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Mousse Anno 7 Numero 32 febbraio-marzo 2012



The Screen as the Body

Elisabeth Lebovici





SOMMARIO N. 32

STARRING
By Antonio Scoccimarro

Stan Douglas
MIDCENTURY DISCO
By Monika Szewczyk

Barbara Hammer
The Screen as the Body
By Elisabeth Lebovici


Lost & Found
Hollis Frampton: Excerpts from the Last Interview
Edited by Bruce Jenkins

What’s Alternative? Alternative to What?
Curated by Vincenzo de Bellis
“Thanks, but no thanks.”
Thomas Boutoux

Portfolio
Theaster Gates
The New Revolutionary
By Michele Robecchi

Talking About
A Handful of Clay: Miscellaneous Remarks on Ceramics et al.
By Dieter Roelstraete

Talking About
Abbey Road
By Nick Currie

Mark Handforth & Mark di Suvero
I, too, enjoy bending steel

Talking About
The New International
Curated by Kate Fowl and João Ribas

NICE TO MEET YOU

Eddie Peake
Negative Space
By Vincent Honoré

Aaron Angell
Nearly Abstract
By Adnan Yildiz

Natalie Czech
Hidden Poems
By Gigiotto Del Vecchio

AGENDA

BOOKS
By Stefano Cernuschi

Tom McCarthy
Commodius Vicus of Recirculation
By Francesco Manacorda


Berlin
Yngve Holen
Metaphors of Ideas
By Timo Feldhaus

London
Sarah Lucas
What do you want in your face?
By Nicholas Cullinan

New York
Iman Issa
Five Questions about the Specific Concerns of Formal Ideas
By Mai Abu ElDahab

Los Angeles
Californian State of Mind
A conversation between Lynn Hershman, Martha Rosler, Allen Ruppersberg, Karen Moss, Constance Lewallen, Stephen Kaltenbach, and Jens Hoffmann

Ten Fundamental Questions of Curating
Edited by Jens Hoffmann
Chapter 8: What Is the Future of Art?
By Chus Martínez

Sam Durant & Luis Camnitzer
The Church of Ethical Cynicism

Charlemagne Palestine
Doing Adventures
By Hans Ulrich Obrist

Talking About
Untitled (September 11), 2011
By Jens Hoffmann and Peter Eleey


Reprint
The main things which seem to me important...
By Céline Condorelli

DIARY

Talking About
The Assistants
By Fionn Meade

Cheyney Thompson
IMPOOG
By Nicolás Guagnini

Stephan Dillemuth & David Robbins
Independent Imagination
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n. 30 settembre-ottobre 2011

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Emily Pethick
n. 27 febbraio-marzo 2011

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Gigiotto Del Vecchio
n. 26 novembre-dicembre 2010


Nitrate Kisses, 1992
Courtesy: the artist

Lover Other: The Story of Claude Cahun and Marcel Moore, 2006
Courtesy: the artist

Synch Touch, 1981
Courtesy: the artist

Filmmaker pluripremiata, Barbara Hammer è una figura di spicco del cinema sperimentale americano dagli anni ’70 ai giorni nostri. I suoi due più recenti lavori sono dedicati a figure artistiche femminili forti, Claude Cahun e la sua partner Marcel Moore, Lover Other (2006), e Maya Deren, Maya Deren’s Sink (2011), toccando tematiche di genere, ruoli e discriminazione cari all’artista. L’artista ripercorre con Elisabeth Lebovici la lunga carriera e parla delle sue ultime produzioni, del suo rapporto con le nuove tecnologie e dell’organizzazione della pratica quotidiana.


Elisabeth Lebovici: Due dei tuoi più recenti film Lover Other (2006) e Maya Deren’s Sink sono dedicati a figure artistiche femminili molto forti, come Claude Cahun e la sua partner Marcel Moore, e come Maya Deren. Qual è il tuo rapporto con il cinema di tipo commemorativo?


Barbara Hammer: Nitrate Kisses (1992) è stato il mio primo film di durata canonica il cui soggetto sia la “storia” e che affronti questioni del tipo “chi fa la storia” e “chi ne è lasciato fuori”. Ho creato un progetto ambizioso di collage/montaggio che esplora la storia omosessuale, raccordando una serie di brevi clip e citazioni testuali secondo un genere, sconosciuto a me all’epoca, chiamato “saggio documentaristico”. Ho cominciato a interessarmi molto al saggio documentaristico e ho continuato facendo altri due film di questo genere, che ho intitolato trilogia delle Storie Invisibili (Nitrate Kisses, Tender Fictions, 1995 e History Lessons, 2000).
Maya Deren’s Sink e Lover Other si avvicinano al saggio ma, in questi film, lavoro con la storia di qualcuno così come con il concetto d’invisibilità delle artiste donne in un mondo dell’arte dominato dagli uomini. In Maya Deren’s Sink, il mio interesse è l’archivio, l’archivio quotidiano. Deren teneva dei diari, ma dove li teneva e come li usava? In che tipo di spazio viveva? Come era il pavimento che calpestava? Come viviamo ogni giorno in qualità di operatori culturali? Quali oggetti, quali modi di vita non sono considerati parte del nostro archivio? Si può assumere un’ampia prospettiva e dire che il film non riguardi veramente Maya Deren, ma i modi in cui gli archivi sono concepiti. Inoltre si tratta di una critica del concetto usuale di storia e di quello di archivi storici.

el: Perché il lavandino?

bh: Ero casualmente seduta nell’atrio dell’Anthology Film Archives, quando ho sentito dire che avrebbero portato il lavandino di Maya Deren. Ho immediatamente immaginato che avrei potuto guardare i suoi film usando il lavandino come uno schermo. Ho pensato al lavandino come a un oggetto importante, analogo all’orinatoio di Duchamp. Invece di apporvi una firma falsa, avrei proiettato il film dell’artista sul suo stesso oggetto. Usando questo lavandino di scarto, avrei trovato un altro modo di guardare alla vita e alla pratica di un’artista. Mi sono chiesta quali altri oggetti, mobili, capi d’abbigliamento della sua vita degli anni ‘40 e ‘50 avrebbero potuto ancora trovarsi nelle sue case. Avrei trovato le case in cui Deren aveva filmato, mi ci sarei potuta introdurre? Ho studiato i suoi film prestando grande attenzione ai dettagli dell’ambiente così da poter ri-proiettare queste immagini nelle loro location originali. Maya Deren sarebbe potuta vivere di nuovo nelle sue case del passato!

el: Il tuo film Lover Other ritorna alle performance sui generi sessuali di Claude Cahun e Marcel Moore, non solo mostrandone i famosi autoritratti, ma anche fornendo un’idea delle vite di Lucy Schwob e Suzanne Malherbe – le identità dietro i nomi di battesimo – specialmente di quella parte della loro esistenza meno nota, svoltasi sull’isola di Jersey, dove resistettero durante l’occupazione tedesca (e dove vennero infine fatte prigioniere e condannate a morte, prima che l’isola fosse liberata). Sei riuscita a intervistare alcuni abitanti di Jersey che conoscevano le loro vite. Come è nato questo film?

bh: Mi trovavo a Parigi nel 1998, e c’era una mostra di fotografe dell’avanguardia all’Hotel de Sully (“Les Femmes Photographes. De La Nouvelle Vision en France, 1920 – 1940”) e c'era uno dei cosiddetti “autoritratti di Cahun” che ritraeva una donna, con i capelli molto corti e con una camicia a scacchi dal colletto sollevato; ma la cosa più importante era il suo sguardo che io supposi essere uno sguardo lesbico. Il curatore, che si trovava nell’edificio in cui aveva luogo la mostra, mi mandò alla Librairie des Femmes, dove trovai il catalogo di Cahun. La mia ricerca fu posticipata dal momento che stavo andando a fare una residenza di quattro mesi a Cassis, nel sud della Francia.
Mi apprestavo a essere una film-maker sperimentale e a giocare alla sperimentazione con pellicola e luce ma, dopo pochi mesi che mi trovavo là, scoppiò la guerra in Kosovo. La televisione francese è piuttosto illustrativa riguardo alla guerra, e vidi le devastazioni e gli spostamenti di popolazione appena a pochi paesi di distanza. Donne e bambini fuggivano con i soli vestiti addosso; alcuni rimanevano senz’acqua. Pensai che non potevo restare lì e continuare a lavorare come artista ma, avendo firmato un contratto, dovevo restare a Cassis.

Trovai un compromesso: avrei compiuto una ricerca sulle persone che fuggirono dai Nazisti durante la seconda guerra mondiale in questa piccola città costiera del Mediterraneo. Questo paesaggio paradisiaco splendente di riflessi per artisti come Matisse e Bonnard, era anche un luogo dove la resistenza e i rifugiati erano vissuti o attraverso cui erano passati. C’era Lisa Fittko (1909-2005), che è nel film, e che aveva guidato il filosofo Walter Benjamin nel suo lungo e sventurato cammino sui Pirenei. Era fuggita dalla Germania, ma come tutti gli immigrati tedeschi, era stata vittima dei rastrellamenti e isolata in un campo di concentramento in Francia. Fittko aveva sperimentato il caos del campo Gurs, era stata rilasciata quando fu firmato l’accordo di Vichy e si era riunita al marito a Cassis. Cassis e i suoi dintorni così sono divenuti uno dei soggetti del mio film Resisting Paradise.

Mi sono chiesta: cosa fa un artista in tempo di guerra? Per quanto riguarda Matisse e Pierre Bonnard, si trattò di dipingere. Se solo Matisse fosse uscito dal suo studio avrebbe potuto udire che un centinaio di bambini erano stati deportati da Nizza, e forse sarebbe potuto diventare una persona nuova, come sua moglie, sua figlia e suo figlio che fecero parte della resistenza, mentre lui continuò a produrre paesaggi, ritratti e nature morte.

Insieme a Devotion: A Film About Ogawa Productions (2000), Resisting Paradise (2003) è il film più lungo che io abbia mai fatto.(1) Poi mi sono indirizzata a Cahun e a Moore come per un finale, per un piccolo film intimista sullo stesso soggetto, su due persone, Cahun e Moore, che erano entrambe artiste, lesbiche e appartenenti alla resistenza. A New York ho incontrato una studentessa che aveva scritto una tesi sulle loro attività di resistenza sull’isola di Jersey durante l’occupazione nazista. Mi disse che lo staff dell’archivio era omofobo e mi suggeriva di non fare menzione delle mie preferenze sessuali mentre compivo le ricerche. Nell’archivio di Cahun/Moore trovai una lettera d’amore tagliata con forbici dai margini seghettati così che solo una frase rimaneva leggibile. Mi chiesi se la sessualità lesbica all’interno dell’archivio fosse stata distrutta. Assunsi un assistente e in cinque giorni scansimmo tutto il possibile, pensando che sarebbe stato importante per il futuro. Trovai uno scritto inedito, un dialogo fra “Peter” e “Mary” – che credo siano nomi mascherati – che data al periodo in cui le due artiste erano in prigione, perché era scritto su carta marrone lacerata, come di un controfrontespizio di libro. Questo “scritto” si riferisce a una discussione molto intima per la cui esecuzione ho diretto due attori che interpretavano Cahun e Moore: Kathleen Chalfant e Marty Pottinger.

el: Al pari dei tuoi espliciti contenuti sessuali, è stata sempre sottolineata la tua relazione con il cinema americano sperimentale, con le pratiche strutturali degli anni ‘70 e ‘80. Si è spesso detto che sei stata la prima donna dichiaratamente lesbica associata alla scena della cinematografia avanguardista.

bh: Sì, sai... penso che sia vero. Comunque, non lo sapremo mai, dal momento che ci sono sempre nuove storie da portare alla luce. Ma è vero che quando feci outing, avevo appena iniziato la scuola di cinema e sembrò che stessi vivendo una vita sperimentale, così i miei primi film dovettero essere, a loro volta, sperimentali. Inoltre vidi Prelude: Dog, Star, Man di Brakhage (1961-4) e fui molto impressionata, come altre centinaia di noi, dalle astrazioni, dalla “storia eroica” personale e dal fatto che Stan portasse sempre la telecamera con sé. Uscendo dal cinema, dopo aver assistito alla proiezione di The Art of Vision, vidi il mondo in maniera differente: lo vidi cinematograficamente. Si trattava di un tipo di cinema molto astratto con un approccio mascolino: Stan Brakhage saliva sul monte e tagliava l’albero, mentre Jane Brakhage saliva sul monte e piantava l’albero. M’interessava maggiormente l’approccio di Jane alla vita rispetto a quello di Stan. Fu solo cinque anni dopo che fui in grado d’incontrarla e di fare un film su di lei: Jane Brakhage (1975). Jane Brakhage è stata così importante e trascurata, Stan Brakhage l’aveva trasformata in una dea madre che generava eternamente e tuttavia lei studiava e scriveva sul linguaggio dei cani, collezionava zenzero e lo piantava, archiviava ogni prova del loro lavoro. Questo può apparire oggi, forse, mitologico o un atteggiamento adorante nei confronti dell’eroina, analogo al culto intorno a suo marito... ma all’epoca era così.

el: Hai studiato cinema? La tua biografia menziona una laurea in Psicologia e poi due Master in letteratura inglese e film...

bh: Le pellicole in 8mm e in Super8, Schizy (1968), Marie and Me (1970), e altre, furono girate prima che m’iscrivessi alla scuola di cinema, quando avevo già trent’anni. Mi laureai in psicologia (1961) e ottenni il mio primo Master in letteratura inglese (1963). Prima di fare outing avevo un’altra vita, che era altrettanto alternativa, ma eterosessuale. Mi ci vollero tre anni per decidere di fare l’artista e poi non sapevo di quale medium servirmi! Finalmente, quando capii cosa mi offriva il film, l’aspetto filosofico che non era proposto dalle lezioni di pittura, scelsi il film e ottenni un secondo Master nel 1975.

el: Dyketactics è famoso per essere il primo film sperimentale lesbico...

bh: In realtà fu il terzo. Ce ne sono altri due che precedettero Dyketactics (1974): A Gay Day (1973), filmato in 16mm è una critica al matrimonio lesbico e I Was/I Am (1973), il mio secondo film girato in 16mm, dove mi trasformo da principessa in abito da sera bianco e diadema in rivoluzionario in giubbotto da motociclista con in mano una pistola e in sella a una motocicletta BMW. Per ritornare a Dyketactics, inizia come un film tradizionale. Portai un gruppo di donne in campagna e girai un’ora di film sonoro in sincrono. Poi nella sala di montaggio, guardando il girato, lo trovai molto noioso, semplicemente pieno di rituali di campagna. Nel corso di una notte, lo tagliai da 60 a 2 minuti, la sessualità performativa fu aggiunta in seconda battuta. La tesi del film è la connessione fra la percezione e il tatto in una prospettiva estetica lesbica. La mia vita è cambiata nel toccare un’altra donna il cui corpo era simile al mio. Il mio senso del tatto è diventato la mia connessione allo schermo. Volevo che lo schermo fosse percepito dal pubblico attraverso i loro stessi corpi. Questo differisce molto dal lavoro puramente percettivo di Brakhage.

el: Quindi hai trascinato la cinepresa a letto?

bh: Sì! Dyketactics fu filmato con una Bolex. La posi fra i nostri corpi nel letto e la lasciai funzionare autonomamente: mentre ci accarezzavamo l’una con l’altra, la cinepresa era posizionata nella cavità del corpo. La metafora potrebbe essere dell’interno del corpo con due donne che lo accarezzano.

el: In tutto il mondo occidentale, ci sono stati, negli anni ’70, circoli femministi e lesbici che dibattevano sul cambiamento della pratica dello sguardo e la ricezione del cinema, e su alcune rivendicazioni teoretiche per un approccio “femmineo” al film, ricercando una visione aptica del corpo, della sessualità... Hai preso parte a queste discussioni?

bh: Ho sentito, sin dall’inizio del mio lavoro filmico, che c’era una specifica estetica del tatto connessa alla percezione. Ho invitato il pubblico dentro i miei film attraverso la connessione di vista e tatto. Il film non è ripreso da una soglia distante o da una prospettiva tridimensionale rinascimentale. Si tratta di una telecamera che entra nel letto con me e con un’altra persona: un cinema d’intimità. Queste due tattiche – intimità e il filmmaker come performer – hanno permesso ai film di resistere alla dimensione voyeuristica patriarcale che si vede spesso nella pornografia. Non ho niente contro il nostro piacere visivo reattivo e la scopofilia, ma quello che cercavo era una nuova forma espressiva che echeggiasse la mia esperienza.

Ho inventato una mia propria estetica ma, più tardi, negli anni ‘80, abbiamo discusso Cixous e Irigaray, affascinate dal tropo delle “due Labbra” come di “una” e dalla strategia decostruttiva contro l’assunto occidentale sull’unità, incarnato dal fallo. Mi è piaciuto! Leggevo molto écriture féminine e raccomando ancora oggi quegli scritti agli studenti e ai tirocinanti. Ma io ero piuttosto una fenomenologa, dal momento che facevo un cinema personale, nato dalle mie esperienze.
Credo di spaziare maggiormente per quanto concerne influenze e letture, che sono più sfaccettate di quelle del seguace di un qualsiasi gruppo.

el: Questa posizione è riflessa nell’ampio interesse che stai attualmente ricevendo da istituzioni come il MoMA o la Tate? Come si arriva da festival alternativi omosessuali al Museum of Modern Art?

bh: Portare il pubblico della mia comunità all’istituzione non è facile, a causa del costo elevato del biglietto che il museo chiede: 20 dollari! Cerco di trovare dei modi per aprirne le porte.
Mi sento ricompensata: dopotutto un’artista aspira all’inclusione nella Storia dell’Arte. Ho detto prima che il mio lavoro consiste nel collocare un’artista lesbica nella cornice del Ventesimo e Ventunesimo secolo e credo di lavorare e di aver lavorato con sensibilità storica retrospettiva e prospettiva. Lo devo solo a mia madre che credeva fossi una Shirley Temple del mio tempo (!) e che ha creduto in me. Sfortunatamente è morta prima che finissi il mio primo film. Mi ha insegnato ad avere sicurezza in me stessa, anche se è stata una lotta essere lesbica e ottenere un lavoro come insegnante a tempo pieno, con la mia storia radicale del cinema. Ottenere l’insegnamento a tempo pieno è stata la mia più grande lotta con le istituzioni, molto maggiore di quella affrontata con i musei.

el: Che tipo di routine adotti in studio?

bh: (Ride) Intorno al 2000, ho preso lezioni per diventare pianificatrice strategica e per impartire le abilità apprese ad altri artisti, come parte del team di Sviluppo Professionale.
Per esempio, ecco qualcosa che insegno e pratico: arrivo e faccio una lista di cinque obiettivi da raggiungere entro la settimana.
Poi provo a non spedire email fino al pomeriggio. Siedo con un progetto a breve scadenza, che può essere per esempio, inserire delle immagini in un programma del computer, cominciare a guardarle, trovarvi una relazione, emotiva e intellettuale, cercare su internet chi altri lavori nella medesima area. Alla fine della settimana controllo la lista e vedo se i cinque obbiettivi sono stati raggiunti. Un’altra cosa su cui lavoro è l’installazione: alla Tate(2) presenterò un film su dei palloni ad aria. Vorrei che il pallone diventasse il corpo, per così dire, e il pubblico avesse una relazione più prossima all’immagine rispetto a quella che ha in una sala cinematografica.

el: Il tuo rapporto con la tecnologia si evolve costantemente.

bh: Sì, mi piace leggere articoli sulla tecnologia e guardare al lavoro di altre persone, che adesso è così sofisticato. Non ho studiato linguaggi di programmazione, quindi il massimo che posso sperare di fare con quella specifica forma d’intelligenza è di trovare una persona con cui lavorare. E questo certamente riporta ai primi artisti che hanno lavorato con l’industria per produrre i loro lavori. Anche Michelangelo chiedeva a qualcun altro di sbozzare il marmo in un modo particolare così da poterlo usare in seguito. Perché m’interessano le nuove tecnologie? È eccitante apprendere di nuove scoperte intellettuali. Non voglio essere lasciata indietro senza averne una comprensione di base. Voglio conoscere le opzioni a disposizione.

1. 
Sarà presentato al cinema le Nouveau Latina a Parigi il 23 febbraio 2012, [nda]
2. 
Changing The Shape of Film, Feb. 5, 19:00, Tate Modern, Gratis, [nda]