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Mousse Anno 6 Numero 27 febbraio-marzo 2011



Art Society Feedback

Emily Pethick

Intervista a Stephen Willats





SOMMARIO MOUSSE #27
February / March 2011


DAN GRAHAM
From Magazines to Architecture
by Ute Meta Bauer

WILLIAM LEAVITT
Cutaway View
by An interview by Hans Ulrich Obrist and Stuart Comer, with an introduction by John Baldessari

PART OF THE PROCESS SVEN AUGUSTIJNEN
What a Day For a Daydream
by Ronald Van de Sompel

TALKING ABOUT
The Art of Worldly Wisdom Dancing and singing after collapse
by Chus Martínez

PORTFOLIO
Taylor Made Zin Taylor and the Story of Form
by Dieter Roelstraete

BRIAN BRESS
Memoirs of Ourselves 'Watching TV: 'The Disconcertingly Real Work of Brian Bress
by Andrew Berardini

ABRAHAM CRUZVILLEGAS
Leave It Suspended Indefinitely
by Vincenzo de Bellis

HARK!
Eight Days A Week
by Jennifer Allen

ARTIST PROJECT
Jeremy Deller
by Peter Eleey

TEN FUNDAMENTAL QUESTIONS OF CURATING
Chapter 3: WHAT TO DO WITH THE CONTEMPORARY? João Ribas Illustrations by Matthew Buckingham
by edited by Jens Hoffmann

PARIS – PIERRE HUYGHE
Metabolism and the Material of Narration
by Vincent Honoré

LONDON BEATRICE GIBSON
The Geometry of Sound
by Isla Leaver-Yap

BERLIN MAXIMILIAN ZENTZ ZLOMOVITZ
Long Live the New Flesh
by Gigiotto Del Vecchio

NEW YORK KARTHIK PANDIAN
Architecture, Archaeology and the Solar Unconscious
by Cecilia Alemani

LOS ANGELES BRIAN KENNON
Spread the Word
by Jonathan Griffin

JAMES COLEMAN
Staging Television: James Coleman’s So Different... and Yet
by Maeve Connolly

LOST & FOUND
Giuseppe Chiari: the totality of sound
by Elena Volpato

NICE TO MEET YOU ZAROUHIE ABDALIAN
Landscape as Material
by Jens Hoffmann

REPRINT
“I can still tell the difference 'between pine and oak, maple' and birch, just by the smell”
by Wilfried Huet

TALKING ABOUT
Some Provisional Reflections'on Withdrawal
by Chris Sharp

STEPHEN WILLATS
Art Society Feedback
by Emily Pethick


ARTIST PROJECT
James Coleman

LARA FAVARETTO
Why Another Work?
by Lara Favaretto and Francesco Garutti

DIARY
by Antonio Scoccimarro

BOOKS
by Stefano Cernuschi

SISTER CORITA
All Must Fit Together
by Sarah Lehrer-Graiwer

GARETH MOORE
Deferred Interview
by Adam Carr


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n. 30 settembre-ottobre 2011

Reading is writing
Gigiotto Del Vecchio
n. 26 novembre-dicembre 2010


Stephen Willats, Visual Meta Language Simulation, 1971-72
Courtesy: the artist.

Stephen Willats, Meta Filter, 1973-75
Collection Fonds national d'art contemporain, Paris.

Stephen Willats, Our Interpersonal Home, 1990
Courtesy: the artist and Victoria Miro Gallery, London.

Auto-organizzazione e contro-coscienza sono le parole d’ordine di Stephen Willats. La convinzione che ha mosso tutta la sua produzione artistica dagli anni ‘60 ad oggi, è che la gente abbia grandi potenzialità di attuare un cambiamento, una resistenza creativa allo squallore imposto. In questo contesto, i diagrammi dell’artista sono modelli dinamici di una nuova realtà per cui la teoria artistica risulta insufficiente. Emily Pethick ha ripercorso con l’artista il senso delle sue incursioni multidisciplinari, dalla cibernetica alla filosofia.



Emily Pethick: Parliamo di un nuovo libro, Art Society Feedback, pubblicato dalla Verlag für Moderne Kunst Nürnberg per la mostra alla Badischer-Kunstverein.
Per coloro che non hanno familiarità con il tuo lavoro, tu sei stato uno dei primi artisti britannici a portare le tue opere fuori dalle gallerie e dentro la società, attivando il pubblico ed esaminando le funzioni sociali e i significati dell’arte. Il libro è diviso in due parti: una raccolta dei tuoi scritti, a partire dagli anni Sessanta, e saggi sul tuo lavoro scritti da Andrew Wilson, Brigitte Franzen, Tom Holert, Ute Meta Bauer e me.
Leggendolo sono rimasta colpita dal rapporto tra pratica e teoria, in particolar modo nei diagrammi, una costante del tuo lavoro, già a partire dalla fine degli anni Cinquanta. Una delle tue prime opere, Art Society Feedback (1959), mostra un modello concettuale delle connessioni tra l’artista e il contesto sociale, del feedback tra artista e ambiente. Si tratta di un esempio dei modelli concettuali che crei e che sfociano in opere realizzate in collaborazione con la gente, in contesti sociali esterni alla galleria.


Stephen Willats: Lo sviluppo di concetti e modelli è legato alla percezione della funzione dell’artista in rapporto con il mondo. Ero consapevole del fatto che l’opera che proponevo sarebbe stata parte della società. Un’osservazione iniziale è stata che l’opera d’arte dipende completamente dal suo pubblico. Potremmo quasi dire che gli spettatori sono la ragione del suo essere; senza di loro l’opera d’arte non esiste. È essenziale per gli artisti rendersi conto che, in un modo o nell’altro, essi sono parte della società. L’osservazione successiva è stata che la maggior parte dell’attività artistica descriveva valori e convinzioni esistenti, amplificando ciò che era avvalorato dalla società esistente. Poi vi era anche un ruolo più piccolo, molto più difficile, ma in definitiva molto più significativo, che riguardava la trasformazione, la nozione, cioè, dell’artista capace di trasformare i valori esistenti e di offrire una visione del futuro, una diversa percezione del mondo ed un linguaggio adatto a ciò. Ho visto che la pratica non era altro che un veicolo che incarnava il linguaggio. Bisogna avere un modello per rappresentare la realtà; i modelli sono rappresentazioni di una realtà esterna, incontrata o possibile.

ep: I diagrammi sono un aspetto centrale della tua pratica artistica fin dagli inizi. Sono usati come un linguaggio per formare dei modelli, ma anche come strumento per pianificare i progetti. L’uso che ne fai è stato influenzato anche dal fatto di essere venuto in contatto con teorie estranee al campo dell’arte, come la cibernetica, la teoria dei sistemi o quella della scatola nera.

sw: Il diagramma è un’immagine dinamica, un modello in una condizione dinamica. Ho visto che per offrire una visione di un potenziale mondo futuro erano necessari altri linguaggi. Quelli che avevo a disposizione nel campo della storia dell’arte erano inadeguati a descrivere la nuova realtà, il nuovo mondo che stavo incontrando (fine anni Cinquanta e inizio anni Sessanta), che sembrava emergere. Così ho cominciato a interessarmi a linguaggi esterni al campo artistico. Le scienze emergenti della cibernetica e della teoria dell’informazione risultavano particolarmente stimolanti, così come le nascenti filosofie della semiotica. Stava facendo la propria comparsa un gran numero di nuovi modi di pensare, che potevano essere messi in pratica. Si è trattato semplicemente di un modo naturale di rappresentare idee e rapporti sociali in modo dinamico. Se l’artista era in rapporto con il pubblico e il pubblico era parte della società, allora l’artista era in rapporto con la società, dunque vi era un feedback. Questo è il modo in cui sono nati i miei diagrammi.

ep: Una delle più notevoli tra le prime opere è Homeostat Drawing (1969), la cui installazione è avvenuta sotto forma di disegno murale alla Badischer Kunstverein e poi alla Casco di Utrecht; adesso la stiamo installando nuovamente per “Signal:Noise”, un evento che avrà luogo prossimamente a The Showroom, e che indaga le eredità lasciate dalle teorie dei sistemi e dalla cibernetica nella pratica artistica. Questo diagramma ritrae un’infinita rete di parti interconnesse. Puoi dire qualcosa su come è nato e che cosa rappresenta in quanto modello sociale?

sw: A metà degli anni Sessanta mi sono imbattuto nel lavoro di Ross Ashby, che aveva sviluppato l’omeostato. La sua rappresentazione era un modello con quattro nodi, totalmente interconnessi grazie a rapporti di input-output. La cosa importante, per me, era il fatto che mostrava una possibile forma dei rapporti e delle informazioni all’interno della società. Non credo, tuttavia, che Ashby la vedesse in questo modo; il suo era un modello meccanico. Nondimeno riuscivo a scorgere delle ramificazioni sociali. Il modello dell’omeostato ci offre una concezione diversa, illustrando la differenza tra i nostri sistemi di controllo storici – dove l’informazione è contenuta all’interno di una determinata gerarchia – e l’idea di un sistema che è in continuo movimento e che si autodetermina. È un altro modello di controllo, che rende le informazioni disponibili in tutte le strutture, cosicché questa rete, da un certo punto di vista, potrebbe essere considerata un nuovo modello sociale. Mi interessava l’idea di una nuova società, che si allontanasse da quella sorta di camicia di forza che percepivo negli anni Cinquanta.
Questa prima opera ha condotto a dei lavori di simulazione che mostrano un modello decisionale della società basato sulla reciproca collaborazione, come Visual Homeostatic Information Mesh 1969 e Visual Homeostatic Maze 1968. Simulazioni che rappresentavano il modello auto-organizzante della società in una condizione dinamica e che coinvolgevano le persone nell’assunzione di decisioni riguardo ai loro rapporti con gli altri. Mi hanno sempre interessato la cooperazione e la critica comparativa tra concorrenza e collaborazione nel campo dell’assunzione di decisioni.

ep: L’Homeostat Drawing si basa anche sull’idea di accordo, una nozione spesso presente nel tuo lavoro, specialmente in opere successive come Meta Filter.

sw: Sì, consideravo l’accordo uno stato fondamentale. L’accordo non è condiscendenza, acquiescenza; implica il riconoscimento percettivo della reciprocità. Richiede una complessa serie di scambi. L’accordo è una condizione sociale tra persone, non una cosa meccanicistica; il conformarsi potrebbe apparire come accordo, ma non lo è.

ep: Il concetto di auto-organizzazione è qualcosa a cui ti sei interessato fin dagli inizi e che hai esplorato in modi diversi; la capacità dell’individuo di auto-organizzarsi, la non conformità per quanto concerne le strutture sociali imposte. La resistenza al controllo emerge quando si guarda, per esempio, all’ambiente pianificato, a come i condomini o gli alloggi modernisti strutturano la vita delle persone e a come coloro che li abitano sviluppano delle proprie sottoculture e dei propri linguaggi.
sw: Assolutamente. All’inizio degli anni Settanta ero alla consapevole ricerca di polemiche da rappresentare nel mio lavoro e pensai di estrinsecare quelle osservazioni e quelle idee. Vedevo che le persone erano in quello che io chiamo uno stato di controcoscienza: vivevano in una realtà per loro meccanicisticamente determinata. Dovevano adattarvisi, e così crearono la loro personale controcultura. Non penso che questo movimento o questa forza fosse razionalizzato; fatto che avvenne più tardi, con i post-punk degli inizi degli anni Ottanta. Era una sorta di reazione umana basilare a una schiacciante condizione di determinismo. Percepivo che lo spirito dell’auto-organizzazione era ancora vivo, perfino negli ambienti più deprimenti. L’ho osservato nei grandi condomini, dove i residenti erano isolati dalla realtà esterna, fisicamente e socialmente, ma continuavano a lottare e riuscivano a creare per sé una sorta di società simbolica, a trovare rapporti di reciprocità. Lo sviluppo di una controcoscienza è stato molto importante; senza di essa le persone sarebbero crollate. Le ha aiutate a mantenere la loro identità.

ep: Attraverso le tue opere sul tema dei complessi edilizi, hai parlato molto dell’artista come persona con un interesse per la trasformazione, anche in relazione alla capacità dell’individuo di trasformare.

sw: Consideravo la mia pratica artistica come un modo per confrontarmi con le altre persone, proponendo una visione della società che fosse espressa in un linguaggio comprensibile dalla gente. Il mondo artistico tradizionale aveva i propri linguaggi speciali ed esclusivi. Le persone lo sanno, e io volevo estendere il significato del mio lavoro al di là di questo ambiente esclusivo. Ho dovuto trovare un modo per costruire un ponte e far sì che le mie proposizioni avessero un significato per loro. Per far questo ho dovuto creare un mondo simbolico dentro cui il pubblico potesse entrare e ho dovuto esprimere questo mondo simbolico in un linguaggio familiare. Il linguaggio più appropriato era il loro linguaggio, così il fatto di dar corpo al linguaggio del pubblico nell’opera mi ha aiutato anche a creare il mondo simbolico. Un obiettivo è stato quello di stabilire un rapporto con il pubblico, di dar vita a un feedback tra creatore e osservatore dell’opera. Il pubblico che entrava nel mondo simbolico poteva trarre conclusioni rispetto alla propria realtà, osservando il mondo che lo circondava e poi vedendo come poteva essere trasformato. Lavoravo con persone ai margini, alienate dal comportamento normale, predeterminato, della società. All’epoca le persone dicevano che era una cosa folle e cercavano di fermarmi, ma io ho detto no: queste persone sono importanti per il futuro, perché incarnano l’atto della trasformazione, sviluppando altri linguaggi per denotare altri modi di vedere la società futura.

ep: In uno dei tuoi primi manifesti, “The Artist as Philosopher” (L’artista come filosofo) parlavi di come l’artista si occupi di trovare i limiti estremi delle cose e di restituirli alla società. Questa affermazione, presa alla lettera, forse può essere messa in relazione con numerose opere che hanno esplorato i margini della società, i confini delle città, delle aree desolate e disabitate, come l’accampamento degli sniffatori di colla; esaminando questi luoghi al di fuori di quel genere di ambiente pianificato, esplorando i margini anche in senso fisico.

sw: Quando ho affermato ciò, pensavo che gli artisti avrebbero potuto assumersi dei rischi, perché non erano rinchiusi dentro la scatola, ma potevano uscire fuori quando lo volevano. Potevano spingersi fino al margine, dove altre persone non si sarebbero spinte; così, in un certo senso, vivevano al limite, dove si sentivano liberi.

ep: Nella mostra alla Badischer Kunstverein e nel testo di Tom Holert vi è un’attenzione particolare per le opere degli anni Ottanta. Hai realizzato opere che sono nate dal tuo interesse per i club underground, come il Cha Cha Cha, e dalle collaborazioni con Leigh Bowery. Lette in altro modo, queste opere riguardano persone che, in modo piuttosto letterale, si stavano trasformando.

sw: Vi è stata una progressione euristica degli interessi. Negli anni Settanta lavoravo nelle aree abbandonate di West London e a quella che ora sarebbe considerata l’origine del punk. Quello che trovavo interessante era questo linguaggio di resistenza che le persone usavano per denotare il loro distacco sociale dalla società dominante e determinista. Alla fine degli anni Settanta/ inizio degli anni Ottanta, quella che era iniziata come pura auto-organizzazione a livello locale era divenuta un fenomeno culturale, una sorta di cultura underground notturna. Agli inizi degli anni Ottanta diverse comunità di giovani avevano dato vita a piccoli club privati per creare un ambiente adatto per la loro società. In generale, questi gruppi associavano il mondo diurno con la noia del determinismo e crearono i club servendosi della copertura della notte, in modo abbastanza spontaneo, solo per gli amici. Ogni club aveva la sua identità ed era legato a un gruppo particolare. Il fenomeno nacque dal punk, ma non era veramente punk. Le persone inventarono codici di abbigliamento e di comportamento, modi di parlare, generi musicali e ambienti. Grande importanza aveva l’estrinsecazione della sessualità, dell’omosessualità precedentemente repressa. Si fece strada una generazione che riusciva a essere ciò che voleva. Tuttavia nei diversi gruppi continuavano ad esserci differenti sensibilità. Vedevo le persone creare questa controcultura e pensavo che ciò avesse delle implicazioni importanti per il futuro. Il mondo in cui viviamo è sempre più conformista e normale e questo lo si può osservare ovunque. Ma quello era un momento di resistenza e volevo che nel mio lavoro il pubblico dovesse confrontarsi direttamente con questo fenomeno.

ep: Leggendo il libro Art Society Feedback appaiono in tutta la loro evidenza alcuni principi ricorrenti del tuo lavoro, connessi a una riluttanza a vedere le cose come fisse, o da un’altra prospettiva, a favorire gli stati dinamici, i sistemi aperti, riconoscendo la complessità delle persone e delle esperienze. Questo è qualcosa che può essere discusso usando il linguaggio del diagramma, ma anche attraverso il lavoro con le persone, il coinvolgimento di più autori. Per esplorare più di una prospettiva, le coesistenze, i diversi canali, le incertezze. Una cosa che colpisce nel tuo lavoro è il fatto che spesso ti sei opposto a una prospettiva singolare e autoritaria, in favore di situazioni aperte.

sw: Fondamentale, per questi modelli, è l’idea di auto-organizzazione e di cooperazione. M’interessa il riconoscimento della relatività, della transitorietà, della fluidità e della complessità. Penso che, negli ultimi tre decenni, alcune cose molto importanti si siano trasformate in principi guida. Queste idee non esistevano negli anni Trenta, Quaranta o Cinquanta. Il pensiero del secolo scorso presentava il mondo come semplice, autorevole, monumentale, immortale, ecc., ma nel mondo che ci si spalanca davanti al giorno d’oggi riconosciamo la ricchezza della complessità, della transitorietà, della fluidità multi-canale, dell’auto-organizzazione.