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Segno Anno 32 Numero 219 maggio-giugno 2008



Forme fisiche e mentali

Paola Ugolini

Intervista a Marco Tirelli



Attualità internazionali d'arte contemporanea


3/27 anteprima mostre & musei
news/worldart - news italia-estero
a cura di Lucia Spadano e Lisa D’emidio

inchieste nell’arte
28/33 Il Collezionismo attivo
Interviste a cura di Roberto Borghi, Paolo Aita, Antonella Marino
80/89 Le Marche, terra del contemporaneo.
a cura di Stefano Verri.
Alcuni giovani artisti, a cura di Cristina Petrelli
90/91 Parchi scultura in Italia
a cura di Antonella Marino
44/49 artisti in copertina
Marco Tirelli
Forme fisiche e mentali

intervista a cura di Paola Ugolini

34/79 attività espositive grandi mostre / recensioni documentazioni
Italia-Italie-Italien-Italy (34), di Stefano Taccone
Cina-Cina-Cina (36), di Nicola Cecchelli
Nathalie Djurberg (38), di Nicola Angerame
Roberto Cuoghi (39), di Nicola Angerame
Jost Wischnewski (39), di Lucia Spadano
Georges Adeagbo (40), di Stefano Taccone
Umberto Chiodi (42), di Laura Luppi
Personali: Ulrich Ruckriem (50), Luigi Ghirri (52), Claudio Abate (53), Bianco-Valente (52), Nausicaa Berbenni (54), Mocellin-Pellegrini (54), Michael Wesely (55), Giovanni Albanese (58), Nicola Bolla (60), Interno 3 (61), Michelangelo Consani (62), Carlo Bernardini (64), Sousie J.Lee (66), Lello Lopez, Nello Teodori (67), Abelardo Morell (67), M.Pistoletto (69), Micol Assael (70), Francesco Garbelli (70), Lea Contestabile (71), Marisa Albanese (72), Katharina Dieckoff (74), Rita Vitali (76), Teresa Iaria (78). Group show: Festival della Fotografia (52), Sei fotografi per grandi architetture (56), Franco B-Zhang Huan (60), The Archive (64), Enigma Helvetia (65), Play-Again (66), Voci silenti (68), Mediterraneum (76), Miraggi (77).
Letture critiche e documentazione a cura di Matteo Galbiati, Paola Ugolini, Veronica Caciolli, Lucia Spadano, Fuani Marino, Federica Bonotto, Paolo Balmas, Stefano Taccone, Andrea Lucariello, Paolo Aita, Alessandra Nappo, Riccardo Caldura, Alessandro Trabucco, Antonello Tolve, Lucia Desiderio, Barbara Meneghel, Viviana Guadagno, Arianna Di Genova, Enrica Chicchio, Cristina Petrelli, Graziano Menolascina, Raffaella Caruso, Siriana Sgavicchia.

92/98 leggere d’arte
• Libri e Cataloghi di Pietro Marino e Lucia Spadano
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Marco Tirelli
Installazione di 32 opere
Senza Titolo 2003
[cm 120x150 ciascuna - tempera su tavole]
Museo Mathildenhohe, Darmstadt, Germania

Marco Tirelli
Senza Titolo 2007
[carbone e tempera su carta - cm 111,8x140]
courtesy Antonella Cattani contemporary art Bolzano

Marco Tirelli
Progetto in galleria, 2008
courtesy Antonella Cattani contemporary art, Bolzano

Le geometrie che compongono l’insieme dei suoi lavori sono strumenti per una ricognizione immaginifica del reale e per creare stimoli nella memoria di chi guarda.

Una stanza con al centro un pianoforte a coda, pareti ricoperte di libri come solo un vero bibliomane sa fare e dappertutto quadri, mute presenze giocate su un registro cromatico sobrio dove inaspettati lampi di luce rivelano le forme. Grandi tele in cui le figure geometriche diventano come per magia apparizioni volumetriche dense di pathos.
Le opere di Marco Tirelli sono finestre aperte sull’infinito, sono rappresentazioni di simboli che nella loro sensuale fisicità riescono a toccare le corde più intime del nostro inconscio. La sua pittura densa e vellutata è il mezzo per mettere in comunicazione il mondo fenomenico con tutte le possibilità che si celano in quello del non rappresentato. L’artista come un moderno demiurgo crea illuminando con le sue morbide pennellate il buio dell’infinito, un infinito che racchiude tutte le forme e i mondi possibili. Le sue opere sono spazi meditativi attuali e allo stesso tempo arcaici, sono architetture mentali dense di spiritualità in cui perdersi nella ricerca dell’assoluto

Hai cominciato la tua carriera alla fine degli anni ’70, un momento di svolta per la pittura che dopo anni di sperimentazioni astratto-concettuali è tornata a recuperare la figurazione. Tu però hai seguito un percorso diverso con una ricerca formale dominata dalla geometria che ancora è la cifra distintiva del tuo lavoro.

In quegli anni non ho vissuto il ritorno della pittura come un “rappel à l’ordre” rivoluzionario, perché, al contrario di quello che si vuole far credere e cioè che ci sia stata una sorta di ribaltamento totale con l’avvento della Transavanguardia, in realtà il voler fare pittura era un’esigenza diffusa. Però dato che in quel momento, gli inizi degli anni ’80, l’attenzione della critica e del mercato si era focalizzato più su quel tema che non su altri l’interessamento verso gli artisti che si esprimevano con immediatezza è stato ovviamente fortissimo. Io come artista mi sono sempre dedicato alla pittura mentre la mia formazione mentale è maturata nell’area dell’arte concettuale. Quindi ho sempre avuto una sorta di dicotomia interna cioè da un lato la pittura in senso fisico come spazio di disputa cavalleresca, di avventura, di memoria e di emozione e dall’altro la pittura come ricerca puramente mentale. E’ un incontro-scontro fra un’idea di pittura che si svolge in un preciso spazio fisicamente delimitato e in cui vigono certe regole ben definite, che sono le regole date dalla superficie, con, contemporaneamente, la libertà mentale propria della cosiddetta Arte Concettuale e questo è stato il nodo, il conflitto con cui mi sono misurato e su cui da sempre ho lavorato. Quindi, per tornare alla fine degli anni ’70, quando ho cominciato a lavorare, da un lato c’era l’Arte Concettuale che chiamo così in senso generale per indicare un po’ tutte le sperimentazioni che all’epoca hanno rotto i confini, hanno allargato il campo d’azione alle ricerche extrapittoriche spostando l’attenzione più che sull’opera sul pensiero che crea l’opera, e questo per me è stato molto formativo, ma allo stesso tempo cercavo nella pittura, nel fare pittura, un campo in cui definire il mio torneo regolato ma cruento. Io, per esempio, se gioco a scacchi devo seguire determinate regole poi le aperture di mosse possono essere infinite ma sempre dentro delle regole ed è da questo conflitto fra ordine e disordine, visionarietà e azzardo che è maturato il mio percorso. Per me la libertà non è uno sfogo irrazionale e folle dell’eccentricità ma bensì trovare delle regole con cui poter costruire un sistema di lavoro. La superficie è il terreno su cui ho sviluppato veramente la mia avventura artistica, per superficie intendo quel luogo in cui si scontra la fisicità della vita, della realtà ma allo stesso tempo è quel limite in cui può avvenire qualcosa che può essere riempito dalla tua percezione della superficie stessa, mi spiego, quando vedi un affresco su un muro sai che quella pittura è stata fatta su una superficie solida, materiale, pesante, grave ma la pittura rappresenta proprio quell’accadimento magico che de-materializza la superficie del muro facendola diventare altro da se , e la pittura dove avviene? avviene sulla superficie cioè su questo luogo che non sai bene materialmente cos’è, non sai dove inizia e dove finisce e che segna il limite fra il fisico ed il mentale, e questo è il luogo che mi interessa che è passaggio metafisico per eccellenza, che è la porta fra la realtà e il possibile.

Infatti le forme geometriche che tu usi non sono un fine ma un mezzo per raccontare l’invisibile, questa, a mio avviso, è la cifra stilistica della tua pittura una geometria mistica che ti permette di entrare in contatto con tutti i mondi possibili e non detti. Anzi nei tuoi quadri il non rappresentato è forse più presente del visibile.

A me piace l’idea, molto tradizionale e forse pure un po’ banale, dell’opera d’arte come finestra, un concetto contro cui si sono scagliate tutte le avanguardie del ‘900, però per me l’immagine della finestra è stata importante perché esprime molto bene il concetto dell’affacciarsi oltre il mondo fisico. Faccio spesso l’esempio di quando vivevo in campagna e c’erano certe notti di buio totale senza né stelle, né luna e quando mi affacciavo dalla finestra avevo la percezione quasi fisica di questo buio abissale perché non era possibile vedere nulla eppure, razionalmente, io sapevo che lì fuori era pieno di mondo, io ero nella mia casa illuminata che, metaforicamente, rappresentava il mondo fisico perché era percepibile dai sensi, e mi affacciavo su questo quadrato nero che era il luogo del possibile, dell’infinito. Già Malevic, sebbene in altri termini, ci ha detto queste cose, anche per lui il quadrato nero era il luogo del tutto possibile. Affacciandomi da quella finestra io guardavo questo mondo del tutto possibile ma non erano i sensi a poterlo percepire ma la mente. C’è in me fortissima questa istanza, questo desiderio, questa necessità che forse è una nevrosi di voler abbracciare l’infinito, ma proprio guardando il buio gravido del tutto mi rendevo conto che io dell’infinito potevo prendere al massimo o un’idea totale come quella del buio, nel senso che nel buio c’è l’infinito ma non ne posso partecipare oppure posso rubare dei piccoli frammenti. Dalla mia finestra con una torcia elettrica mandavo un fascio di luce, quindi rendevo visibile una parte del tutto, catturavo dei frammenti di realtà che portavo fuori dal buio cioè dall’infinito che li conteneva, li tiravo fuori dall’abisso della notte rendendoli percepibili, e in quel momento come in un rituale mistico come in una sorta di transustanziazione portavo quei frammenti di realtà a me e io nello stesso tempo mi rapportavo a loro quindi c’era come un passaggio fra il mondo fisico, visibile e quello che io chiamo metafisico perché c’era ma sfuggiva ai sensi. Se con il mio fascio di luce tiravo fuori la palla rimasta sul prato ma che era assorbita dalla notte, in quel momento la palla diventava per me testimone dell’infinito, immersa nel suo retro nell’abisso che contiene tutto, ma, che porgendomi un lato, in quel momento lei mi testimoniava l’infinito come in un teatro del possibile.

Nel tuo lavoro luce e ombra sono due elementi portanti che si contrappongono ma, in questo caso, la luce è l’elemento che ti permette di tirare fuori dal nulla la forma. Michelangelo “cavava fuori” dal blocco grezzo di marmo l’immagine che già vi era contenuta, tu con la luce fai emergere dall’abisso tutti i frammenti di realtà contenuti nell’assoluto.

Sai io non mi sono inventato nulla, c’è tutta la mistica della luce propria del Sufismo, c’è tutta una grandissima tradizione della luce che può portare al visibile l’invisibile, basti pensare alle icone, alla prospettiva rovesciata, la stessa Bibbia ne parla continuamente e la simbologia legata a questo argomento è ricchissima, per esempio in certe chiese romaniche soprattutto francesi, la lanterna situata sopra la cupola è realizzata in modo da poter permettere alla luce di entrare all’interno e colpire il pulpito da cui l’officiante recita le sacre scritture, la luce che viene dall’alto diventa simbolicamente la parola di Dio. In certi casi le sacre scritture venivano appoggiate su un supporto marmoreo a forma di aquila perché questo, oltre ad essere il simbolo di uno dei quattro evangelisti, è l’unico animale che può volare verso il cielo e fissare il sole ecco perché diventa un animale sacro, che può comunicare con la divinità. Lo stesso Malevic veniva dalla tradizione delle icone, l’iconostasi delle chiese ortodosse è concepita proprio sull’idea della superficie come imene, come membrana che divide il qui, il mondo fisico e l’al di là, il possibile. I credenti vedono nell’al di là un senso che per me è più semplicemente possibile, io vedo solo il buio, per me non ci sono risposte ma solo quesiti aperti.

La tua pittura non da risposte anzi al contrario lascia aperti molti interrogativi, è altamente simbolica, impregnata di spiritualità con sublimi costruzioni di architetture dell’immaginario, perché tu sei un artista barocco e come tale non puoi che costruire dei grandi teatri, anzi chiese e teatri, i due luoghi architettonici per eccellenza del Barocco. E poi io rimango dell’idea che l’Arte non debba né essere rassicurante né fornire risposte è molto più importante e utile che ponga degli interrogativi.

Per me l’Arte non ha veramente nessun senso, infatti il mio lavoro è anche sul non-senso della realtà cioè io mi sento come l’ago di una bilancia che tiene su un piatto Malevic e sull’altro De Chirico, perché è evidente che questo quadrato nero, questa finestra nera è nella linea spiritualista della cosiddetta arte astratta e dall’altra parte c’è l’idea del frammento sottratto all’infinito e che è completamente insignificante, i frammenti sono quello che tu li fai essere nel momento in cui ti ci relazioni altrimenti loro scompaiono nel buio del non-senso, e qui arriviamo a De Chirico e al suo nichilismo e al suo silenzio delle cose. Quando io parlo del buio e del vedere è una metafora del senso, non-senso dell’esserci, non-esserci non è solo un puro fatto meccanico di luce e di ombra che si contrappongono. Buio anche nel senso che se io guardo per esempio questo pianoforte e poi mi volto e guardo un’altra cosa l’oggetto pianoforte esce dal mio campo visivo precipitando nuovamente nell’abisso del buio e quindi la realtà dove sta? in se stessa o nella mia relazione con lei ? E’ questo continuo sfuggire delle cose che tento di afferrare….

Ma in effetti è proprio così, la realtà esiste quando noi la facciamo esistere perché la vediamo è la famosa storiella zen dell’elefante raccontato da sei ciechi, la conosci?, te la racconto: ci sono sei ciechi che devono descrivere un elefante, a seconda della parte del corpo dell’animale che toccano è come se ognuno raccontasse un animale diverso, per quello che tocca la gamba l’elefante è una poderosa colonna, per chi tocca le orecchie una specie di grande foglia carnosa, per chi tocca la proboscide una sorta di lungo serpente, per chi tocca le zanne l’animale non è neppure fatto di carne viva ma di pietra e così via, ovviamente tutti dicono la verità perché l’elefante è tutte le diverse realtà che descrivono solo che non potendo coglierne l’aspetto generale ognuno ha la propria realtà rispetto a quell’animale e noi rispetto al mondo siamo come quei ciechi, procediamo a tentoni e parcellizziamo il tutto per cercare di comprenderlo.

Esattamente, è il mito della caverna di Platone, ma senza addentrarmi troppo nei meandri filosofici a me quello che interessa è proprio questa idea di un viaggio, che da un lato è completamente inutile ma che relativizza e da un ordine calmo alle cose perché, in effetti, può fare paura questa idea che le cose esistono solo nel momento in cui ci relazioniamo con esse e scompaiono quando smettiamo di interagire con loro, non è che le cose non esistono più in assoluto, non esistono più a livello di coscienza quindi è importante la consapevolezza che le cose esistono perché vengono attivate da noi, dal nostro interesse per loro, quindi se tu le attivi con passione, attenzione, profondità, dedizione, amore certamente queste cose diventano a loro volta più ricche, e, volendo trovare anche un lato morale in tutto quello che abbiamo detto, il mio è un atteggiamento che invita alla tensione positiva verso le cose perché credo che più si tende in maniera totalizzante verso le cose più queste a loro volta ti danno, ti ripagano, meno ci tendi e più tutto diventa inutile, sfumato…Il punto centrale del mio discorso è la relazione fra noi e le cose quindi io, ovviamente, non metto in discussione l’esistenza fisica delle cose, io metto in discussione l’idea che si possa parlare di “un se stesso” separato perché invece tutto è in relazione con noi e all’interno e all’esterno di noi, e qui entra in gioco anche la memoria che fa esistere, cancella, neutralizza a seconda di un percorso…

La realtà è tutto ciò che noi crediamo sia vero, pensa alle esperienze di trasformazione di percezione della realtà condotte trent’anni fa dai cultori delle droghe psichedeliche come Timoty Leary con l’acido lisergico o dall’antropologo Carlos Castaneda con il peyote, era un modo per andare oltre l’apparenza fisica del reale, per squarciare il velo di Maya per rompere la matrice spazio-temporale in cui viviamo.

È vero e quel tipo di esperienze l’hanno dimostrato, ma è da quando l’uomo ha raggiunto uno stato di maggiore coscienza interiore che tenta di andare al di là delle apparenze del reale, il pensiero medievale per esempio è tutto impostato sull’idea dell’esistenza delle cose al di là del concreto, le cose dal momento in cui le abbiamo pensate o immaginate o addirittura solo sognate esistono perché ci siamo comunque relazionati con esse, le abbiamo create, le abbiamo “viste” con gli occhi della mente. Da qui si apre l’affascinante possibilità di rigenerare il mondo di “ rimetterlo al mondo” (A. Boetti), non è un negare la realtà in se ma essere consapevoli del fatto che la realtà mostra un aspetto e questo aspetto è uno dei possibili e infiniti che ci possono essere. A questo proposito mi piace ricordare che il detto “le apparenze ingannano” non è vero in realtà siamo noi che inganniamo le apparenze, le apparenze semplicemente appaiono. Noi esseri umani anche solo a livello fisico percepiamo il mondo in maniera diversa, la ricchezza degli oggetti, delle cose è data dall’inganno, dai vestiti che noi gli mettiamo sopra, l’esempio più tipico in questo senso è dato dall’innamoramento, quando ci piace qualcuno tendiamo in genere a proiettargli addosso i nostri desideri e le nostre aspettative e quindi ne modifichiamo l’apparenza. Le cose mutano non soltanto in riferimento alla relazione con noi ma anche a seconda del luogo in cui si trovano, questo pianoforte se io lo metto su un ramo di un albero rimane sempre lo stesso oggetto ma il suo senso si modifica, cambia…

Ma sulla decontestualizzazione dell’oggetto ci ha vissuto tutta l’arte da Duchamp in poi…

Certo e tutto è in relazione, tutto è scambio, come in un gioco di specchi in cui la realtà si riflette e si modifica. Ogni particella è parte del tutto e lo contiene, ogni oggetto è testimone di altro, di assoluto, di infinito dove tutto diventa una porta verso infiniti possibili mondi. La mia frustrazione è di non potere abbracciare il tutto ma solo piccoli frammenti di mondo, nei miei quadri cerco delle forme, degli oggetti che il più possibile possano riverberare altro e portarmi oltre da loro stessi mostrandomi il loro poter essere sempre qualcosa d’altro. Ogni forma per me è carica del mondo che si porta dietro, forma che io cerco di ridurre al minimo ma perché questo minimo si possa aprire al massimo di se. Questa è la magia dell’opera d’arte, la capacità di farti andare oltre quello che vedi, questa è la sua potenza immaginifica, questa è la sua meraviglia.