Janus (2006-2010) Anno 9 Numero 24 giugno-dicembre 2008
In questa nuova estetica che rimpiazzava il vecchio classicismo vi era l’intenzione di sostituire un ordine artificiale imposto alla natura con quella che John Dryden con enfasi poetica chiamava “God’s first idea”.
Rispetto al passato, Pedro Cabrita Reis elimina anche la definizione di paesaggio, ponendo l’idea di giardino a confronto con dimensioni spaziali specifiche come “territorio”, “luogo”, “siti”.
Secondo Pedro Cabrita Reis (Lisbona 1956) i “giardini sono un ordine geometrico per la natura “. A cominciare dal 2000, l’artista portoghese ha realizzato diversi e veri giardini a Le Crestet. Stockolm, Dijon, London, Graz e infine alla Fondazione Merz di Torino (2008). La dose di verità di questa serie di giardini è efficacemente testimoniata dall’assenza di qualsiasi elemento naturale o verde all’interno delle sue installazioni in virtù dell’assunto, peraltro condivisibile, che oggi la “Natura è scomparsa come punto di riferimento”.
Giovanni Iovane è curatore indipendente e professore di storia dell’arte contemporanea a Brera, Milano
Let me take you down
cause I'm going to strawberry fields
Nothing is real
and nothing to get hung about
Strawberry fields forever
The Beatles, Strawberry Fields Forever
Oltre che per aver scritto il Castello di Otranto e per la costruzione di un “piccolo castello gotico” a Twickenham chiamato “Strawberry Hill”, Horace Walpole è diventato famoso per un saggio, “On Modern Gardening”.
Pubblicato all’interno del volume Anecdotes of Paintng in England (1780), immediatamente divenne il più brillante e influente testo inglese sulla storia del giardinaggio. Walpole, è stato contemporaneamente uno dei più sorprendenti protagonisti dell’architettura ( e del romanzo) neogotica e lo speaker ufficiale del giardino romantico e pittoresco, che in forme non molto dissimili da allora ancora influenza i moderni e contemporanei progetti del landscape architect ( e specialmente quella che viene definita la Garden Art).
Nel suo On Modern Gardening, Walpole fa suo il principio di Wlliam Kent (un prototipo settecentesco, per così dire, del contemporaneo landscape architetct), principio con il quale si può riassumere efficacemente la portata di quella rivoluzione estetica “verde” e anglosassone: “La natura detesta la linea dritta”.
In questa nuova estetica che rimpiazzava il vecchio classicismo vi era l’intenzione di sostituire un ordine artificiale imposto alla natura con quella che John Dryden con enfasi poetica chiamava “God’s first idea”.
Naturalmente, nella pratica e nella teoria questa “prima idea di Dio” era alquanto innaturale giacché i modelli e le fonti d’ispirazione di quegli esteti erano la pittura di Claude Lorraine, una certa predisposizione al culto delle rovine e un’altrettanta propensione a correggere od enfatizzare artificialmente il paesaggio con contraffatti cumuli di rocce, falsi edifici diruti e finti ponti crollati ( forse da un punto di vista mitologico più che la natura sono gli Dei a detestare la linea retta come ci mostra bene Shakespeare in Midsummer Night’s Dream).
E sempre in Inghilterra questa estetica della falsa rovina (paradossalmente opposta al “God’s first idea” di Dryden) trova il suo apice a Virginia Water, nel Surrey, nel 1827. Qui la rovina da cosa, da elemento architettonico si trasforma in luogo, in paesaggio naturale. A Virginia Water furono erette le rovine (autentiche e trasbordate) della città romana di Leptis Magna (vicino a Tripoli, in Libia) per costruire una folie nei giardini di re Giorgio IV.
“L’architetto reale fu Jeffrey Wyattville che si trovò di fronte a un cumulo disordinato di frammenti a partire dai quali creare un edificio. Non ci sono pervenuti progetti e senza dubbio egli improvvisò: nell’assemblaggio c’è una giocosa fragilità, come se giganti ubriachi avessero giocato con Lego colossali”. (1)
Tre anni dopo, nel 1830 e sempre in Inghilterra, vi fu un’invenzione che contribuì in maniera determinante alla vasta diffusione nel mondo occidentale dell’estetica romantica e pittoresca: il tosaerba.
L'idea di una macchina per tagliare l'erba è stata concepita dall’ingegnere Edwin Beard Budding. In origine il tosaerba è stato destinato soprattutto a tagliare il prato sui campi sportivi e sui giardini come alternativa alla falce. Il suo brevetto del 25 ottobre 1830 recitava:
"una nuova combinazione ed applicazione di macchinario per lo scopo della coltivazione o di tosatura delle superfici di verdure, dei prati, di erba e luoghi di svago".
Il tosaerba rappresenta l’idea, tipicamente anglosassone, di progresso e di democrazia. Lo stesso Walpole, anni prima, affermava che il nuovo giardino all’inglese era anche un simbolo del progresso e della modernizzazione contro l’odiato giardino barocco (Versailles, ad esempio) simbolo dell’assolutismo e della tirannia; tirannia anche e soprattutto che si manifestava come “oppressione” della natura.
Il tosaerba, nelle sue successive e sempre rumorose evoluzioni, è la macchina che accomuna nella perfezione le distese erbose dei grandi parchi,del central court di Wimbledon (almeno nella prima settimana di gioco), sino ai rettangoli verdi delle casette di periferia.
La rivoluzione estetico-culturale del taglia erba è paragonabile a quella delle prime teorie dell’Arte Concettuale, per le quali ciò che conta è l’idea (ancora una volta “God’s first idea”?), il progetto mentre chiunque può materialmente realizzarlo.
L’arte concettuale e in genere le esperienze artistiche della fine degli anni Sessanta, ci consentono, dopo questa introduzione, di trovare riferimenti e modelli per le idee e le installazioni “on gardening” di Pedro Cabrita Reis.
Il 1967, in particolare, è stato un anno fecondo per le sculture o installazioni “verdi”. In quell’anno Pietro Pascali presenta alla galleria l’Attico di Roma Un metro cubo di terra e Due metri cubi di terra Hans Haacke realizza Grass Cube (seguito nel 1969 da Grass Grows) mentre Jan Dibbets Grass Roll.
Tutte queste opere sono contraddistinte da una letterale e naturale corrispondenza del titolo con ciò che si vede. Con gli occhi di adesso, tutte queste opere, oltre a denunciare le ambiguità dell’opposizione naturale / artificiale, l’utilizzo della materia artistica come elemento naturale, possono benissimo ricondursi al mirabile acquarello di Albrecht Dürer, “La grande zolla d’erba” (1503) conservato al museo Albertina di Vienna (vedere la natura e il paesaggio con gli occhiali dell’arte è un vizio romantico tuttora persistente).
Del 1966, invece, è un articolo di Robert Smithson apparso sul numero di giugno della rivista Artforum: Entropy and the New Monument.
Tale articolo influenzò, insieme al Situazionismo di Guy Debord, le opere e le teorie di Gordon Matta Clark, probabilmente, e ancora una volta dal punto di vista romantico, l’interprete più efficace del paesaggio post-industriale.
Garbage wall (1970) si può considerare il manifesto del “nuovo”paesaggio urbano e, contemporaneamente, una data più o meno esatta, per decretare la fine della natura.
“La natura è scomparsa come riferimento” (2), afferma Pedro Cabrita Reis, uno degli artisti contemporanei che meglio ha saputo sviluppare le teorie di Smithson e i paesaggi di Gordon Matta Clark..
L’artista portoghese, a partire dal 2000, ha realizzato una serie di installazioni, intitolate tutte True Gardens , per diverse città europee. L’ultimo True Garden (#6) è stato realizzato per la marziana Kunsthaus di Graz e poi ricollocato all’interno della Fondazione Merz di Torino (estate 2008) in un interessante e architettonico dialogo con le opere pittoriche e scultoree di Mario Merz.
Che la natura sia scomparsa come riferimento è un dato di fatto. Sebbene diversi artisti s’impegnino a progettare giardini, tale attività somiglia in genere a quella delle folies d’un tempo.
Anche dal punto di vista della storia dell’arte, il “giardino d’artista”, la visione del giardino d’artista ha oggi trovato il suo perfetto opposto rispetto a ciò che si proponeva alle sue origini. Una splendida mostra allo Städel Museum di Frankfurt am Main e poi alla Lenbachhaus di Munich (2006-2007), intitolata Gärten: Ordnung-Inspiration-Glück (3) presentava al suo inizio una bellissima piccola tavola quattrocentesca di un Maestro Renano, Il piccolo giardino del Paradiso.
Il soggetto del dipinto, comune sia al medioevo che al rinascimento, è un hortus conclusus, un giardino paradisiaco appunto circondato da mura. Fuori dal tempo, alcuni personaggi sacri si “deliziano” all’interno di una natura dipinta con intenti allegorici ma anche con grande abilità e precisione botanica (sono riconoscibili numerose varietà di piante).
La mostra si concludeva con le opere di un maestro renano contemporaneo, Thomas Struth e con una sua grande foto a colori, Paradise 24 del 2002 (tratta dalla serie New Pictures from Paradise). L’opera fotografica ritrae un luogo della giungla amazzonica. Dal giardino dell’Eden alla foresta amazzonica contemporanea l’archetipo (anche artistico) del giardino paradisiaco ha mutato radicalmente segno: ora è la natura o quel che resta di essa che ha bisogno di mura per proteggersi dall’uomo.
In tal senso, la posizione di Pedro Cabrita Reis è ancor più radicale e di conseguenza lo sono i suoi True gardens, a cominciare dai materiali impiegati nella loro realizzazione.
Cabrita Reis è un pittore che adopera materiali riciclabili ed edili come legno, mattoni, cemento, intonaco, vetro, cavi elettrici, rame e tubi fluorescenti e colori acrilici. (“ Io penso di essere un pittore che ama incorporare nella pittura stessa altri livelli, facendo sculture, installazioni o appropriandomi di spazi” Pedro Cabrita Reis).
Le sue sculture, i suoi quadri e installazioni combinano quella che abbiamo definito una “estetica della rovina” (di cui la serie della fine degli anni 90 Blind Cities credo sia l’emblema) insieme alla critica del modernismo o di ciò che resta, al di la del post, di esso. Di quest’ultimo aspetto la serie The Studio Windows può considerarsi una sorta di concentrato. Nell’opera del 2007 (#3) l’artista aveva installato su tre file 24 finestre “riciclate” d’acciaio su una parete. Anche il linguaggio artistico, così come la natura, è soggetto alle leggi dell’entropia e dunque persino un’idea modernista come la griglia ( grid) che a sua volta aveva sostituito, per consunzione, la vecchia idea rinascimentale della “finestra” può essere recuperata archeologicamente dagli scarti o dai rifiuti urbani.
I “giardini” di Cabrita Reis, a differenza dell’ultimo sussulto naturalistico e tautologico degli anni 60, non presentano e non ordinano erba o piante.
Nondimeno conservano, dell’idea storica di giardino, lo statuto originario: “ Un giardino è una geometria per la natura” (Pedro Cabrita Reis).
Si tratta, infatti, di true, di veri giardini e come per tutti gli spazi possibili, la geometria è l’elemento necessario che fornisce o dona anche autenticità.
E tale geometria viene applicata alla forma del giardino e, nello stesso tempo, anche allo spazio specifico che lo accoglie.
Così è, ad esempio, per True gardens#3 installato al Fonds Régional d’Art Contemporain Bourgogne di Dijon nel 2004. All’interno di un sala rettangolare bianca (una scatola bianca, un quasi white cube, topos puro della geometria modernista) un giardino “formale”, coltivato da un giardiniere bricoleur, suddivide lo spazio espositivo mediante linee rette composte da mattoni, tubi fluorescenti e cavi elettrici ( a differenza di William Kent, l’artista portoghese sembra riaffermare la predilezione della natura per la linea retta).
Se la natura è scomparsa come riferimento ciò non vuol dire che non sia più possibile progettare giardini. Cambiano le forme e soprattutto la sostanza della rappresentazione. Come per Blind Cities, e con lo stesso grado di entropia, ci troviamo di fronte ad una particolare archeologia che riordina gli oggetti del passato prossimo, del presente post-industriale piuttosto che del passato remoto.
Rispetto al passato, inoltre, Cabrita Reis elimina anche la definizione di paesaggio, ponendo l’idea di giardino a confronto con dimensioni spaziali specifiche come “territorio”, “luogo”, “siti”. Questo accorciamento della distanza tra il giardino e lo spazio specifico che lo accoglie (un interno, comunque) è immediatamente visibile in tutti i giardini sinora realizzati ma risulta ancor più marcato nella duplice esperienza di Graz, a confronto con la stralunata architettura di Peter Cook, e poi, con quella ordinata della Fondazione Merz di Torino (2008).
True Gardens #6 è composto da scatole rettangolari di legno chiuse da lastre di vetro, tubi fluorescenti e fili elettrici, per un totale di 88 elementi ognuno dei quali misura cm 32x250x125.
L’architettura è una forma d’illusione o, nei suoi casi geometricamente migliori, un “mestiere d’utopia” (4). E’ forse per questo motivo che secondo Cabrita Reis, l’intelligenza, l’essenza dell’arte deriva da una intuizione di verità e che, dunque, lui “preferirebbe vedere con i suoi occhi chiusi”.
Note
1. Christopher Woodward, In Ruins, 2001; trad.it., Tra le rovine, Milano, 2008, p.128.
E sempre Woodward riporta l’involontariamente geniale, perché segno dei nostri tempi, cartello che oggi è posto dinanzi l’entrata di Virginia Water: “ Queste rovine furono erette in questo sito nel 1827/dal Re Giorgio IV/essendo state importate nel 1818/ dalla città Romana di Leptis Magna/ vicino a Tripoli in Libia/ Pericolo-Non avvicinarsi”.
2. Traggo questa e altre citazioni di Pedro Cabrita Reis dall’ottimo catalogo che ha accompagnato la sua esposizione True Gardens #6 alla Kunsthaus di Graz, ed. Walther König, Köln,2008.
3. Accompagnata da un altrettanto splendido catalogo, The Painter’s garden, Inspiration-Delight, Design, a cura di Sabine Schulze, Hatje Cantz,2006)
4. Come ha spiegato in un libro complesso e talora oscuro ma sicuramente affascinante Michel Serres in Les origines de la géométrie, Paris, 1993