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Stile Arte (2006-2011) Anno 10 Numero 104 dicembre 2006



C’è un morto nel ritratto

(redazionale)

La pittura del Cinquecento si misurò con i volti delle persone defunte.



Approfondimenti d'arte e di storia della cultura per “leggere le opere”dell’arte italiana ed europea


Straordinaria pittura romana
Scoperte: Il Santo di D’Annunzio
Mantegna vietato ai soldati di Napoleone
Leonardo, il principe del fiume
Giorgione: Nell’oscurità della Tempesta
E se la donna fosse la Serenissima?
Il realismo, lancia contro l’eresia
Moretto ispirato da un libro equivoco
Arcimboldo l’antibizzarro
Arte & eros: Un corpo da pesare
Temi d’arte: C’è un morto nel ritratto
Scoperte: Il mistero del mantello invisibile
Tecniche: Quella tela? E’ di rame
Codici miniati: Ore indimenticabili
Iconologia: I pesci, simboli di Dio e dell’uomo
Ottocento: Gauguin scrittore d’arte
Arte in trincea: Le battaglie di Fattori
Sartorio, guerra a colpi di pennello
Landi, dipingere sotto la mitraglia
I rivoluzionari pentiti: Bonnard, eterno è l’attimo
Novecento: Da Venezia con amore
Contemporanea: Oldenburg-Van Bruggen, i “classici”
Mottinelli, magico inverno
Modica l’illuminato
Art food: Dalí e la forma del formaggio
L’agenda delle mostre
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Enrico Giustacchini
n. 135 febbraio-marzo 2011

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n. 134 ottobre-novembre 2010

La tela armonica
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n. 133 luglio-settembre 2010

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Russolo, se l'orchestra ulula e rimbomba
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Piero di Cosimo, Ritratto di Simonetta Vespucci

Lorenzo Lotto, Ritratto di coniugi

La pittura antica non si fermava di fronte al limite della fine dell’esistenza. In molti casi, riprendendo precedenti ritratti della persona defunta o ricorrendo - più raramente - al rilievo del suo volto sul letto di morte, i pittori giunsero ad imprimere un nuovo, eterno soffio di vita in quei corpi estinti.
I casi di quadri di lutto non sono poi rarissimi. Uno degli elementi che contraddistingue la morte dell’effigiato è normalmente, specie nella pittura cinquecentesca dell’Italia settentrionale, la presenza di un albero spezzato delineato nel paesaggio retrostante o, come nel caso dei coniugi dipinti da Lotto (lui, affranto, in vita, lei morta) un temporale che ha la forza spaventosa di evento metafisico, atto a piegare la volontà dell’uomo che qui somiglia realmente agli alberi reclinati su se stessi a causa della forza del vento.
Il senso di disagio che si avverte osservando il dipinto di Piero di Cosimo è dovuto alla presenza di numerosi simboli, i quali sembrano presagire il cupo destino che subirà l’effigiata, Simonetta Vespucci, amante di Giuliano de’ Medici, scomparsa prematuramente, nel 1476, sopraffatta dalla tisi. Il quadro venne, in effetti, dipinto anni dopo la fine della splendida Simonetta. Così, ciò che appare come frutto di uno sguardo preveggente è in realtà l’evidente constatazione di un destino che si è ormai consumato, per la giovane più invidiata e guardata di Firenze. Le nuvole burrascose, portatrici di sventura, che si espandono sul fondale sembrano agglomerarsi intorno al volto della donna, aumentando in cupezza e contrastando con la bianca carnagione dell’effigiata, che, anche grazie alla nudità del torso, è immeditato motivo di richiamo dello sguardo dello spettatore.
Nella parte sinistra del dipinto un albero spoglio rompe il sinuoso gioco di curve, creato dalle nuvole, con i suoi rami che sembrano graffiare e squarciare il cielo; l’albero secco, nell’iconografia rinascimentale, è, come dicevamo, un chiaro simbolo di morte.

Anche la figura di Simonetta, rievocata di profilo da Piero di Cosimo per motivi pratici (egli infatti, per la realizzazione, si dovette ispirare all’incisione posta su una medaglia dell’epoca), è ricca di orpelli di valenza simbolica. I gioielli che ornano la capigliatura sofisticata indicano la nobile provenienza della famiglia della giovane; il serpente che le circonda il collo - ritenuto erroneamente da Vasari un modo per richiamare la figura a quella della regina Cleopatra, morsa da un aspide -, oltre a dichiarare l’intelligenza e l’avvedutezza della donna (la serpe, infatti, era simbolo di prudentia), si avvicina molto all’immagine dell’uroboros, ovvero il serpente che rappresenta l’eternità, il tempo che continua a ripetersi all’infinito e che, in alcuni casi diviene simbolo dell’alchimia.
Il seno scoperto, in diversi casi utilizzato per indicare pittoricamente le spose, evidenzia il forte legame che univa Simonetta a Giuliano de’ Medici - che le sopravvivrà per soli due anni -. La giovane è qui ricordata non come amante bensì come fidanzata ufficiale o moglie (essa viene infatti definita nell’iscrizione posta nella parte più bassa dell’opera “Ianuensis”, ovvero appartenente a Giano).

E’ il 26 aprile 1478. Lorenzo de’ Medici, in compagnia del fratello Giuliano, entra, come è solito fare, nella cattedrale di Firenze per la messa domenicale. Sembra una mattina come le altre, ma non è così. Quello è infatti il giorno scelto dalla famiglia Pazzi per rovesciare la Repubblica, che di fatto è una signoria medicea, e prendere il potere nella città toscana. Perchè ciò si possa avverare è necessaria l’eliminazione dei due nobili.
Nel momento più solenne della celebrazione, mentre il vescovo alza al cielo l’ostia proferendo la Benedizione, i congiurati sguainano le spade, uccidono Giuliano, allora solo ventiquattrenne, e feriscono Lorenzo, che si rifugia in sacrestia. La folla fugge in preda al panico, certa della morte dei due signori. Solo in seguito il Magnifico si affaccia sulla piazza principale, rivelando di essere sopravvissuto.
La vendetta contro i congiurati è molto dura: in poco tempo vengono emesse più di ottanta condanne a morte, tra cui quelle che riguardano i principali esponenti della famiglia Pazzi, da cui la congiura prende il nome. Il 26 aprile diventa da allora, e lo rimarrà fino alla fine della Signoria, giorno di lutto in ricordo dell’assassinato.
Sandro Botticelli, che è l’autore di un Ritratto postumo di Giuliano de’ Medici, ricorre nella creazione dell’opera ad alcuni dei simboli che caratterizzano il genere del quadro di lutto: a cominciare dalla presenza in primo piano, ben in vista, di un ramo secco, metafora della vita perduta ormai per sempre, essendo il ramo stesso staccato dal tronco e quindi impossibilitato a rigermogliare in una futura primavera. Inoltre l’aspetto mesto dell’effigiato - spiritualmente velato dall’indefinitezza della sua condizione, ormai non più appartenente all’ordine umano - rispecchia il dolore d’essere stato privato della vita.
Giuliano guarda verso il pavimento, con tristezza. Un’atmosfera luttuosa, rafforzata dalla presenza di una tortora che, con il suo canto malinconico e ripetitivo, ricorda apertamente il pianto che finisce in un incessante lamento. L’immagine è in bilico tra passato e presente, vita e morte; così anche le imposte, alle spalle del soggetto, sono per metà chiuse e per metà aperte. Il paesaggio è negato. Emerge soltanto un lacerto di cielo.

Un amore che va oltre la morte, che non potrà mai essere dimenticato; è questo ciò che vuole trasmettere l’uomo del Ritratto di coniugi (1523-1524) di Lorenzo Lotto. La scena ha la valenza di un dolce - e al tempo stesso inquietante - flash metafisico. Il paesaggio che si intravede dalla finestra posta nella parte alta della tela sembra essere lo specchio dell’anima dei due soggetti ritratti e simbolo della drammatica condizione della coppia.
Il cielo coperto di nubi temporalesche e gli alberi piegati dal forte vento che prelude la tempesta sono elementi forieri di sciagura e di disperazione. La figura della donna, quasi illuminata di luce propria - come spesso avviene in Lotto, che non tiene conto delle regole della pittura tonale, con una distribuzione della luce e dei colori in modo uniforme negli ambienti -, sembra suggerire la presenza dello spirito della defunta, venuta a salutare, forse per l’ultima volta, il marito.
Il volto di lei è gonfio, quasi tumefatto. I suoi occhi fissi, ormai distanti dalla scena stessa. Il coniuge impugna con la mano sinistra un biglietto riportante la scritta “homo num/quam” (l’uomo mai). Che significa questo rebus improprio? Osservando attentamente il dipinto si nota che, mentre la sinistra tiene il foglio, la destra indica uno scoiattolo addormentato sul tavolo. Il messaggio che giunge all’osservatore è una commovente testimonianza di amore; l’uomo, infatti, a differenza dello scoiattolo che, quando va in letargo, perde il contatto con il mondo esterno fino al momento del risveglio, non potrà mai isolarsi dalla realtà, e quindi sarà impossibile per lui dimenticare la propria compagna.
Un dolore che Lotto sottolinea, con una pittura di grande, partecipe sensibilità e compassione, dipingendo gli occhi dell’uomo colmi di lacrime, come frutto di un dolore abissalmente silenzioso il quale sembra suggerire allo spettatore - che si immedesima nel marito, cogliendone la soggettività - uno sguardo che “legge” la stanza drammaticamente deformata.

La tradizione che riguarda la composizione dei quadri di lutto è comune, pur nelle complicate divisioni politiche del territorio, a tutta la penisola. Da Firenze a Roma, a cavallo tra il XV e il XVI secolo, è un fiorire di questo genere. Ne è un esempio l’opera di Altobello Melone, che secondo diverse interpretazioni raffigura nel Ritratto di gentiluomo il defunto Cesare Borgia detto il Valentino.
L’ipotesi che si tratti di un quadro di morte è suggerita dagli elementi del fondale. Il cielo è lugubre, denso di nuvole pesanti, uggiose e tristi che sovrastano e attorniano il volto dell’uomo, sul quale si rispecchia la tetra e malinconica atmosfera dell’ambiente circostante. Lo sguardo è perso verso orizzonti sconosciuti, disinteressato alle cose terrene che non gli appartengono più. Immancabile è il tronco di un albero spezzato, emblema della vita che si è conclusa.
Molto particolari due altri elementi, che risultano di lettura meno chiara, ma che contribuiscono a suggerire presenze fantasmatiche. Il primo concerne le figure spettrali che si stagliano sullo sfondo. Se quella a sinistra ricorda, pur nella sua cupezza, una donna velata, quella a destra, indecifrabile nella sua inquietante ambiguità, sembra in tutto e per tutto una creatura venuta da un’altra realtà. Singolare è anche la presenza di un castello bigio che si perde nella bruma, quasi fondendosi con la vegetazione da cui è circondato e con il cielo che lo sovrasta. L’immagine del castello fa propendere ancor più verso l’identificazione del personaggio con Cesare Borgia. La morte di questi è avvenuta infatti il 12 marzo 1507 ai piedi della fortezza di Viana, in Spagna, durante un tentativo d’assedio al borgo in cui si erano rifugiati alcuni ribelli. Forse proprio quello evocato da Altobello Melone nella sua tavola. L’opera fu dipinta qualche anno dopo, attorno al 1513.

La tavola, dipinta da Lorenzo Lotto e risalente ai primi anni del XVI secolo, raffigura - secondo l’interpretazione più diffusa - l’Allegoria della Virtù e del Vizio (1505) e, come era usanza per questo tipo di opere, fungeva da coperto per un ritratto di Bernardo de’ Rossi, allora vescovo di Treviso, eseguito dallo stesso Lotto. La tavola si ricollega, per la presenza di un tronco morto, alla tradizione dei quadri di lutto; stavolta però non si tratta di rappresentare la morte di un singolo individuo, ma la decadenza di un’intera famiglia: quella dei De’ Rossi di San Secondo.
La scena è divisa in due parti: a destra i vizi, a sinistra le virtù. Partiamo dai primi. Ecco un paesaggio che d’acchito ci appare florido. Su un prato, nel quale notiamo alcuni vasi rovesciati, che alludono all’intemperanza, è sdraiato un satiro ubriaco che beve del vino e non si accorge dell’imminente arrivo di una tempesta, annunciata da nubi tenebrose che invadono il cielo, mentre una nave fa naufragio nelle acque del mare retrostante.
A sinistra, invece, c’è un putto che esercita tramite la scienza le proprie virtù intellettuali, indispensabili per raggiungere la perfezione morale. Il paesaggio arido in primo piano dà l’idea di un terreno contristato ma, nonostante questo, l’orizzonte è sereno e sembra promettere un futuro ricco di soddisfazioni, perseguibili solo tramite un cammino impervio (il sentiero che sale sulla collina); i sacrifici derivanti dall’esercizio delle virtù, cui si dedica il putto, sono premiati mentre, al contrario, le mollezze portano alla distruzione.
In centro, a dividere la scena esattamente a metà, la pianta morta, dal cui fianco sinistro, però, si diparte un ramo florido ai cui piedi c’è uno scudo con lo stemma dei De’ Rossi. In un momento di forte divisione tra i membri della famiglia, l’opera voleva forse mettere in guardia i discendenti da un futuro sempre più incerto. Ricordiamo però che il vescovo Bernardo, committente del quadro, secondo la tradizione, sarà mortalmente avvelenato proprio dai nipoti.
La tela, dal forte significato allegorico, sintetizza in una sola scena continua, senza interruzioni, la vita dell’uomo. Dalla nascita, rappresentata dai due piccini che riposano sotto l’albero secco mentre un amorino veglia su di loro, alla morte, raffigurata dal vecchio che, accasciato su se stesso in un atteggiamento di intensa meditazione, sorregge due teschi tra le mani - strana “coincidenza”: due sono i bambini e due i teschi -; nel mezzo l’età adulta, in cui amore e spensieratezza sono sottolineati dall’atmosfera bucolica che pervade l’opera.
La posizione occupata dalle diverse figure imprime alla composizione un movimento circolare che non finisce con la morte ma prosegue, incanalandosi in un nuovo inizio. Passato, presente e futuro uniti in un unico istante, tre “condizioni” della vita fuse tra loro; la memoria per fissare il passato, l’intelligenza per elaborare e agire nel presente e la preveggenza per intuire le conseguenze delle azioni nel futuro. Ma c’è un’altra chiave di lettura, che affonda le radici nella mitologia greca, e in particolare nella storia di Cloe e Dafni, che potrebbe dare una spiegazione razionale al dipinto. Alcuni studiosi ritengono che i due giovani siano personificazione degli sfortunati amanti del mito: prima da bambini, poi da adulti mentre Dafni insegna a Cloe a suonare la siringa, arte trasmessa dal dio Pan; il vecchio, infine, sarebbe il padre del pastore che piange la tragica morte dei due.
Ma ciò non toglie la possibilità che, come avveniva nel Cinquecento, l’opera si presentasse come un percorso di polisemia nel quale si stratificavano più significati pertinenti.