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Stile Arte (2006-2011) Anno 12 Numero 123 novembre 2008



L’uomo che parla coi muri

Enrico Giustacchini

Intervista a David Tremlett



Approfondimenti d'arte e di storia della cultura per “leggere le opere”dell’arte italiana ed europea


SOMMARIO 123

SCOPERTE: Caravaggio dipingeva con le lucciole 4

ICONOGRAFIA: Il trifoglio porta la Grazia 9

NOVECENTO: Anni Sessanta. Viva l’oggetto! 12

MEDIOEVO: La mistica visione. Una foto del XII secolo 22

SGUARDI INCROCIATI: AAA, dinosauri cercansi 24

QUATTROCENTO: Il rebus dei tredici apostoli 27

RINASCIMENTO: La nascita degli artisti-idoli 30

CONTEMPORANEA: Fumasoni, l’umanesimo gentile 34

OTTOCENTO: Holbein, anzi Van Gogh 37

SCOPERTE: Ercole al bivio sceglie il Vizio 38

TECNICHE ANTICHE: Vibrazioni di quadri in movimento 40

NOVECENTO: Le metamorfosi di Picasso 42
Max Jacob l’astrologo 46

ICONOGRAFIA: Oddio, c’è l’homo silvaticus 48
Quando perde i sensi la falsa moglie di san Marino 51

CONTEMPORANEA:: Tremlett, l’uomo che parla coi muri 52

PITTURA & FILM: I gemelli Goya e Almodóvar 58

DUECENTO: I ritratti dei giustizieri. Ecco il volto di Pier delle Vigne 63

CONTEMPORANEA: Arte, un destino di bellezza 64

OTTOCENTO: Renoir in Calabria 66


CINQUECENTO: Un olio dal profumo di Moretto 70

MITI PITTORICI: La torbida purezza di Beatrice 72

ART FOOD: Insieme armonico 75

L’AGENDA DELLE MOSTRE 76

ARTE & EROS: Accarezzerò la tua pelle di marmo 79
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David Tremlett
wall drawing
Ambasciata britannica
Berlino, 2000

Particolare di wall drawing

Stile incontra David Tremlett, storico protagonista dell’arte internazionale degli ultimi decenni.
I viaggi per il mondo alla ricerca di emozioni.
L’influsso dei maestri italiani del passato, da Giotto a Piero della Francesca.
I suoi celebri wall drawing, intonaci disegnati e colorati a pastello con le mani nude:
“Quando il lavoro è finito, spesso succede che affiorino strane superfici, antiche texture…”


A partire dagli anni Settanta, lei ha compiuto numerosi viaggi in molti angoli del mondo. Che cosa significa viaggiare per David Tremlett?
Ogni viaggio che ho fatto si è rivelato assai personale: non c’è mai stato il progetto del “Grand Tour” o dell’“esplorazione”. Nel Medio Oriente, in Africa e in altre parti del mondo, ho trascorso molto del mio tempo su autobus e treni, in piccoli hotel e talvolta in case di persone che mi hanno ospitato. Sono attratto sia dalla città rumorosa, con i suoi colori, la gente, i mezzi di trasporto, sia dal deserto, dove nulla di tutto ciò esiste né è mai esistito. Il mio lavoro quotidiano è quello di ascoltare, guardare, qualche volta parlare e infine scrivere e disegnare. Ho iniziato a viaggiare in questo modo sin dai primi anni Settanta e continuo a farlo ancora oggi.

Nonostante lei documenti i suoi viaggi anche attraverso fotografie, registrazioni, scritti, oggetti, il medium più efficace per trasmettere le sue emozioni e le sue esperienze rimane il disegno.
Infatti, ho sempre usato tali strumenti (sebbene oggi, in verità, non ricorra più alle registrazioni). Il disegno era il medium più importante e continua ad esserlo. Non ho mai considerato l’idea della pittura in senso classico, i miei lavori sono costituiti in sostanza da un disegno sul quale stendo il pigmento con le mani. Il mio pensiero si è sempre fondato sulla scultura tradizionale, quella che dà valore a forme e volumi, non sulla pittura e l’illusione. Disegnare su muri e soffitti è per me un concept artigianale, di mestiere.

All’inizio, nelle sue opere il colore era completamente assente. In seguito è diventato molto importante. Quando e perché è avvenuta questa svolta?
L’uso del monocromatico negli anni Settanta era probabilmente dovuto al fatto che io, giovane studente di scultura, lavorando il metallo, le pietre, il gesso avevo sviluppato una preferenza verso il colore naturale della materia. La fotografia in bianco e nero era la norma, e scrivere e disegnare con penna e matita significava utilizzare le cromie solo in piccola parte.
In seguito, ho capito che era il colore a guidarmi nella direzione che stavo cercando: ossia qualcosa di “teorico”, di radicalmente diverso, che aveva a che fare più con la poesia che non, necessariamente, con il piacere della visione. Ebbi questa intuizione dopo aver trascorso molto tempo nell’Africa orientale, soprattutto in Mozambico e in Malawi, e un periodo più breve nell’ovest dell’Australia. Solo allora l’uso del colore entrò davvero nei disegni che andavo realizzando. Ora ciò è diventato una cosa di cui non posso fare a meno, e la mia gioventù ribelle si è trasformata in una colorata maturità.

In che misura la sua produzione è stata influenzata dai grandi pittori italiani del passato? Quali sono quelli che ama di più?
L’arte italiana è da sempre quella che più ha influenzato il mio lavoro (con l’eccezione del periodo tra il 1900 e il 1940, dove i miei riferimenti sono piuttosto le esperienze in altre nazioni europee e in Russia). L’età del Primo e del Medio Rinascimento, con la scultura di Donatello e Michelangelo, ha colpito la mia immaginazione fin da quando ero studente, così come hanno fatto i dipinti di Piero della Francesca e, prima ancora, quelli di Giotto. Riguardo all’architettura, invece, ho sempre guardato, quando possibile, a Bramante, Michelangelo e Palladio. Ma in generale si è trattato di un periodo di eccellenza assoluta in ambito artistico, con figure che mi hanno sempre accompagnato nel mio operato.

Può spiegare brevemente la tecnica da lei utilizzata nei suoi wall drawing? Perché predilige il pastello?
Utilizzo colori a pastello secchi, che stendo con le mani lungo l’intera superficie del muro, della carta o di qualsiasi altro materiale sul quale lavoro. In seguito, il pigmento è trattato con fissanti chimici, così da assicurare la durata dell’opera nel tempo. I pastelli offrono la possibilità di venire spalmati, manipolati, garantendo un risultato finale che non può essere ottenuto con la pittura, l’inchiostro, eccetera.

Con il suo lavoro, si sente di avere fatto rivivere, in qualche modo, le antiche consuetudini dei maestri della pittura?
Penso che ciò che faccio, da un punto di vista esclusivamente tecnico, non si è mai davvero discostato dall’arte tradizionale, anche se mi rendo conto che colorare con le mani possa essere considerato abbastanza insolito. Non si deve dimenticare, tuttavia, che dovunque, in Africa, nel Medio Oriente o in Sud America, si incontrano persone che disegnano con le mani, con le dita. Non credo, quindi, di potermi attribuire il merito di aver riportato a nuova vita alcuna tecnica antica, in quanto queste esistono ancora oggi, sotto diverse forme, in molte parti del mondo.

Spesso le sue opere sono destinate ad avere una vita breve, a durare magari solo per il periodo di una mostra. Ciò vuol dire che per lei l’atto creativo conta più della sopravvivenza dell’opera nel tempo?
La vita di un’opera dipende dai committenti. Una galleria, per esempio, ha bisogno di rinnovare lo spazio per la mostra successiva, e quindi i miei lavori devono necessariamente essere sostituiti dopo poche settimane. Le collezioni private, invece, permettono che siano esposti in modo permanente.
Non sono sentimentalista riguardo alla rimozione di un wall drawing, poiché interpreto ciò come un’opportunità di realizzare una nuova idea in una situazione e su una scala più ampia di quella che, spesso, mi potrebbe essere concessa dallo spazio del mio studio. Si spende molto tempo, cura e lavoro per l’esecuzione di queste installazioni “temporanee”, ma ogni secondo equivale ad una crescita, e non “cadono lacrime” quando le opere vengono rimosse. L’idea rimarrà comunque per sempre.

Che importanza ha il contesto storico-artistico in cui lei realizza i wall drawing? C’è, da questo punto di vista, qualche tipologia architettonica che preferisce?
Le architetture che preferisco sono quelle semplici, “pratiche”, quelle che offrono il massimo della luminosità e del volume e garantiscono la possibilità di un dialogo, di un’interconnessione rispetto al contesto in cui sono inserite. Mi piacciono il Bauhaus (Walter Gropius, Mies van der Rohe), Carlo Scarpa, Aldo Rossi e altri, ma anche l’architettura maliana ed eritrea, o - come ho detto prima - Andrea Palladio, o talune stupefacenti capanne di fango che ho visto in giro per il mondo.

I suoi lavori si sviluppano utilizzando strutture compositive rigorosamente geometriche. Non ha mai pensato di poter modificare questo linguaggio formale?
La creazione di una mia opera non può prescindere dalla geometria; credo peraltro che ciò sia comune a tutti gli artisti, compresi coloro che ricorrono ad uno stile all’apparenza più “caotico”. Per quanto mi riguarda, la volontà di costruire sempre su tali basi si è espressa, agli inizi, mediante una geometria più evidente; ciò è in seguito andato modificandosi. Si può notare tale cambiamento confrontando i primi lavori degli anni Settanta, dove ci sono elementi strutturali con una spiccata forma geometrica, con quelli degli anni Ottanta e Novanta, dove c’è invece molta più fluidità nelle strutture, anche se rimangono comunque legati alla geometria.
Questa “geometria” è, semplicemente, come una ragnatela che trattiene l’opera sulla superficie sulla quale è realizzata. Alcuni dei disegni di oggi hanno solo qualche linea retta e qualche curva in più; basterebbe guardare, in proposito, i miei lavori eseguiti con grasso di grafite.

Può raccontarci come è nata l’idea del wall drawing per la Galleria Studio G7 di Bologna?
La gallerista, Ginevra Grigolo, mi ha chiesto un’opera che coprisse l’intero spazio espositivo anziché singole pareti. Siccome stavo lavorando attorno ad una serie di pastelli su carta, che oggi possono essere visti in un’altra sezione della galleria, ho deciso di creare qualcosa che avesse una struttura similare.
Gli elementi base di questo wall drawing sono costituiti da forme realizzate grazie a blocchi di colore, rettangoli, trapezi, parallelogrammi e figure originali, spesso curvilinee. Tali differenti blocchi vengono percepiti come forme scultoree se osservati dal basso, mentre dall’alto appaiono come oggetti in caduta che fluttuano nel mezzo della parete. Tutte le figure sono sostenute di volta in volta da linee che mettono ininterrottamente in connessione il disegno lungo i muri. Così, se il disegno esprime una forma molto “pesante”, le strutture che lo uniscono donano invece movimento ed equilibrio.

A proposito di opere su carta: lei considera questo tipo di produzione come studi preparatori o, invece, come creazioni autonome?
Le opere su carta sono indipendenti dal wall drawing, ma concettualmente collegate ad esso, in quanto parte molto significativa del progetto al quale sto lavorando in studio in quel momento.

Angela Vettese ha scritto recentemente che lei è come un archeologo che cerca la vita del muro e ce ne suggerisce la bellezza più nascosta, offrendoci intanto “la forza della visione”…
Quando i miei wall drawing sono finiti, spesso succede che affiorino strane superfici, antiche texture… Il muro ha una vita che si è originata quando lo stesso è stato costruito e dipinto. La differenza tra pittura e pastello è che la pittura copre tutto con uno strato di colore, mentre il pastello è una sottile pellicola di polvere colorata che, stesa con le mani, lascia trapelare le imperfezioni e i segni dei precedenti restauri. In altre parole: “Se i muri potessero parlare…”. Penso che l’opinione di Angela derivi da questo.

Per concludere: quali sono i progetti a cui sta lavorando? E, dopo le esperienze di Formigine e Bologna, pensa di tornare presto in Italia?
Tornerò presto in Italia, questo è sicuro. Non sono mai riuscito a starne lontano. Il prossimo progetto avrà luogo proprio a Roma, dove realizzerò un soffitto per la famiglia Cotroneo (che, detto per inciso, possiede una splendida collezione di fotografia). Italia a parte, sto preparando per il prossimo anno una mostra al Mamac di Nizza, mentre nel 2010 sono stato invitato a tenere una performance alla Kunsthalle di Amburgo. E diversi altri wall drawing sono in cantiere nei mesi a venire.

ha collaborato federico bernardelli curuz