avanguardia di un artista a tutto tondo come Velasco, che usa la pittura in maniera molto libera e che fa scultura con ferro e cemento. Se fin ora questi artisti sono stati ghettizzati dagli avanguardisti, oggi questo concetto verrà ribaltato a Milano, per volere prima di Sgarbi che mio.


Se un giovane artista volesse entrare in Italian Factory quali requisiti dovrebbe avere?
Da due anni stiamo promuovendo un premio per l’arte italiana: il Premio Italian Factory. L’edizione del 2006 ha avuto un grosso successo, 500 adesioni sono molte per un premio privato, autofinanziato e che non chiede soldi agli artisti. I giovani che hanno partecipato sono tutti di buona qualità e una giuria li ha selezionati e li ha scelti. C’era Lucia Matino, direttore del Pac, Fernando De Filippi, direttore di Brera e altri. È difficile stabilire quali siano i criteri di selezione per entrare a Italian Factory, sicuramente poniamo attenzione al linguaggio della pittura e della scultura e non quello dell’arte concettuale, neoconcettuale o neoavanguardista. Poi però subentra la mia valutazione critica. Puntiamo alla qualità del linguaggio, adottando una logica di marketing che porta considerare l’arte o l’artista come un prodotto che può sfondare sul mercato. Nel sistema dell’arte ci sono una serie di attori: il direttore delle riviste, quello del museo, il critico, il collezionista, il mercante. E noi proviamo a muoverci dentro queste coordinate. L’artista che lavora con 30 gallerie, che fa vedere i suoi quadri dovunque che fa “confusione” fra il mercato e la visibilità pubblica non è un buon artista di Italian factory. Poi può essere anche giovanissimo. Due anni fa, per esempio, è entrato a nel collettivo di Italian factory un artista di sedici anni, Luka Moncaleano. Ha sempre vissuto tra artisti, sa muoversi nel sistema dell’arte e ha già vinto il Premio Italian Factory per la Giovane Pittura Italia nel 2004.


Come considerano Italian Factory all’estero e quali sono i progetti futuri?
Stiamo lanciando un nuovo marchio: Italian Factory international, che si muoverà sullo scenario europeo e non solo. Le prime mostre in musei internazionali sono state e verranno fatte a New York, a Shangai e, probabilmente, a Pechino. L’idea è di internazionalizzare il marchio. Una delle possibilità è di realizzare non tanto uno spazio espositivo quanto un ufficio a New York, così come farebbe uno stilista di moda o un’agenzia pubblicitaria. La logica e il linguaggio rimane sempre il medesimo: quello del marketing. Questo approccio ha funzionato in Italia e funzionerà all’estero. Velasco è stato la cartina torna sole di tutto ciò, perché in tre anni è diventato un artista di culto e molti collezionisti vorrebbero le sue opere. Abbiamo fatto una campagna pubblicitaria forte con Oliviero Toscani, mostre in spazi pubblici importanti, cataloghi con Electa. Tutti strumenti di marketing usati per una artista di qualità. Credo che Italian factory in Italia abbia cambiato l’approccio all’arte, anche i più acerrimi nemici devono ammetterlo.