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FMR (2006-2008) Anno 25 Numero 17 febbraio - marzo 2007



Il nudo & i libertini

Pascal Lainé



ICONOGRAphIA
Elogio di Frine

Può la bellezza apparentarsi all’idea di bene e alla verità? Difficile a dirsi. Certo è che dopo ventiquattro secoli la storia di Frine ammaliatrice, “icona sacra” di dea-cortigiana votata alla fortuna e alla perdizione, è ancora così incantevole e perfetta da lasciarci senza fiato. Salva grazie a Iperide, la bella Frine deve la vita pur sempre al proprio corpo e a un uomo, mentre Socrate, accusato come lei di empietà, sceglie di morire.

Il nudo & i libertini di Pascal Lainé


Ephemeris

Il ritratto e il suo doppio
di Giulia Carciotto


Cherubino e le donne
di Giulia Carciotto


A Levante
di Umberto Re


Derain: corpo, colore, Lalique gran sacerdote, Intorno a Prassitele
di Umberto Re



di Giulia Carciotto



di Umberto Re



Mappamundi
Lo sguardo del demiurgo

Geniale, eclettico, paradossale, Carlo Mollino ha fatto di molti ambienti delle vere e proprie Gesamtkunstwerke, opere d’arte totali che ne rappresentano gli umori e le fantasticherie. Pino Musi, geniale fotografo d’architettura, offre una lettura inedita di alcune tra le più celebri declinazioni del suo personalissimo stile.

Casa Mollino e altri luoghi di Fulvio Ferrari
Fotografie di Pino Musi



Mnemosine
Capricci di Soehnée

Charles-Frédéric Soehnée, di origini renane, vive presso Parigi a Le Pré-Saint-Gervais, frequenta
lo studio di Girodet e stringe amicizia fraterna con Pierre-Louis de Laval. Patrick Mauriès, storico abitatore delle pagine di FMR, ne cattura l’universo onirico e visionario: veri e propri “capricci” in cui cortei di fuggiaschi e teatranti cenciosi se ne stanno appollaiati su piccioni scarnificati
o fuggono a cavallo su scheletri d’uccello.

Per un’arte del paradosso di Patrick Mauriès
Fotografie di Sebastian Straessle




LE STORIE DELL’OCCHIO
Al-Q¯ahirah

Come Felice Beato, come i grandi voyageurs dell’Ottocento, Luca Campigotto scopre i vuoti
e i silenzi del Cairo. Non più stereotipo turistico, ma città di vite e di fantasmi, luogo dell’immaginario e dell’anima: luogo, anche, di poesia.

Luca Campigotto in Egitto
di Flaminio Gualdoni
Fotografie di Luca Campigotto


WUNDERKAMMER
Le ore di Caterina

Dove si racconta del gioiello di perfezione meccanica che, per conto della zarina Caterina II e su commissione di Potemkin, suo favorito, scaturì dal cervello del mitico inventore James Cox, proprio a metà Settecento, età d’oro del collezionismo russo. Un invisibile artificio, una piccola penna, anima l’ingegnoso trio di pennuti: un pavone, un gallo e una civetta scandiscono le ore nell’incantevole sala del Padiglione dell’Ermitage.

L’orologio del Pavone all’Ermitage
di Anna Gejko
Fotografie di Aurelio Amendola




GRANBAZAR
Addio Bambolina

Il corpus originalissimo di 227 cartoline è l’unica traccia della corrispondenza amorosa fra Mademoiselle Suzanne e Remigi Dargallo, pittore d’eccezione.
In una Barcellona anni Dieci che spalanca le braccia al Modernismo, vera “città dei prodigi” come la ritrae Eduardo Mendoza, le vivaci creazioni di Dargallo spiccano come eccellente esercitazione antiaccademica e come prova d’intelligenza scoppiettante.

Remigi Dargallo, illustratore
di Enrico Sturani
Lettura di Eduardo Mendoza


LE STORIE DELL’ARTE
Arria Marcella

Théophile Gautier, genio della narrativa francese dell’Ottocento, con questo racconto stabilisce un paradigma della narrativa d’argomento artistico, che apre la strada alla stagione grande dei Zola e dei Maupassant. “Tre giovani amici, che facevano insieme un viaggio in Italia…”

Arria Marcella
di Théophile Gautier
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n. 23 gennaio-febbraio 2008

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Jean-Léon Gérôme (1824-1904), La scultura di marmo, 1890. Olio su tela, cm 39,3 x 25. New York, Dahesh Museum of Art.

Jean-Léon Gérôme (1824-1904), Pigmalione e Galatea, 1890. Particolare e intero. Olio su tela, cm 89 x 68,9. New York, The Metropolitan Museum of Art.

Jean-Léon Gérôme (1824-1904),Vendita di una schiava romana, 1884. Olio su tela, cm 92 x 74. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.

Non ha l’età delle piramidi, ma da Frine ci separano in ogni caso ben ventiquattro secoli. La celebre cortigiana è verosimilmente servita da modello a due dei massimi artisti della sua epoca, lo scultore Prassitele e il pittore Apelle, ma di lei resta soprattutto famoso il processo che le fu intentato per avere “corrotto i giovani e manifestato un’empietà che l’ha condotta al sacrilegio”. Anche Socrate subì un processo analogo e fu condannato per questi stessi motivi. Frine, come è noto, fu assolta grazie all’arringa del suo difensore, Iperide, il cui principale argomento, a quanto si riferisce, fu quello di spogliare la bella etera davanti agli occhi sgranati (ed estasiati) dei suoi giudici. Ora, non è forse vero che lo stesso Socrate professava che la bellezza, portata al suo massimo livello, si apparenta all’idea del bene e alla verità? Quanto a bellezza fisica, si sa che personalmente il filosofo non aveva molte frecce al suo arco, ma come condannare Frine, le cui carni, svelate con un semplice gesto, si facevano rivelazione di ogni verità, manifestazione dell’idea stessa di innocenza?
Ciò che oggi sappiamo di Frine, come di molti suoi contemporanei, è giunto fino a noi, di compilazione in compilazione, attraverso numerose “lenti deformanti”. Le fonti accessibili sono tutt’altro che sicure, e gli storici più rigorosi possono consegnarci solo delle ipotesi plausibili. Correttamente interpretati, i documenti archeologici sono più istruttivi dei racconti lasciati da Plinio, Plutarco o dallo Pseudo Plutarco, e quest’ultimo aggiunge la sua parte di apocrifo ai testi autentici o considerati tali. Ripeto: come garantire la veracità di un testo che è il risultato di varie interpretazioni sovrapposte e che, nella sua elaborazione finale, tenta di riportare un aneddoto risalente a parecchi secoli addietro?
Se ciononostante non rinuncio a riferire i principali, e più probabili, eventi che hanno segnato la vita di Frine, è più per intrattenere il lettore che per informarlo. Spetterà a lui credere o no al mio racconto, accettare ciò che gli sembrerà opportuno e rifiutare come falso quello che troverà troppo sospetto.
Al tempo stesso, però, propongo un altro genere di lettura. Frine è esistita, non c’è alcun dubbio. Ne possediamo persino il ritratto. Un bell’oggetto di marmo bianco scolpito in epoca ellenistica, una copia della celebre Afrodite cnidia, opera di Prassitele, di cui la cortigiana fu il modello preferito e l’amante.
Si sa che era nata intorno al 360 a.C., in Beozia, nel modesto villaggio di Tespie. Da lì, era approdata ad Atene, la grande città dove all’epoca brulicavano all’incirca 400.000 esseri umani. Vi si faceva fortuna o ci si perdeva. Frine non esitò: scelse sia la fortuna che la perdizione.
Questa cortigiana d’alto bordo suscitò ben presto le passioni più accese e regnò sui suoi simili grazie al prestigio conferitole dalla sua bellezza, dalla sua arte consumata di dare piacere e da una vivace intelligenza tesa alla realizzazione delle proprie ambizioni. Si concedeva per somme talmente enormi, a quanto si racconta, che ci appare più come un’icona sacra che come una cortigiana, come la dea vivente ma pressoché inaccessibile dell’amore.
Era in ogni caso la “somma sacerdotessa” dell’amore per la folla di quelli che soggiogava senza concedere loro niente (si dice che si spogliasse solo per i suoi amanti, che evitasse persino di frequentare i bagni pubblici). Non era portata per l’umiltà e dovette sicuramente suscitare pericolose gelosie nelle donne ma, ancor più, rancori funesti in tutti quegli uomini che aveva rifiutato di compiacere, foss’anche per tutto l’oro del mondo: fin dai primi anni della sua vita di cortigiana era in effetti così straordinariamente ricca da non poter essere comprata. Non aveva forse offerto di ricostruire a sue spese Tebe, rasa al suolo da Alessandro? Offerta virtuosamente respinta dai sopravvissuti di quella catastrofe.
Da parte sua, Plutarco riferisce che Frine si fece raffigurare a grandezza naturale: una statua in oro fino che offrì al tempio di Delfi. Fece scolpire un altro suo ritratto, questa volta di marmo, collocato per suo volere nel tempio di Tespie, suo villaggio natale. L’autore delle due opere, inutile dirlo, non era altri che Prassitele.
Rinvio per il momento l’esposizione di alcuni elementi importanti: quel che adesso mi preme è ricordare l’altro incontro chiave di questa ispiratrice nata, di questo sublime modello per gli artisti. Tralasciamo dunque per ora il famoso processo dinanzi al tribunale degli eliasti (altre fonti fanno piuttosto intervenire gli arconti), tralasciamo la grande cerimonia dei Misteri di Eleusi (certi autori evocano in aggiunta una “festa di Poseidone”). Veniamo invece al ritratto della nostra bella realizzato dal pittore Apelle, di passaggio ad Atene. Aveva forse assistito alla celebre processione dei Misteri eleusini durante la quale, per l’unica volta nella sua vita, Frine si sarebbe bagnata nelle acque del golfo Saronico e poi, raggiunta la riva, nuda come Afrodite Anadiomene, avrebbe offerto la visione delle sue carni assolutamente divine al pubblico stupefatto delle migliaia di ateniesi in cammino?
Del dipinto eseguito da Apelle non restano, beninteso, che aneddoti, ampie descrizioni e lodi in quantità. Possediamo in particolare le testimonianze (più tardive, è vero) di Quintiliano, di Ateneo e l’epigramma di Giuliano d’Egitto nell’Antologia Palatina: “Ciprigna è appena uscita dal seno delle onde. [...] Suvvia! Tenetevi a distanza dal dipinto, per evitare di essere bagnati dall’acqua che gronda dalla capigliatura della dea. Se Ciprigna si era mostrata così, in tutta la sua nudità, al pastore Paride per una mela, è davvero ingiusto che Minerva abbia devastato la città di Troia” (XVI, 181).
Su Apelle dovrò tornare a proposito di un altro modello, Campaspe, che gli fu altrettanto prezioso, ma per intanto lasceremo da parte la storia, gli avvenimenti e i personaggi, per occuparci delle opere. Vediamo prima però la vicenda del processo (o quello che di esso crediamo di sapere), processo che, se non rese celebre colei che al tempo era già famosa di suo, ha permesso a questa celebrità di attraversare i secoli e ha ispirato, ormai un po’ più di un centinaio di anni fa, un’opera nota a tutti, spesso derisa, eppure non proprio così volgare come dicono, e magnificamente rivelatrice, soprattutto, dello spirito del suo tempo.
Capita spesso così quando si tenta di far rivivere con l’arte un personaggio del passato più remoto: in casi come questi è di se stessi che si parla – e magari controvoglia – perché non abbiamo più altri modelli da dipingere, un’altra realtà da osservare, un altro segreto da svelare, un’altra confessione da fare.
Nel sottolineare l’importanza rivestita dal contesto culturale del momento tutte le volte che un artista si dedica a rappresentare un passato lontano, faccio tuttavia delle anticipazioni sul motivo principale della presente riflessione, poiché cerco giustamente di manifestare il carattere “parziale”, al limite del controsenso, che contraddistingue abbastanza regolarmente le rappresentazioni “moderne” di un personaggio dell’antichità.

Grazie al genio di Prassitele, al genio ancora più eccelso delle carni , e grazie alla bellezza soprannaturale di un corpo dotato di tutte le perfezioni, Frine fu associata ad Afrodite e in seguito diventò per molti la dea da lei incarnata nella grazia dei suoi gesti più quotidiani. Fu così oggetto di una venerazione e di una gloria che senza alcun dubbio le diedero un po’ alla testa. E qui comincia a delinearsi il lato oscuro di una donna che per la sua bellezza era invece destinata alla luce.
Presso gli ateniesi si praticavano numerose “versioni” del culto ufficiale di Atena – più o meno tollerate, più o meno segrete, più o meno eretiche – importate nel corso dei secoli dai confni della Tracia o dalle coste dell’Asia Minore. Esistevano in città, sotto la denominazione di “tiasi” (processioni o cerimonie orgiastiche, in genere sotto l’egida di Dioniso, che riunivano in sette gli adepti), svariate di queste società votate ai riti sacrilegi del Sabazio lidiano o della Cotito frigia.
Corse voce che Frine facesse celebrare nella propria casa il rito di Cotito, con la quale, non contenta di assumerne il ruolo, pare addirittura non esitasse a identificarsi, e dall’alto del seggio della divinità guardava giù ieratica verso l’assemblea dei suoi adoratori.
Ho detto che la “divina” non acconsentiva a mostrarsi nuda, nemmeno durante queste cerimonie empie e generalmente orgiastiche. Niente però assicura che il suo pudore si estendesse ai suoi fedeli, e non è difficile immaginare che i “Misteri di Cotito” trovassero il loro coronamento nello scatenarsi dionisiaco delle pulsioni sessuali. Ma non siamo ancora di fronte al sacrilegio più imperdonabile. A dire il vero, Prassitele ha una sua parte di responsabilità nella suprema manifestazione dell’ubris dell’amante: non ha forse avuto l’insolenza di offrire al tempio di Delfi – luogo sacro per eccellenza – l’effigie in bronzo della cortigiana, in tal modo insediandola nella casa stessa degli dei, e facendo bene attenzione a rivendicarne il nome e l’origine: “Questa è Frine tespiese, figlia di Epicleus”?
Denunciata da un certo Eutias (un corteggiatore respinto?), Frine dovette comparire davanti al tribunale degli eliasti, che aveva sede sull’erta collina battezzata Eliea perché orientata verso il punto in cui nasceva il sole. Com’è noto, la vicenda si concluse felicemente, grazie all’ispirazione (premeditata?) dell’avvocato Iperide di denudare, alla fine della sua arringa, come argomento ultimo e decisivo, il magnifico seno della troppo “divina” cortigiana.
Ma il racconto degli antichi non finisce qui. Infatti, all’assoluzione di Frine fa seguire una vera e propria apoteosi. Si sa quale importanza rivestissero i Misteri di Eleusi, probabilmente l’evento principale del calendario religioso degli ateniesi che in quei giorni, si era nel mese di settembre, a migliaia si recavano in processione da Atene a Eleusi, distante una ventina di chilometri. Forse gli eliasti volevano che venisse completatamente disvelata quella bellezza che Iperide aveva solo in parte rivelato limitandosi a denudare il seno della sua cliente? Oppure Frine intendeva in questo modo – splendidamente appropriato – esprimere la sua gratitudine a tutti quelli e quelle che, in occasione del processo, le avevano testimoniato simpatia o addirittura venerazione? Fatto sta che a metà del percorso verso Eleusi, là dove il sentiero fiancheggia il mare, nel golfo Saronico, la folla sbalordita vide uscire dall’acqua, divinamente nuda, colei che quel giorno poté essere chiamata senza incorrere nel sacrilegio Afrodite Anadiomene.
Tra la folla si trovava forse il pittore Apelle di Kos, di cui dovremo sicuramente riparlare. Quello che in tal caso avrebbe visto gli offriva il soggetto e il modello della sua Afrodite Anadiomene, dal nome che la tradizione romana ha assegnato a quest’opera che, quasi quattro secoli dopo, poté essere ammirata dall’imperatore Augusto e da lui collocata nel santuario della Venus Genitrix, a Roma. È lì che se ne perdono le tracce.
Quella che fu ai suoi tempi la modella più adorata, suscitando la passione di due dei massimi artisti dell’epoca, ha ispirato alcuni dei più prodigiosi capolavori dell’arte antica. E non solo. Si ritiene che Frine, in grado di ammaliare persino lo scalpello di Prassitele, sia stata all’origine di quella graziosa postura fuori asse che caratterizza le sue statue. Si sa che questa nuova flessuosità del corpo segna un’evoluzione radicale della statuaria greca verso la femminilità, verso un sottile disequilibrio della posa, verso un’erotizzazione dell’idea stessa del bello. Si sa che il Rinascimento italiano non di rifece alla “rigidità” di un Fidia, per esempio, preferendole questa sinuosità del corpo che segna l’incontro fra la vita e la grazia, fra il reale e l’ideale.
Naturalmente, non possediamo più le opere di Prassitele e tantomeno la tela dipinta da Apelle. Eppure Frine non ha smesso di esporre la sua bellezza alla nostra ammirazione, grazie alle copie relativamente fedeli dello scultore. L’Afrodite cnidia ne è il più bell’esempio. Era stata destinata alla popolazione di Kos e scolpita nella sua trionfante nudità, ma i compatrioti di Prassitele si sentirono feriti nel loro pudore e, magnanimo, l’artista offrì loro una sorta di Maja vestida, o, per parlare più seriamente, la magnifica Afrodite di Kos. Anche di questa possiamo ammirare le copie. Dell’Afrodite di Tespie, la Venere di Arles è probabilmente la riproduzione fedele. Ecco almeno tre statue di cui Frine fu incontestabilmente il modello e la cui immagine è giunta fino a noi grazie al lavoro meticoloso dei copisti.
Pochi personaggi di quell’epoca possono vantarsi di aver lasciato di sé tre effigi realizzate dal vero. Ancora con meno frequenza si tratta di capolavori della qualità dell’Afrodite cnidia. È strano che in epoche successive la leggendaria Frine non abbia più ispirato scultori e pittori, in particolare a partire dal Rinascimento. La sua reputazione di empietà sacrilega, lo scandalo associato alla sua insolente bellezza, la sua condizione di prostituta non ne sono certamente la causa, anzi accrescono il fascino del personaggio. Per una strana ironia della sorte, tuttavia, proprio quelle caratteristiche che l’avevano resa tanto seducente sembrano aver giocato in suo sfavore.
Basta confrontare il suo destino artistico con quello di Campaspe, sua contemporanea, che fu la modella, per l’appunto, del pittore Apelle. Nessuno ignora che Campaspe era l’amante del più potente sovrano del tempo, Alessandro, e che questi ne affidò la bellezza al talento di Apelle perché ne facesse il ritratto. La storia narra anche che l’opera di Apelle suscitò un’ammirazione talmente sconfinata nell’imperatore che questi, considerando che la bellezza appartiene naturalmente al genio, offrì la modella al pittore, un dono degno di un Luigi XIV (per quanto il grande re abbia più spesso preso che dato). E fu così che Campaspe diventò l’amante di Apelle.
Ora, sono numerose le tele che raffigurano questo aneddoto o che, perlomeno, mostrano Campaspe che posa per Apelle sotto il benevolo sguardo di Alessandro (evidentemente mai molto lontano). Ho contato non meno di sei opere importanti su questo soggetto realizzate fra il XVI e il XIX secolo – di Joos Van Winghe, di Joost Van den Vondel, due tele di Gianbattista Tiepolo, una di Louis-Jean- François Lagrenée detto il Vecchio e una di Jacques-Louis David – alle quali è opportuno aggiungere una bellissima gouache di Gaetano Gandolfi, un disegno a gessetto di Jérôme-Marie Langlois (del 1819), una raffigurazione estremamente erotica dovuta al pennello di John William Godward, abile fabbricante di trasparenze rosee e onesto emulo di sir Lawrence Alma-Tadema, e, last but not least, una litografia di Daumier della serie satirica della Storia antica, risalente intorno alla metà del XIX secolo.
Gli onori della caricatura hanno portato una sorta di consacrazione a un personaggio, o piuttosto a un terzetto (con Apelle e Alessandro che fanno da spalla a Campaspe), che per tre secoli non ha cessato di ispirare pittori fra i più prestigiosi. Si può addirittura affermare che il dipinto Raffaello e la Fornarina di Ingres, da cui Picasso ha tratto l’idea della sua serie eponima di disegni erotici, costituisca una metafora del terzetto formato dal pittore, la modella e… il voyeur. Quest’ultimo – appassionato d’arte, conoscitore, mecenate – gode paradossalmente di un punto di vista privilegiato, conseguenza della sua posizione dominante in seno al gruppo, perché è lui a commissionare l’opera, a pagare l’artista (e, indirettamente, la modella); è sempre lui – pittore, artista, oltre che imperatore – a rivelarsi lo scontato rivale dell’uomo sottomesso al suo compito. Dunque, Campaspe e l’aneddoto che ne tramanda la figura hanno continuato a ispirare gli artisti dal Rinascimento fino all’età contemporanea, perlomeno se si condivide la mia interpretazione delle Fornarine di Picasso.
Salvo una gouache di gradevole fattura, eseguita intorno al 1763 da Pierre-Antoine Baudoin, Frine resta invece “muta” fino alla metà del XIX secolo: solo allora un certo Gustave Boulanger, abilissimo confezionatore di nudi alla maniera di Ingres, ce ne propone una rappresentazione. Tornerò fra poco sull’opera di Boulanger, perché questa tela è interessante per più di un motivo, a condizione che non ci si aspetti da essa una grande emozione estetica.
Nel 1889 un altro di questi pittori votati all’antico, tutti straordinariamente in voga all’epoca, il polacco Henryk Siemiradzki, dipingeva una Frine alle feste di Poseidone a Eleusi in cui la divina ha la compiacenza di lasciare risplendere l’avorio e il marmo della sua nudità in mezzo a un centinaio di comparse, su una tela – era il minimo! – di quattro metri per otto. Il dipinto, le cui dimensioni sono quasi quelle di una scena per uno spettacolo operistico, s’iscrive più nell’ambito del teatro che in quello dell’arte pittorica propriamente detta, e in ogni caso il suo contenuto si allontana di molto dalla storia, o persino dalla leggenda. Qui l’episodio rappresentato dal pittore è quello, notissimo, dell’apparizione di Frine come Afrodite Anadiomene nel corso della processione degli ateniesi verso Eleusi.
Detto questo, passiamo ora all’opera che ha restituito a Frine la sua celebrità di un tempo: Frine davanti all’Areopago, il celeberrimo dipinto di Jean-Léon Gérôme presentato al Salon parigino del 1861. I due pittori, Siemiradzki e Gérôme, si servono della storia per denudare la cortigiana, famosa (lo ripetiamo) per il suo grande pudore in pubblico. Il polacco pasticcia un po’ e introduce Poseidone quando noi ci saremmo piuttosto aspettati Demetra, ma poco importa: anche se l’opera è di fattura convenzionale, mostra una tecnica assolutamente sicura, e, in mancanza di grazia, i suoi trenta metri quadrati di pittura fanno fronte con brio al loro gigantismo.
Teatrale anche la Frine di Gérôme, dove però la suggestione operistica è abbandonata a vantaggio dell’ironia, per non dire della derisione, di una commedia bella e buona.
Gérôme situa la scena in un luogo chiuso, una specie di emiciclo che evoca, in dimensioni ridotte, la Camera dei Deputati o il Senato. Non si sospetta neanche lontanamente che Gérôme ignorasse che Frine era comparsa davanti al tribunale degli eliasti e che questo, come indicato dal suo stesso nome, teneva le sue sedute a cielo aperto. L’artista, inoltre, ci induce al sorriso con parecchi indizi. La scena rappresentata non è certo seria, almeno non sulla metà destra della tela, dove si vede una sfilza di vecchi vanitosamente vestiti di porpora, ridicoleggiati senza risparmio di colpi, soprattutto nella fisionomia: lubricità, stupore, riprovazione o a volte anche la semplice sonnolenza si contendono i volti. Dirimpetto a questi spettatori, spogliati della loro autorità di giudici e degradati al rango di pubblico da cabaret, la parte sinistra della tela accoglie la pura bellezza del corpo di Frine, denudato dal gesto enfatico del suo avvocato (una vera trovata a effetto) che le toglie il suo unico velo, di un azzurro spudoratamente “virginale”. Fra la scena e il pubblico della platea, nella buca del suggeritore, oserei dire, una statuetta d’oro raffigurante Atena sussurra il vero testo della pièce per chi, fra il pubblico, non avesse afferrato il concetto: la dea, in realtà, fa gli sberleffi a questi signori. Ingiustamente sottovalutata, l’opera di Gérôme costituisce un delizioso apologo il cui titolo potrebbe essere, in linea con il clima settecentesco, Il libertinaggio che trionfa sui libertini. E si sa perfettamente chi faccia cosa in questa storia.
Gérôme rientra in pieno in questo XIX secolo molto meno stupido di quanto si sia voluto dire: gli appartiene per i suoi gusti e per il suo accademismo, lontano retaggio del Rinascimento italiano, dove le lezioni del Tiziano o del Correggio non sono ormai che vaghi ricordi. Gérôme appartiene al proprio tempo anche per lo sguardo ironico che posa su se stesso. È contemporaneo di quelli che hanno messo all’indice I fiori del male o Madame Bovary; e quelle che rappresenta qui, volgendole al ridicolo, sono esattamente delle censure. Appartiene anche a un tempo in cui l’artista non sopravvive se non è “ufficializzato” dai Salon annuali, visitati dalla gente di potere, dall’imperatore in persona e, di lì a non molto, dagli eletti della Repubblica. Si sa delle delusioni subite dagli impressionisti, rifiutati dal pubblico, sì, ma soprattutto da quelli che dettano legge in fatto di opinione e determinano il gusto degli appassionati d’arte. Non è un caso che Frine la cortigiana, Frine la sacrilega, abbia conosciuto il suo momento di gloria (il suo come back, per usare il gergo attuale) negli anni più segnati dalla morale vittoriana. Nei dipinti di Gérôme e nella tela di Boulanger si ritrovano precisamente la stessa fascinazione della carne, del piacere sempre proibito o pericoloso. Ma i due artisti si esprimono ciascuno in una tonalità ben distinta.
Gérôme, per il suo pensiero politico e le sue evidenti opzioni morali, si mostra intelligente e scettico. È sensibile al potenziale ridicolo di certe leggi, di certe istituzioni. I piaceri della carne sono repressi? Si fa mostra di disprezzarli? Si ritrova una certa libertà solo nel ghetto del lupanare? Gérôme prende gusto a ridicoleggiare questi vecchi ipocriti che impongono regole morali assurde che essi stessi non sono in grado di rispettare.
Nel ritratto che fa di Frine, Boulanger esprime invece una vera e propria paura della donna. L’incantevole cortigiana, adorna della sua bellezza giovanile e colpevole solo di insolenze veniali, cede il passo a un demonio femmina, a quell’Eva eterna e fatale che i nostri avi hanno spesso confuso con Lilith o Pandora. Mollemente adagiata su cuscini che suggeriscono inequivocabilmente i piaceri del sesso sacrilego, questa Frine diabolica sembra in attesa di una vittima più che di un amante. Non c’è bisogno di insistere sulle banali angosce che la seduzione e la bellezza possono suscitare. Non c’è bisogno di insistere sull’ambiguità del desiderio maschile, dove apprensione ed euforia s’intrecciano: famoso erotomane ed eccellente scrittore, Pierre Louÿs non ha forse composto Le canzoni di Bilitis, seducente omaggio sia al “bel sesso” che al sesso propriamente detto? Ma non ha forse anche scritto quell’indimenticabile e terrificante lezione pratica che è La donna e il burattino?
Frine, dunque, emerge dall’oblio per impersonare la bellezza del desiderio carnale, la sua innocenza, il coraggio dell’impudenza e, al contempo, i terribili pericoli che, in opposizione a queste stesse qualità, ogni donna bella, giovane e libera suscita naturalmente.
Il dipinto di Gérôme può essere considerato come un autentico capolavoro, perché l’artista vi rappresenta in modo mirabile i costumi della sua epoca. Nessuno sarebbe così ingenuo da sostenere che la sua Frine evochi qualcosa di diverso da una Grecia di pura fantasia, vicina a quella di Pierre Louÿs pur essendole totalmente opposta. Come ho già constatato, i vecchi seduti di fronte alla bella etera fanno pensare a dei senatori della Repubblica, a provinciali benpensanti e privi tanto di senso dell’umorismo quanto d’indulgenza, più che agli eliasti che, 2400 anni fa, hanno dovuto giudicare la cortigiana… e, ovvio, l’hanno assolta.
Ho scelto di mettere a confronto la nostra eroina con Campaspe, il suo pendant o la sua immagine simmetrica. Si potrebbe ornare la mensola di un camino con le loro due figurine, poste una di fronte all’altra. I punti in comune fra le due donne sono parecchi, eccetto che l’una fu giudicata da una repubblica e rischiò la pena di morte, mentre l’altra fu offerta in dono da un sovrano all’artista prediletto.
Non bisogna cadere in errore: non è un caso se Frine, per secoli dimenticata, è stata rispolverata da una repubblica, da una nazione governata da individui forse abbastanza simili agli arconti o agli eliasti ateniesi; così come non è senza motivo se Campaspe, sfolgorante testimonianza della munificenza di Alessandro, ha piuttosto ispirato artisti del XVII e del XVIII secolo, vissuti in un tempo in cui lo sguardo, il piacere estetico e il gusto dovevano moltissimo allo splendore dei numerosi sovrani d’Italia o dell’aristocrazia veneziana, alla competenza dei papi in fatto d’arte e all’orgogliosa gloria dei re e degli imperatori; questi ultimi sono stati verosimilmente i mecenati più ricchi, se non i più avveduti, dell’Europa tutta intera.
Campaspe evocherà per sempre la generosità di Alessandro, ossia la virtù della gratuità, così preziosa, forse, perché totalmente sconosciuta ai potenti di questo mondo. Frine, dal canto suo, ricorda quanto può essere pericoloso l’uso della libertà, soprattutto quella dei costumi, e che i piaceri della carne, in un modo o nell’altro, ci saranno sempre misurati.
Si racconta che Campaspe e Frine si sono incontrate e piaciute. Campaspe non ha esitato a prestare il suo amante, Apelle, perché ritraesse la gloriosa rivale. Oltre all’artista, prestò sicuramente anche l’uomo con cui faceva all’amore. Le due donne non erano nemiche, se bisogna credere alla leggenda, e fors’anche alla storia. Peccato che poi i loro destini si siano divisi… per qualche secolo. Campaspe riappare alla fine del Rinascimento, abbiamo visto, ma di Frine non c’è ancora traccia. Lei farà ritorno nel 1850, sulla tela di Boulanger, mentre Campaspe sembra essere definitivamente scomparsa da quando, cinquant’anni prima, David l’aveva rappresentata sotto lo sguardo di Alessandro, nell’atelier di Apelle.
Siamo alla fine della nostra visita presso le cortigiane? Assolutamente no! La Frine di Gérôme conobbe una notevole fortuna, ispirando sculture, litografie e anche una caricatura che, nei primi anni del XX secolo, stigmatizzava il comportamento politico di un oscuro senatore americano. Più tardi si riaffaccia un’altra Frine, un grande dipinto del brasiliano Antônio Parreiras, che decora con la sua tranquilla e completa nudità il bar del Club Nazionale della Stampa americana. Resta lì per cinquant’anni senza sconvolgere nessuno. È vero che il bar in questione era frequentato solo da uomini. Il che non ha impedito che certi tetri personaggi, lontani discendenti degli eliasti di Atene, esigessero di far sparire il corpo del reato. Alla vendita all’asta la tela toccò la vetta degli 80.000 dollari: il prezzo più alto mai ottenuto dall’artista. Siamo sicuri che il soggetto del dipinto vi ha giocato la sua parte. Quanto a Campaspe, anche lei riemerge nel XX secolo, sotto il pennello di John William Godward, noto, come dicevo poc’anzi, per il tocco delicatamente erotico e un’ispirazione non meno sensibile alla bellezza femminile. E così le due rivali e amiche si ritrovano riunite nel XX secolo.
Che ne sarà adesso di loro? C’è da scommettere che, nel momento stesso in cui scrivo queste parole, una quantità di figure metaforiche delle nostre due eroine sta nascendo nell’immaginazione di questo o quell’altro giovane artista, o già sotto il suo pennello, o sotto qualche altro attrezzo del mestiere, a meno che l’artista in questione (quale che sia il suo sesso) non incarni concretamente Frine durante una performance al cospetto di un areopago di spiriti illuminati o… di creduloni.
Come saperlo?