Sofà (2009-2011) Anno 3 Numero 10 dicembre 2009 - febbraio 2010
L’artista abruzzese racconta le dinamiche della pittura tridimensionale e le sue alchimie cromatiche
Ettore Spalletti, di origine abruzzese, vive e lavora a Cappelle sul Tavo, dove è nato. Diplomatosi nella vicina Pescara, ha cominciato lì la sua carriera per arrivare, nei primi anni ‘70, a una cifra stilistica personale. Nel 1974 la personale Rosso bianco verde bianco giallo alla galleria romana La tartaruga di Plinio de Martiis lo ha avviato al confronto con un pubblico maturo. I mezzi espressivi adottati sono la pittura e la scultura che si generano da una concezione spaziale-architettonica estrinsecata in forme geometriche e l’uso di una certa tipologia di colore. Per sua stessa definizione il suo lavoro si può chiamare pittura tridimensionale. Originale la tecnica. Le sue opere non sono classici monocromi. Tutto parte dall’impasto di gesso e colla che viene steso caldo sulla superficie da dipingere, il pigmento aggiunto, una volta assorbito, conferisce colore a tutto lo spessore, mentre il risultato cromatico dipende dalla quantità di bianco mescolato. L’effetto levigato è dovuto all’abrasione successiva che polverizza parte del colore. I materiali maggiormente utilizzati sono legno, tela, marmo e le superfici parietali. Crea spesso oggetti tridimensionali in cui il volume dialoga con lo spazio. Da qui nascono gli ambienti completi, luminosi, sospesi, avvolgenti pur nella loro apparente semplicità. Le sfumature, le superfici delicate trasformano i luoghi fino a farli diventare illusori e parte di un sogno a occhi aperti. Gli elementi geometrici portano a un dialogo reciproco e anche chi guarda raggiunge un’intimità con il contesto o con la singola opera. L’armonia nasce dalla perfezione della forma che si mantiene nonostante una breccia o un angolo smussato. La costruzione dei volumi è sempre lieve e lineare. Può far pensare all’infinito e, afferma, «non sarà mai sempre lo stesso». Così accoglie la luminosità dei paesaggi ma anche la particolare luce che si trova a Roma dove ha fatto varie esperienze nel corso della sua vita. Spalletti riesce a cogliere l’atmosfera e a ricrearla. Le origini dell’opera dell’artista abbracciano il pensiero concettuale dell’arte astratta e minimalista che hanno caratterizzato il ‘900. Il risultato dell’intero corpus delle sue realizzazioni fa pensare a na volontà di appagamento di tipo estetico, a una volontà di bellezza e positività. C’è l’aspetto seducente che si incentra proprio sul fattore estetico e porta in sé la capacità di ammaliare. C’è la ricerca del classico che si combina con il contemporaneo. Nonostante la gamma ristretta di elementi utilizzati riesce a essere sempre innovativo. L’attenzione a ciò che lo circonda viene così rielaborata in creazioni propositive che si incanalano nella direzione dell’appagamento della vista. Nascono grandi attese che lo accompagnano nel suo interrogarsi da artista e raggiungono il fruitore che ama l’arte concreta e realizzata. Da ciò il riflesso incondizionato dell’esperire che porta a una pace e a una quiete che interiorizzano il sentimento. Trovarsi davanti all’opera di Spalletti esige una pausa, il sopraggiungere e lo svolgersi di un silenzio che alleggerisce. È pregnante la comprensione che c’è uno spessore animato da un concetto di base. E appunto quel silenzio mette nella condizione di porre attenzione e ascoltare tutto ciò che si può recepire nei percorsi personali che ogni spettatore può fare. Queste stimolazioni sensoriali, questi stati cognitivi in cui lo spettatore si trova sono assolutamente naturali, mai forzati, tanto che ci si accorge di giungere alla riflessione su ciò che si vede e a una formulazione intellettuale senza strappi. Spalletti si pone sempre in maniera radicale e assoluta riuscendo però a imporsi in modo cosciente e delicato, come una musica dolce. Il pensiero che lo segue è quello di rappresentare la sua epoca, di vivere nell’oggi e in qualche maniera renderlo migliore. Queste qualità lo hanno reso celebre a livello nazionale e internazionale. Per seguire il suo percorso artistico possiamo citare Terra bianca del 1997: due tavole unite in un dittico, inclinate leggermente in avanti e con una fenditura. Così Spalletti ripropone un dialogo fra forma, spazio e colore, come ha fatto anche nel suo ultimo intervento alla Galleria Nazionale di arte moderna di Roma, organizzato insieme alla galleria Oredaria. Per quest’occasione ha realizzato un lavoro inedito, la nuova installazione Nostalgia, Roma che occupava tutta la sala delle colonne insieme a Senza titolo e Terra bianca, oro. La mostra era intitolata Omaggio a Spalletti e l’ambiente da lui creato era quasi irreale. Il bianco del pavimento e il bianco delle otto colonne realizzate e posizionate in tutta la sala davano una sensazione di poca stabilità e di coinvolgimento. Sembrava di entrare in una realtà spaziale degna del film 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. La Galleria Nazionale di arte moderna ha acquistato nel 2008 due opere di Spalletti. Abbiamo incontrato l’artista all’inaugurazione alla Gnam, lo scorso 3 ottobre, in concomitanza con la quinta giornata del contemporaneo.
Qual è il suo concetto di bellezza?
«Sono tante le forme di bellezza. So dire quelle che riconosco io, che apprezzo, come un quadro di Raffaello, un quadro di Morandi, un taglio di Fontana».
Perché il monocromo nei suoi quadri?
«I miei lavori sono spesso indicati come monocromi, però la loro tessitura è molto complessa tanto da non farmi pensare a dei veri e propri monocromi».
Come avviene la tessitura del quadro?
«La superficie dei dipinti appare con un colore che è stato steso per lunghi periodi in cui si devono calcolare i tempi di essiccazione. La trama, alla fine di questo processo, dipende da questi tempi. Quando il quadro sembra finito allora faccio un’operazione per cui i pigmenti che sono contenuti si rompono e si arriva alla superficie. Così l’opera finita si manifesta all’improvviso».
Che uso fa dei colori?
«I colori sono caratterizzati dal bianco. Per me colore unico. Poi ci sono sempre i derivati, dall’azzurro al rosa. Il primo lo abbiamo sempre intorno, fa parte dell’atmosfera e non si ripete mai nella stessa maniera, ad esempio se stiamo a cielo aperto siamo immersi nell’azzurro. Una luce particolare è quella di Roma. Questa città è la più grande vicina al paese dove abito, Cappelle sul Tavo, e da giovane ci venivo spesso. Mi ha ispirato tante volte nella mia carriera. Invece il rosa lo avvicino all’incarnato e anche questo cambia, la sua tonalità dipende dall’umore che gli diamo, dalla colorazione del viso. Poi, c’è il grigio che accoglie e restituisce sempre nel migliore dei modi gli altri elementi cromatici».
In quale relazione sono spazio e forma nella sua opera?
«Per quanto riguarda la mostra alla Gnam, in queste realizzazioni il desiderio è stato quello di liberarsi dalla parete e immergersi nel vuoto della sala, così come fanno le colonne qui esposte che a me risultano spaesate: a vederle in questo ambiente, simile a un tempio, rendono l’idea della forma che plasma lo spazio».
Quale radice ha l’uso della geometria?
«Uso la geometria perché fa parte della mia sensibilità. Partire dalle forme pure che vengono quasi sempre rotte dal pigmento che le nutre e le ricopre. I miei sono elementi costruiti con grande rigore geometrico e dopo un po’ la loro colorazione spezza la geometria e induce a un rapporto di desiderio tattile. Una prerogativa che rimane nelle mie opere e di cui parlo sempre è che, al contrario del desiderio a cui spingono, i miei lavori non vanno toccati».
In che ruolo pone il fruitore che si trova davanti alle sue opere, dato che inducono al desiderio tattile ma senza una possibilità di esaudire questa volontà?
«I visitatori devono stare con le braccia conserte».
La pittura e la scultura possono definire un ambiente?
«All’inizio accompagnavo sempre i miei lavori, adesso mi sembrano diventati adulti, si collocano nello spazio liberandosi anche da me. Percorrono la luce e decidono il modo migliore di esporsi. Il giorno che sono venuto a fare il sopralluogo della sala della galleria per il mio intervento, è successa una cosa abbastanza straordinaria. Ho trovato uno spazio che assomiglia molto al mio studio e ho deciso che avrei fatto otto colonne, lo stesso numero di quelle all’esterno della Gnam. Pensai ad una coincidenza, poi ho capito che in qualche modo nel lavoro è tutto collegato, esso ti restituisce quello che dai. Queste colonne perdono la loro staticità per il colore bianco e per il pavimento che possiede una qualità bellissima, le riflette. Il punto di riferimento scompare quasi totalmente».
Sembra che l’ultima fatica di Ettore Spalletti si ricongiunga con l’inizio della sua carriera, infatti in una delle prime mostre che ha fatto a Bologna aveva cosparso tutto il pavimento di talco tanto da renderlo invisibile, così camminandoci sopra non si trovava mai l’equilibrio giusto. Il luogo era completamente trasformato per generare l’effetto voluto. Questa vicinanza fra le fasi della vita artistica di Spalletti è indice di coerenza e della capacità di rinnovarsi ogni volta pur mantenendo un riferimento sempre vigile alla propria identità di artista. Egli coglie il tutto di uno spazio e ha cura del particolare, il singolo pezzo è relazionato con l’intero ambiente che lo ospita. Spesso tridimensionalità e bidimensionalità si combinano nella creazione e si richiamano l’una con l’altra per dar vita all’opera nel suo complesso, complice il colore, cifra stilistica irrinunciabile per Spalletti artista e per Spalletti uomo, che lascia un grande spazio alle sensazioni.
L’artista
Tra classico e contemporaneo
Ettore Spalletti è nato a Cappelle sul Tavo in Abruzzo il 26 gennaio 1940. Si è diplomato al liceo artistico di Pescara nel 1959. Le prime esperienze artistiche si sono svolte sempre a Pescara. La sua prima mostra importante risale al 1974 alla galleria La tartaruga di Plinio de Martiis e si chiamava Rosso bianco verde bianco giallo a testimoniare l’importanza che il colore ha sempre avuto nella sua opera. Ha partecipato a diverse edizioni della Biennale di Venezia, nel 1982, 1993, 1995 e 1997. Ha poi preso parte a due edizioni di Documenta a Kassel, nel 1982 e nel 1992. Numerose esperienze espositive sia in Italia che all’estero come la personale nel 1992 alla galleria Massimo Minini di Brescia o le collettive Arte e critica nel 1980 e nel 1981 alla Galleria Nazionale d’arte moderna a Roma