Sofà (2009-2011) Anno 3 Numero 8 maggio-luglio 2009
Ignoranza e pregiudizi, idee su una scena tutta da scoprire
Un antico proverbio – non so se arabo – dice che quando Dio vuole dare una lezione a qualcuno realizza i suoi desideri. Personalmente ho capito quanto questo sia vero quando, dopo anni spesi a cercare di trasmettere a qualcuno il mio appassionato interesse per il Medio Oriente e l’arte araba moderna e contemporanea, l’argomento è diventato di gran moda anche in Italia.
Da quel momento è stato tutto un proliferare di “esperti” più o meno improvvisati, di viaggiatori più o meno turisticizzati, di mostre e pubblicazioni che in buona parte, fatte salve come sempre le eccezioni, hanno soltanto contribuito ad accrescere l’immensa confusione che oggi è diventata più densa e impenetrabile delle tempeste di sabbia nei deserti.
La prima vittima di questo caos interpretativo è la distinzione fra mondo arabo e mondo islamico: è sempre stato difficile spiegare che gli arabi non sono tutti islamici (cioè non sono tutti di fede islamica, ce ne sono anche molti cristiani, copti, caldei, armeni, maroniti, ortodossi, protestanti eccetera) e che gli islamici non sono tutti arabi (ma anche malesi, thailandesi, nigeriani, iraniani, pakistani eccetera). Ma adesso, dopo che in una recentissima pubblicazione che sorprende edita da un editore serio come Skira, si legge, oltre ad altre amenità, che Israele non è “un paese propriamente musulmano”, allora si comprende come sul Mediterraneo “in generale” sia calata una nebbia fittissima, forse impossibile da lacerare (ammesso che interessi davvero a qualcuno, tolto il “piccante” che l’idea di “arabo” ancora porta con sé dalle nostre parti). Un altro grave problema che rischia di compromettere la comprensione dell’arte con
Per carità, ci sono artisti che attraverso le loro opere cercano di veicolare i valori dell’Islam, fra cui i convertiti come Patrizia Guerresi Maimouna; ma ci sono anche seri studiosi e praticanti del sufismo, come il libanese-italiano Ali Hassoun, che quando prendono il pennello in mano dimostrano uno spirito ironico, acuto e penetrante che si rivolge alla società di transizione in cui viviamo molto più che alla dimensione religiosa. E poi ci sono molti artisti arabi ma di religione cristiana, a cominciare dalla nota Mona Hatoum, oppure, per concentrarci solo su coloro che hanno scelto l’Italia come seconda patria, l’egiziano copto Medhat Shaifk e l’armeno-egiziano Armen Agop.
E come potrebbero degli esponenti delle minoranze cristiane perseguitate da millenni o perlomeno tenute in aperta condizione di inferiorità nel mondo musulmano, cristiani tenacemente attaccati a un’appartenenza se non a una fede, farsi portatori dei valori dell’Islam? “Last but not least”, domandarsi, come fanno certi giornalisti, se l’arte contemporanea dei paesi arabi sia islamica equivale in realtà a chiedersi se la giovane arte italiana sia “cristiana”. La risposta non può che essere no, e un no molto deciso.
L’arte contemporanea, in questo globalizzata e felice di esserlo, è laica quasi per definizione, volentieri libertaria, alle prese con una caustica rivisitazione dell’identità propria e altrui.
È critica, incisiva e consapevole, oltre che spesso schierata in prima persona sul fronte avanzato, e in molti paesi pericoloso, della denuncia di corruzione, abusi, violenze, integralismi di ritorno e altri mali che tormentano l’esistenza dei paesi arabi. Grandissimi registi siriani come Osama Mohammed o Omar Amiralay hanno subìto innumerevoli minacce, intimidazioni, interrogatori, censure e peggio, da parte di quel regime che non si sono stancati di attaccare con opere originali, poetiche, visionarie come “A flood in Baath country” (2003) o “Sacrifices” (2002). E quasi tutti gli artisti arabi temono più di ogni altra cosa le donne bardate di veli neri e gli integralisti islamici, per l’ottima ragione che i fondamentalisti, non appena ne hanno l’occasione, impediscono loro di lavorare, di coltivare liberamente la loro espressione e il loro talento e addirittura di studiare arte, improvvisamente bollata come “degenerata propaganda occidentale”.
Come è accaduto in Algeria, dove molti musicisti, pittori e professori d’arte sono stati sgozzati dagli integralisti (compreso l’insegnante di Adel Abdessemed, come racconta lui stesso, che a quel punto ha riparato in Francia); come è accaduto nell’Afghanistan dei Talebani e, in misura minore, potrebbe accadere anche in Egitto, dove peraltro modelli e modelle nude nelle accademie d’arte sono stati banditi già nel 1970 su pressione dei Fratelli Musulmani. Per sapere tutto questo non c’era bisogno di Saatchi e della sua mostra “Unveiled. New art from Middle East”, aperta fino al 9 maggio nella prestigiosa galleria di Londra. Ma ogni contributo è gradito quando si schiera con l’arte come manifestazione di libertà personale contrapposta all’oscurantismo. Fra le sue proposte più interessanti c’è per esempio l’egiziano Khaled Hafez (1963), che in grandi dipinti di sapore pop sovrappone icone commerciali, come modelle seminude, e supereroi da fumetto (Batman) ad antiche divinità egiziane perché in fondo rispondono alla stessa funzione immaginaria, quella di rassicurare e proteggere un’umanità sempre bambina con poteri straordinari. Restano fuori dalla mostra, invece, ma sono diventate ugualmente famosissime attraverso altri canali, figure forse più sfaccettate come la libanese-egiziana Lara Baladi (1969), vincitrice dell’ultima Biennale del Cairo, il cui lavoro si basa in gran parte su immagini deflagrate, confusive e caleidoscopiche che ben rappresentano la dimensione quotidiana della metropoli mediorientale, regno di tutte le contraddizioni e le ambiguità possibili, fra cui emerge con forza la questione della femminilità specialmente spinosa in un mondo pieno di proibizioni e pregiudizi.
Oppure la giovanissima videomaker libanese Mounira el Solh (1978) che in interventi pieni di ironia, come “Rawane’s song” presentato all’ultima Biennale di Venezia (2007), prende in giro la condizione stessa dell’artista arabo contemporaneo, assediato da solerti curatori occidentali che gli chiedono progetti sulla guerra, sul conflitto, perlomeno sull’identità, quando magari a lui interessa tutt’altro. Per concludere, non so se gli artisti medio-orientali siano assistiti “indubbiamente da una grande spiritualità e in taluni casi da Dio”, come si legge ancora nella pubblicazione sopracitata, sicuro è che hanno “ormai invaso molte fiere e biennali” e conquistato "l’interesse di musei e gallerie di tutto il mondo”.
La moda è la moda, è chiaro, e non tutto quello che va per la maggiore in questo momento avrà la forza per ballare una seconda stagione: come è già capitato ai cinesi, ai russi e agli africani. Ma, d’altra parte, se una divinità assiste i nostri arabi questa oggi indossa certamente i panni del gallerista; e nessuno meglio di lui saprà distinguere il grano dal loglio.