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Extrart (2006-2009) Anno 8 Numero 35 ottobre-dicembre 2008



Quattro domande a Marco Manray Cadioli

Mario Savini

Intervista



iniziative coordinate per l'arte contemporanea
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Le meraviglie dei loci horridi sembrano allargarsi fino alle distese del Metaverso, aprendo nuove frontiere del “sublime”: la vastità degli oceani, delle montagne, dei deserti e la mancanza di punti di riferimento affascinano per l'ambiguità del silenzio. È quello che scaturisce da “Why is there something rather than nothing?” (2008), reportage realizzato da Marco Manray Cadioli, uno dei net-reporter più conosciuti di Second Life: “è qui – dice l'artista – che spesso trovi la potenza dell'esperienza dell'ignoto, almeno nel forte impatto iniziale […]. Ho fotografato questi luoghi in modo da farli sembrare lontani e selvaggi”. Questo aspetto, però, non ha esclusivamente una rilevanza estetica perchè implica un diverso modo di guardare all'individualità. È una visione sul viandante (der wanderer) contemporaneo, colui che non conosce limiti di spazio e che transita da una geografia all'altra, registrando la precaria esistenza dei confini. Anche per questo è importante focalizzare l'attenzione su “Replica” (2008), ritratti scattati in una fabbrica illegale di cloni di avatar: “Appaiono come una nuova specie in arrivo, - afferma l'artista - li ho fotografati come se camminassero verso di noi come in un Quarto Stato di Second Life”. Ad emergere sono quegli aspetti legati ai differenti processi migratori e alle narrazioni elaborate dalla cultura convergente. Un modo per ribadire che la trasformazione dello spazio e la sua valorizzazione si sviluppano conseguentemente alla creazione di una nuova struttura sociale.


Sei autore del libro “Io, reporter in Second Life”. Parliamo della tua professione.

Vivere l'esperienza del reporter dal mondo virtuale è stato un passaggio fondamentale per il mio progetto artistico. Io affermavo il concetto di net-photography già con il manifesto di Internet Landscape nel 2003, quando fotografavo nel web e poi nei giochi di guerra, ma la pubblicazione delle immagini da Second Life sulla stampa internazionale è stata in qualche modo il riconoscimento e la legittimazione dell'idea di net-reporter. L'uscita di una mia foto di Avatar sulla prima pagina di Liberation di Parigi ha per me il senso della performance, è il lieto fine della storia di un net reporter. Nel libro racconto la storia di Marco Manray, il mio Avatar in Second Life, dai primi giorni del 2005 quando non c'era in giro nessuno fino al picco di esposizione mediatica di SL della primavera del 2007. L'impatto di ciò che mi stava succedendo era così forte che sentivo l'esigenza di raccontare, oltre che fermare attimi in immagini, e ho iniziato a scrivere un diario che poi è diventato il libro. Parlo di SL attraverso le mie esperienze, gli incontri, gli amici, le inaugurazioni delle mostre, gli artisti, racconto dei servizi per i giornali, per la moda, per l'architettura. È stato un periodo frenetico, ero dappertutto a scattare continuamente, c'erano eventi a ogni ora del giorno e tutto aveva il senso della “prima volta” tutto era imperdibile e andava documentato. Seguivo i ritmi della stampa del mondo reale andando a realizzare i servizi in Second Life, costruendoli come reportage da un qualsiasi paese, e via via questo processo prendeva i contorni di una professione, in rapporto con i meccanismi del giornalismo. I momenti più interessanti sono quando si lavora a stretto contatto con le redazioni, pianificando un reportage di ampio respiro su un argomento e andando a scattare in-world, con il tempo per un lavoro di ricerca e approfondimento. Poi l'interesse dei media è sceso drasticamente, e anche la mia esigenza di raccontare SL come fenomeno in sé si è trasformata in una riflessione più ampia sui mondi virtuali e le tematiche che pongono.


In “Perdersi” di Franco La Cecla si legge che “In un mondo in cui l'ambiente naturale è invaso e sostituito da quello costruito, la potenza dei luoghi sconosciuti si sposta sempre più lontano fino a diventare irraggiungibile”. Cosa ti ha spinto ad inoltrarti nelle aree selvagge ed incontaminate di Second Life per realizzare il reportage “Why is there something rather than nothing?”? Di cosa si tratta in particolare?

La frontiera dei luoghi sconosciuti si è forse spostata fino a comprendere i mondi virtuali, ed è qui che spesso trovi la potenza dell'esperienza dell'ignoto, almeno nel forte impatto iniziale che procurano. La citazione che proponi assume un valore ancora più radicale in un mondo virtuale dove tutto è costruito, non esiste una natura di partenza e tutto è opera dell'uomo, e cercare le aree incontaminate e selvagge può sembrare un paradosso.
Ho cercato questi luoghi in Second Life perché volevo escludere dal mio sguardo ciò che era stato già costruito, i modelli già realizzati da altri belli o brutti che fossero, gli spazi già strutturati attorno a una qualsiasi funzione. Mi fermavo su isole appena create e non ancora vendute, o lands non ancora coperte di insediamenti e non frequentate da nessuno. Inquadravo un orizzonte libero da costruzioni perchè mi interessa molto la forma che stiamo dando a “the grid”, “la terra”, la matrice dei server del sistema che assume le sembianze e la funzione di un paesaggio naturale. Ho fotografato questi luoghi in modo da farli sembrare lontani e selvaggi, anche se sono a un click di teleport da qualunque altro punto della mappa. È fondamentale il fatto che ero là a camminare nel deserto per scattare, realmente in mezzo a quelle montagne periferiche alla vita di SL, da solo, perché la fotografia nel virtuale lascia invariato il suo noema, l'esserci stato, la presenza di osservatore e oggetto osservato, e quindi ha a che fare con l'esperienza. E simbolicamente piantavo il cavalletto là in mezzo, anche se non serve a niente.
Il titolo è una citazione di Liebniz, e mi sembra di poter riproporre la stessa domanda e la stessa meraviglia di fronte ai mondi che incontriamo oltre lo schermo.
In questa serie ho cercato di accentuare l'inganno che creano il realismo di queste terre e questi cieli, con il contrasto tra le texture naturali, come le rocce, la sabbia, la perfetta simulazione dei riflessi sull'acqua e la consapevolezza che si tratta di una rappresentazione sintetica. E il bianco e nero mi ricollegava al paesaggio classico, pensando alle foto dell'ovest di Ansel Adams.


Hai affermato che “Second Life è un luogo, più che una vita”. Come sta cambiando l'antropologia del viaggio?


La metafora della seconda vita è stata senza dubbio la fortuna di Second Life agli inizi, ma ora sta diventando ingombrante. Non necessariamente ci si costruisce una doppia vita solo perché si è rappresentati da un avatar in uno spazio 3D on line. L'Avatar è una nostra estensione nel virtuale, ci permette di entrare in mondi sintetici e di incontrare altri Avatar di esseri umani. Di base l'incontro è tra due esseri umani, rappresentati da Avatar. Second Life, e gli altri mondi virtuali, rendono possibile questo incontro, danno corporeità al nostro account e mettono a disposizione uno spazio dove poter agire. In questo senso Second Life è un luogo piuttosto che una vita. Dipende da te decidere cosa farne, se costruirti davvero una doppia personalità o continuare con il tuo Avatar ad occuparti delle cose di cui ti occupi in Real Life estendendo il tuo dominio di azione nella rete.
Non basta entrare in un mondo virtuale per viaggiare. C'è chi entra e poi sta sempre nella stessa piazza, come al bar sotto casa. Viaggiare è una scelta, è uno stato mentale, non ha solo a che fare con lo spostarsi di luogo, è così in Real Life ed è così anche nel virtuale. Viaggiare ha a che fare con l'esplorazione, con la ricerca, con il movimento continuo, con l'apertura all'incontro. E le modalità di viaggio restano così personali, svolte su percorsi noti e affidabili o spinte su tracciati alternativi, in angoli del metaverso più difficili da trovare, attraverso community marginali, lingue diverse, sottoculture che creano propri luoghi di aggregazione. Restano in uso le mappe, sempre presenti nei virtual worlds, e sono essenziali le informazioni chieste sul posto, il passaparola del social network con i blog di altri viaggiatori.
Nel virtuale c'è il teletrasporto che fa collassare lo spazio in un solo punto, crea link sulla mappa e tutti i luoghi sono in un certo senso equidistanti. Del viaggio resta la concatenazione dei luoghi che attraversi, anche se ti sei spostato con il teletrasporto hai tracciato una traiettoria che letta sull'asse del tempo è un percorso lineare.


Puoi dare una descrizione del “viandante” (der wanderer) contemporaneo in riferimento ai ritratti di “Replica” scattati in una fabbrica illegale di cloni di avatar?

In “Replica” ho ritratto cloni di Avatar, colpito dal doppio passaggio dall'uomo all'avatar e da questo a un suo clone. I cloni che presento sono tutti uguali tra loro, ancora indistinti ed estranei al gioco della personalizzazione del personaggio, della creazione di una identità. Appaiono come una nuova specie in arrivo, li ho fotografati come se camminassero verso di noi come in un Quarto Stato di Second Life. Hanno a che fare con la costruzione dell'identità più che con il tema del viaggio.
Trovo invece molti spunti per un'idea del “wanderer” contemporaneo nell'ultima esperienza che sto vivendo, che mi ha portato in un mondo virtuale cinese, appena aperto, ancora sperimentale.
Second Life sta diventando uno spazio noto e così sono ripartito, sempre nel Metaverso. Ho mantenuto il nome, mi chiamo Marco Manray e mi aggrappo a questo, totalmente spaesato in una interfaccia tutta in cinese. Il nome sullo schermo è l'unica identità che mi rimane quando mi trovo rappresentato da 16 pixel in una landa deserta. A differenza del perdersi consapevole in una città conosciuta, come Second Life, nel viaggio del viandante ci si deve abituare a versioni di software traballanti e provvisorie, alla lentezza della connessione, ci si muove in assenza di documentazione. Ritrovo la meraviglia di affacciarsi su un paesaggio diverso e ancora in costruzione, attraverso le land senza una meta e uno scopo precisi, senza nemmeno essere perso perché non ho riferimenti. Il teleport mi da nomi in cinese che via via stanno diventando familiari come segni grafici su una mappa. Quando mi chiedono da dove vengo a volte dico “Italy” a volte “Second Life”, e così ho trovato alcuni ragazzi cinesi residenti anche in SL e ci siamo sentiti per un attimo dello stesso paese.
Sto scattando foto di Marco Manray in China, e penso di esporle in Second Life e in RL al mio ritorno.


www.marcomanray.com