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Mousse Anno 9 Numero 43 aprile-maggio 2014



We don't need a dislike function: post-internet, social media, and net optimism

Andrew Durbin





Cover: All works by Franz Erhard Walther from “1.Werksatz” (“First Works Set”) series, 1963-1969. Photo: © Tim Rautert. Courtesy: © Franz Erhard Walther Foundation. From Top, Left, Clockwise - N°14: Skulptur; N°26: Kopf Leib Glieder, 1967; N°32: Kurz vor der Dämmerung; N°53: Handstück, 1969; N°57: 10 x Ort Strecke Orte, 1969. Courtesy: Dia Art Foundation, New York; N°31: Für Zwei; N°23: Zentriert, 1967; N°29: Körper, 1967

SOMMARIO N. 43

KAI ALTHOFF
A Line That Is a Circle
by Nicolaus Schafhausen

TALKING ABOUT
We Don’t Need a Dislike Function: Post-Internet, Social Media, and Net Optimism
by Andrew Durbin

TALKING ABOUT
Stylometry: Part I
by John Menick

TALKING ABOUT
Worldly Worlding: The Imaginal Fields of Science/Art and Making Patterns Together
by Carolyn Christov-Bakargiev

FRANZ ERHARD WALTHER
Attempt to Be a Sculpture
by Hans Ulrich Obrist

TALKING ABOUT
Biome World: Pursuing a Pedagogy of Invention
by Chus Martínez

PAUL CHAN
|!”(-,-)
by Apsara DiQuinzio

TALKING ABOUT
Art After the End of Art: Exhibit A
by Jens Hoffmann

CAMERON ROWLAND
Target Hardening
by John Beeson

ELAINE CAMERON-WEIR
Metabolic décor
by Isla Leaver-Yap

SEAN RASPET
The Fragrance of Coins
by Kevin McGarry

JOÃO ENXUTO AND ERICA LOVE
The Real Power of Open Innovation
by Sarah Hromack

TALKING ABOUT
Hallucination Museum
by Joshua Decter

TERRY ADKINS
The Last Recital: Terry Adkins
by Charles Gaines

LISA WILLIAMSON, ALEX OLSON, LAURA OWENS
The empty-handed painter from your streets is drawing crazy patterns on your sheets
by Andrew Berardini

BEN SCHUMACHER AND JARED MADERE
No Entity Can Ever Fully Comprehend Another Entity
by Luke Schumacher

A.L. STEINER
Managing Impossibility
by Chelsea Haines

TALKING ABOUT
Recoding Images: Michele Abeles, Sara Cwynar, Jon Rafman and Travess Smalley
by Lauren Cornell

LIZ DESCHENES
Radical Looking: In the Presence of the Image, in the Absence of Spectacle
by Roxana Marcoci

TALKING ABOUT
True Blue Or the Work of Images in the Age of Digital Reproduction
by Jennifer Allen
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Dora Budor
Kathy Noble
n. 49 estate 2015

The Screen as the Body
Elisabeth Lebovici
n. 32 febbraio-marzo 2012

Chantal Akerman
Elisabeth Lebovici
n. 31 dicembre 2011-gennaio 2012

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Monika Szewczyk
n. 30 settembre-ottobre 2011

Art Society Feedback
Emily Pethick
n. 27 febbraio-marzo 2011

Reading is writing
Gigiotto Del Vecchio
n. 26 novembre-dicembre 2010


The Jogging and DIS, Political Freedom Planting Pots, 2013
from

Image From Youth Mode: a Report on Freedom, 2013
Courtesy: K-Hole and Box 1824

Edward Shenk, More Evidence of Chemtrails Ignored by The Mainstream Media, 2014
Courtesy: the artist

Nel suo recente saggio “Too Much World”, Hito Steyerl ci chiede di immaginare “un Internet saturo di entità che si ‘piacciono’ a vicenda, in maniera insensata e acritica e così facendo avallano la regola di pochi quasi-monopoli. Un mondo in cui il sapere è privatizzato, sorvegliato e difeso dalle agenzie di rating”. Per Andrew Durbin, non si tratta di un mondo difficile da immaginare. Infatti somiglia molto al mondo in cui viviamo oggi, un mondo in cui artisti, scrittori e blogger lottano per non farsi sopraffare dall’imperante logica commerciale della rete che impone di subordinare il proprio lavoro ai gesti mercificanti del “like” e dello “share”. E per Durbin, l’arte che conta è quella che si oppone al network, sfruttando proprio quell’insensatezza acritica che preoccupa Steyerl e pochi altri.

PARCO GIOCHI

I creatori di Internet art spesso descrivono quest’ultima come un coinvolgimento frizzante, ottimistico, persino utopistico dei follower e degli amici nel corporate web, un parco giochi bellissimo all’insegna del libero scambio secondo un regime felice che ci impone di continuare a cliccare su mi piace e di condividere e rebloggare se non vogliamo cadere nell’anonimato. All’alba del 2014, l’unità di misura della qualità si è ridotta al like. Nonostante la presunta “apertura” delle interfacce dei social media, l’arte realizzata e distribuita attraverso questi canali è drasticamente soggetta ai loro termini e condizioni d’uso. Nell’ottobre del 2013, per esempio, Ann Hirsch, artista newyorkese, ha portato in scena al New Museum Playground, una performance ispirata alle proprie esperienze cyber sex, ambientandola in una finta chatroom AOL degli anni ’90 chiamata Twelve, e pubblicandola sotto forma di una app dallo stesso nome. Apple ospitò Twelve per quasi due mesi prima di rimuoverla dall’App Store perché violava i termini e le condizioni d’uso di Apple. Nello specifico, venivano contestati all’artista la “simulazione di un’esperienza desktop”, lo “sfruttamento del marchio AOL” e il contenuto sessuale(1). Apple rifiutò di riesaminare il caso di Hirsch argomentando che la censura non era un “legittimo oggetto di ricorso”. Quattro mesi più tardi, Klaus_eBooks, che in origine aveva commissionato l’App per il New Museum, mise in commercio una serie limitata di iPad Mini, precaricati con Twelve e firmati dall’artista. Come dimostra chiaramente questo incidente, queste piattaforme apparentemente aperte e amichevoli – iTunes, Facebook, Tumblr – sono teatro di una battaglia sanguinosa, spesso invisibile, nella quale il contenuto, ancor prima di competere per i like (e la viralità), è costretto a trattare per un posto nella piattaforma, sempre garantito fino a che non che non si viola qualche clausola illeggibile, e sopraggiunge la revoca. E se non fa incetta di like, perde posizioni nel News Feed, il flusso di notizie in bacheca. Se noi siamo liberi di esprimere i nostri like, gli amministratori dei social media si riservano il privilegio di disapprovare il contenuto – e di rimuoverlo. Eppure il dislike è e resta una definitiva risposta estetica, centrale in molti casi di artisti che usano i social media. Come esprimo la mia avversione per la tua stupida immagine di profilo? O per un jpg delle tue pallose idee politiche? Li condivido a tutto spiano.

TERMINI E CONDIZIONI D’USO

A un certo punto, intorno alla metà dello scorso decennio, la net art ha cominciato a ritagliarsi una seconda casa fuori dal web, nello spazio reale di gallerie e manifestazioni. Mentre quest’arte, che in alcuni casi recenti si è guadagnata l’appellativo di “Post-Internet”, esisteva in formato jpg, pdf, tiff, o gif e circolava nei siti e nei blog degli artisti, su Facebook, Twitter, e ultimamente su Tumblr, si raddoppiava offline sotto forma di oggetti tangibili, fisici (spesso in versioni multiple di se stessi). Lev Manovich fu il primo a usare il termine “Post-Internet” nel 2001, reso popolare da Marisa Olson in un’intervista del 2008 su we-make-money-not-art.com(2). Olson cita l’intervista rilasciata nello stesso anno dal net artist Guthrie Lonergan a Thomas Beard di Rhizome. In questa intervista, Lonergan esprimeva il suo interesse nel superamento di “una sorta di mancanza di rispetto nei confronti degli oggetti” propria di Internet (e della net art) per avventurarsi in un nuovo territorio attento a Internet che avrebbe dovuto permettere la creazione di oggetti che “non sono oggetti.”(3) In un secondo tempo, artisti e scrittori più giovani hanno ulteriormente analizzato il termine,(4) enfatizzando una materialità (e immaterialità) diversificata che si rifletteva sulle sue possibilità iterative sia nella “vita reale” sia online. In quanto tale, l’arte ha aumentato la sua attenzione verso le modalità di aggregazione offline delle comunità nate su internet.
In “Notes on Post-Internet,” l’artista e scrittrice Jennifer Chan osserva che le “tendenze ottimistiche [della net art] possedevano un background critico pressoché inesistente sulle implicazioni politiche dell’esistere su qualsiasi piattaforma,”(5) benché i net artist, negli anni Novanta, avessero tentato più volte di stravolgere la struttura del browser e di Internet. Salvo alcune eccezioni, la Post-Internet art ha adottato una posizione ancor meno critica – per quanto sia sempre difficile stabilire cosa sia volontariamente o involontariamente critico nella net art e nella Post-Internet art – incorporando ed estetizzando strategie capitalistiche accelerazioniste di produzione brandizzata sui social network. Dalla permanenza di Ryder Ripps in uno spazio residenziale della RedBull ai meme Powerade di Jogging, i marchi commerciali – e il branding – sono divenuti essenziali alla Post-Internet art che si appoggia e riflette sul web aziendale sia come canale di distribuzione, sia come fonte di materiale visivo, anche se è sempre più difficile stabilire se questo processo abbia una matrice “politica” oppure no(6). Secondo l’artista Post-Internet Brad Troemel, i social media hanno determinato il populismo dell’arte procacciandole nuovi tipi di pubblico “casuale”, arricchendo la dicotomia teorizzata da Boris Groys “arte democratica non popolare vs. arte popolare non democratica” di un terzo termine ridondante nel vero senso della parola: “arte popolare e democratica al tempo stesso.(7)” Ma questa “arte popolare democratica” non rappresenta forse l’ennesima reincarnazione dell’utopismo degli anni Novanta, stavolta con un occhio di riguardo alla partecipazione del pubblico come bene positivo ipso facto, indipendentemente dai network?
In una conversazione con Lauren Cornell, Ed Halter solleva un importante interrogativo circa il ricorso alle strategie aziendali da parte della Post-Internet art: “Non ritieni che questa linea (considerare la cultura come la nuova natura) non solo accetti la logica del mercato, ma ne riconosca il valore e si rifiuti di offrire idee che vadano oltre?”(8) Sembra che la Post-Internet art sia riuscita a interferire con la logica di mercato testando i limiti dei social media. Non vorrei etichettare il Post-Internet come ottimista o pessimista; è piuttosto ancorato a un paradigma critico volto a sottolineare le macchinazioni del capitalismo semiotico, ma non i suoi effetti. Talvolta. Scivola spesso in un velato umorismo, come nel recente scatto di Madison Beer per Dis magazine che mostra una serie di piantine invasate in cuffie che recano impresso il nome di Chelsea Manning, di Snowden e di Ellsberg, accomunati dall’aver denunciato attività governative illecite. Politica ed ecologia al servizio dell’architettura d’interni.

Perlopiù, la Post-Internet art evita di prendere in considerazione la sfera politica o ambientale e focalizza la sua critica su ciò che Lauren Cornell ha definito un “ambiente fatto di informazioni più mobili e decentrate”(9), un ambiente in cui la sfera politica e quella ambientale vengono a coincidere. Forse questo info-environment ha più o meno rimpiazzato l’ambiente in cui le onde si infrangono sulle spiagge e gli alberi sono abbattuti per la carta come “spazio” per l’arte, forse è talmente infiltrato dalla tecnologia che non esiste più, ma personalmente mi sembra che non se ne sia ancora andato, e che incomba su un’arte che fa affidamento sulle tecnologie di consumo (drastico) per riflettere su quell’ambiente originario di cui estetizza così diffusamente il consumo. Troppo spesso evita di farlo, lasciandoci ammirare piante invasate nelle cuffie. Ma ci sono stati dei momenti in cui la Post-Internet art ha mosso una critica intelligente ai modi i cui i social media si propongono come un terreno di scambio aperto e apolitico, al di sopra e al di fuori della politica senza virgolette.

L’OGGETTO SPECULATIVO DELL’IDEOLOGIA

I social media chiedono: chi ha tempo per l’arte – o qualcosa di simile? In un tempo senza mai tempo, in cui l’unico modo per farsi notare consiste nel farsi costantemente notare, la Post-Internet art ha fatto presa sui blogger/creativi/artisti/poeti sempre in movimento, dal post sempre pronto, anti-flâneur del web che esplorano la rete, certo, ma che la riempiono al tempo stesso di contenuti, senza mai smettere di elaborare la città che non riescono a esplorare fino in fondo. Questi anti-flâneurs setacciano la rete e riformattano ciò che trovano, trasformandolo in una politica del come produciamo (o nominiamo) gli oggetti d’arte, se non del cosa produciamo. Nel suo saggio “Athletic Aesthetics”, Brad Troemel descrive l’“esteta-atleta” (“aesthlete”) come un artista che “sovrapproduce” questo come. “Piuttosto che fornire una selezione”, l’“estleta” sommerge il pubblico di contenuto(10). Gli “estleti” postano venti album d’immagini al girono sul loro account Facebook, una prassi minuziosa esemplificata dal blog The Jogging (curato anche da Troemel), che invita gli artisti a far confluire le proprie immagini in una corrente continua di contenuto di immagini accomunate da una simile logica estetica (e ora politica).
È difficile definire un post Jogging; spesso somiglia alle piante in vaso di Madison Beer, radicato nell’ambivalente politica dell’obsolescenza. Per un po’ le sue immagini spiritose (?), post-ironiche (?) hanno sottomesso la tecnologia e i marchi commerciali alle forze della natura o dell’uomo che sottolineavano la loro fragilità – e, al meglio, la fragile ecologia della nostra dipendenza da queste tecnologie di scambio. Jogging era:

a. parodia dell’obsolescenza
b. détournement del marchio
c. contenuto come forma d’arte
d. infinita sequenza di singole opere, destinato a diventare un archivio inutile
e. cruciale: forse nessuna di queste cose

Non è mai una barzelletta più di quanto non sia una non barzelletta; sub-ironica nella sua sognante, infinita sequenza di immagini caricate dagli utenti, è il post-barzelletta.
Di fatto è molto “bro”, una categoria che non si limita a fornire la barzelletta o lo scherzo, ma che ne è spesso vittima: video di fallimenti, l’assoluto attaccamento della fratellanza omoerotica (ma spesso omofobica), della pluralizzata “esperienza di mascolinità” e di ciò che l’accompagna (marchi commerciali: Five Hour Energy, Xbox, Powerade; corpi ipersessuati: maschio, femmina; l’atletica, la palestra). Gli oggetti Jogging bros, li accomuna instillando diversi oggetti – iPhone, una palla da tennis, una lattina di soda, un’anguria – con fraternità, stabilendo un sovreccitato senso delle cose che sarebbero collegate in modi misteriosi, come la matricola che scopre un legame generico, anche se astratto, con altri “fratelli” in una confraternita o in una squadra sportiva. Si arriva al punto di convertire la stessa piattaforma al “bro”, trasformando il “bloggare” in uno sport – scorrere le immagini in sequenza come esercizio fisico.

Più di recente, Jogging ha introdotto grandi cambiamenti nelle sue immagini. Da quelle appena descritte si è passati a immagini che parodiano diagrammaticamente i memi della destra, evidenziando una nuova logica della politica obsolescente dei social media. Jogging ha copiato i tropi visivi dei jpg cospiratori della destra per espandere cospirazioni ancora più assurde, mettendo alla prova la logica cospirativa della destra con “fatti” impossibili, una singola rivelazione che il meme della destra intende portare alla luce dissipando l’oscurantismo imposto dal governo corrotto con l’intenzione di tenere i cittadini all’oscuro di tutto(11). Questi fatti sono spesso nascosti sotto gli occhi di tutti. Ma per Jogging, i fatti oscurano l’oscurantismo: i suoi memi mirano a portare in primo piano questo oscurantismo. A qualche mese di distanza dalla prima comparsa di queste immagini su Tumblr, i repubblicani del Tea Party e altri conservatori di estrema destra hanno iniziato a rebloggare e a condividere queste immagini sulle loro pagine Facebook con la massima serietà, facendole circolare come autentiche espressioni delle loro convinzioni anche se, a un esame più attento, questi memi “dicono” “niente” non dicendo niente.
Queste immagini recenti – un cambiamento voluto da Troemel e da Edward Marshall Shenk – esprimono il concetto hegeliano di Aufhebung [dal verbo tedesco aufheben, che ha il duplice significato di “togliere via, eliminare” e di “sollevare, conservare” NdT] – ripreso da Bettina Funcke per descrivere la sublimazione warholiana nella pop art – l’“elevazione” degli oggetti mediante la “negazione della loro negazione” che consente all’oggetto originale, posto in primo piano, di sopravvivere persino alla propria distruzione. Secondo Jogging, ciò che viene preservato/distrutto è l’oggetto ideologico. Funcke utilizza la metafora di un disseppellimento: se si vuole disseppellire qualcosa, “si deve scavare rimuovendo la terra che lo ricopre generando un “cumulo” sotto cui ciò che prima era immobile ora giace sotto una nuova e più alta superficie”(12). È facile scorgere uno schema interpretativo per i post conservatori di Jogging in questo metaforico disseppellimento. Il blog Jogging e chi vi collabora estraggono questa ideologia per sublimarla in una negazione del suo intento o contenuto originario che simultaneamente afferma il suo valore come latrice di un messaggio, sottolineando l’ovvio: queste cospirazioni, in ultima istanza, non sono altro che fantasiosi errori di interpretazione dell’estrema destra. Jogging sfrutta il social network per mettere in evidenza quegli errori, interpellando i responsabili e invitandoli a chiarire ciò che intendono condividere.

Gli ipotetici oggetti ideologici di Jogging riflettono sul canale e offrono una terza via tra l’ottimismo e il pessimismo che ha definito la net art e la Post-Internet art. Questa rottura è caratterizzata da una strategia di sublimazione, un metodo che ripensa l’oggetto Internet diffuso, traslatorio e la sua vita online e come ciò potrebbe impegnare politicamente la comunità. I memi conservatori di Jogging colorano l’acqua, permettendoci di seguire la migrazione del meme attraverso contesti radicalmente diversi e di tracciare il mutamento di significato, anche se il suo “messaggio” non muta. Jogging si è trasformato annullandosi, riuscendo a catturare un pubblico casuale che fino a quel momento era irraggiungibile, data la sua lontananza. Aprendo la via ai fraintendimenti (una caratteristica del web nei suoi numerosi forum e messaggi anonimi), ha sublimato questo fraintendimento in uno strumento unico per ampliare il suo pubblico, per instaurare un “contatto” tra web divergenti al di fuori del normale intento dell’arte contemporanea. Così facendo ha operato una traduzione ancora più sensazionale di quella da jpeg a oggetto, si è tradotto in una pratica del fuori, per citare una frase del poeta Robin Blaser, portando dentro ciò che c’è fuori. Blaser scrisse quasi quarant’anni fa: “Un linguaggio che torna a schiudersi si apre all’ignoto, all’Altro; ciò che stava fuori diventa una voce in quel linguaggio. In questo modo, l’inversione non è una riduzione ma un’apertura. La sicurezza di un linguaggio chiuso in se stesso viene a mancare e la sua tendenza a ridurre un pensiero alla ragionevolezza e alla definitezza è disturbata”(13).

IL RITORNO DEL REALE

Il diffondersi della cultura fieristica lungo gli assi geografici di Pechino e Los Angeles, di Basilea e San Paolo, ha trasformato gran parte del mondo dell’arte in una sorta di party su larga scala, perlopiù notturno, alimentato da grandi bevute diurne, servizio in camera, pomeriggi a South Beach (o a Berghain), svendite, cene, after party, after after party, e dal brivido un po’ vano che regala il conoscere un nuovo collezionista/gallerista/artista/scrittore a una cena alle 21.00 o molto più tardi, al Lady Bar di Basilea, e aggiungerlo subito alla cerchia di contatti Facebook. I confini geografici e temporali si sgretolano e il tweet internazionalizzato, il post Facebook, l’#artselfie rivelano dove siete e con chi siete e cosa state facendo, il tutto in funzione e come espressione della vostra carriera. Ecco che il lato tipicamente “social” di questi network (il “calore” di quei momenti e di quegli album fotografici vissuti in famiglia e nella cerchia di amici che Facebook usa per farsi pubblicità), si trasforma in pagine in stile LinkedIn in cui carriera e marchio sono sviluppati e trasmessi ai membri del network come un nuovo selfie, da cui traspare nitida l’immagine di un marchio di fabbrica, più che di un soggetto.
Il gruppo di trend forecasting K-Hole, che scandaglia questo estenuante mondo dell’arte alla ricerca di nuove tendenze, auspica la connessione di communities diverse in una più grande, più inclusiva realtà. In un recente rapporto intitolato Youth Mode (frutto di una collaborazione con Box 1824(14)), K-Hole affronta il tema della migrazione di Internet nello spazio del reale e della cultura dell’alienazione che l’accompagna (caratterizzata da un utilizzo esasperato del cellulare alle feste, dallo sfuggire il contatto visivo e da un desiderio malsano di essere costantemente online) proponendo “Normcore”: una nuova categoria social per il “fraintendimento strategico” delle varietà di “esperienza” culturale che K-Hole intende de-hashtaggare per rivendicare il diritto di ogni individuo di esprimersi liberamente nei métier definiti dalla scarsità di differenza che amministra e controlla quell’esperienza. Per K-Hole, Normcore fa spazio alla sincerità perduta nella totalizzante cultura “mass indie” che organizza il gusto in armoniose scelte da consumatore, agendo da contrappunto: “Normcore capitalizza la possibilità di fraintendere come un’opportunità di connessione – non come una minaccia all’autenticità”. La scelta è dettata dalla situazione ed è sempre aperta al (rapido) cambiamento. Normcore suscita un sentimento festoso di appartenenza basato sulla non esclusività e su di un individualismo non fondato sull’isolamento tra particolari ipersensibili di scenari scontati e cricche. Come K-Hole ha dichiarato nel corso di una recente conferenza al MoMA PS1, lo si sperimenta in maniera più produttiva di notte, immersi nella “vita notturna”, tra le “economie libidiche” del nightclub/bar/party/rave.

Vagamente ottimista, Normcore intende recuperare la cultura del party come uno spazio per il gioco sincero, un gioco caratterizzato da una connessione reale – più che virtuale. K-Hole intende contrastare il “mass indie” imperante frantumando i suoi territori isolazionisti e ricostituendo i frammenti in una comunità patchwork in cui la competitività divisiva degli “scenari attuali”, orientata alla rete, è rimpiazzata dall’inclusione. Nessuna fotografia, nessun tweet, “no IRL,” piuttosto il ritorno a un reale pre-lacaniano, un reale reale de-psicologizzato da discorsi invasivi del corpo, il piacere tangibile di conoscere qualcuno, un reale utopico che non può, anzi, si rifiuta di esistere al di fuori dell’immaginario dell’emergente cultura Normcore.
Confesso di nutrire qualche perplessità di fronte al Normcore di K-Hole, anche se apprezzo la sua spinta in direzione di una partecipazione sociale teoricamente non gerarchica basata sul genuino, sincero desiderio di conoscere qualcuno di nuovo e di sentirsi “liberi di stare con chiunque”. La presa di distanze di Normcore “da una freddezza basata su di una differenziazione nel nome di una post-autenticità che opta per l’uniformità” ignora i modi in cui la differenza e l’uniformità sono definite nell’ambito dei più grandi sistemi che li autenticano. Ogni categoria, gioventù o altro, che si propone di annullare le differenze è in ultima istanza gerarchica in quanto basata per forza di cose sulla strumentalizzazione di un privilegio ottenuto facendo appello all’autorità (spesso individuo di sesso maschile, bianco) per affermare che “non c’è gerarchia”. Ma c’è sempre una struttura politica ed economica preposta a stabilire chi ha il permesso di vivere in un certo modo la gioventù e la vita notturna e con chi, muovendo e indirizzando i corpi lungo vettori specifici, condizionati da discorsi che inquadrano in primo luogo le due categorie. Quella struttura è assolutamente blindata quando nega la propria esistenza e afferma che al suo interno siete “liberi” di “sbarazzarvi” dai piaceri generalizzati. Ma per quale uniformità stiamo optando?

SELFIE DELL’ANNO

In antitesi a questa promessa di una vita notturna ritrovata, l’artista e performer Juliana Huxtable ha offerto una piattaforma unica per un significativo impegno sociale nei vari party ed eventi che ospita, incluso il suo #ShockValueNYC. Connesso ad altri party simili nell’area di lower Manhattan e di Brooklyn (soprattutto Bushwick) come WestGay, 11:11, e quelli allo Spectrum, gli eventi di Huxtable sono un open space in cui la differenza – appena accennata o esasperata, espressa nella moda o nell’identificazione sessuale o sul criterio della condotta – non si lascia domare dalla normatività onnipresente che appiattisce la vita notturna americana, piuttosto la contrasta fattivamente, animando uno spazio in cui potete incarnarvi e circolare su molteplici piattaforme offline e online. Questa vita notturna in cui si esprime liberamente la differenza, corpi alternativi, spinge a interrogarsi sul significato dell’“essere noi stessi” attraverso riferimenti visivi e sociali risalenti a trenta e passa anni fa, dalle superstar warholiane alla cultura della sala da ballo di Harlem negli anni ’80 al cyber-gotico del 2000, liberi di viaggiare nel tempo in una sorta di “atemporalità” virtuale fuori dalla gabbia dell’identità sessuale.
L’integrazione dell’Internet nell’IRL ha autorizzato una più vasta scelta e l’opportunità di citare le varietà del backlog, facendo sembrare le questioni di “autenticità” datate come suona datato il nome di K-Hole nel 2014. Il lavoro di Huxtable – e lo spazio che crea – è positivo, aperto, inclusivo e amico delle differenze. Usa hashtag come #TRANSENCOURAGED e #FULLSPECTRUMRAGE per definire questi eventi a beneficio del pubblico online. I suoi party e le performance correlate che fanno affidamento sul web come un luogo di organizzazione, promozione e archiviazione, sono proprio lo spazio positivo mitizzato da K-Hole, apparentemente impossibile da localizzare. K-Hole cerca rifugio in comunità basate su un criterio di uniformità e comfort. Huxtable osserva in un’intervista con Ana Cecilia Alvarez su topicalcream.info: “Non voglio arrivare da qualche parte e sentirmi completamente a casa. Voglio essere sorpresa dalla persona che ho di fronte – voglio che persone diverse coesistano. Il momento migliore è verso la fine della nottata, quando le persone che sono qui per divertirsi e ballare indugiano e si godono lo spazio.”(15)
Nel suo articolo, Huxtable contesta l’imperativo mascolino che detta legge ai corpi. In una poesia registrata per il Hood By Air’s New York Fashion Week show, invoca l’annichilimento della monogamia e del divorzio per fare del poliamore la base di una comunità (idealizzata). Secondo Huxtable, è l’amore il requisito fondamentale per la coesione di una comunità, non la giovinezza, ed è sempre l’amore che ci libera dal web alienante e iper-interattivo. In questa atmosfera, Huxtable eleva la differenza a principio organizzativo di una comunità che potrebbe di fatto farci tornare a un IRL liberato dalle paure della scena-y che perseguitano K-Hole. Secondo la sua diagnosi, il nostro problema risiede in una propensione alla monogamia che isola e scinde in due gli individui, reprimendo e forzando l’amore a competere con un desiderio di accoppiamento che è condannato tassativamente a morire per poter vivere. L’amore è la bussola che può condurci in territori inesplorati: “URLATO AI MIEI ANGELI URBANI IN CERCA DEL DESIDERIO POST-O-PRE-GENITALE VIA GPS”,

COME MOCCIO, MUCO, SBORRA, MERDA, SUDORE-ELEMENTI CHE UNISCONO COME BASE DELLA REALTÀ
E IL VESTIARIO COME UN’ESTENSIONE DELLA CARNE
LA MONOGAMIA È MORTA PER MANO DEL FETISH
COME IL SUO MANIFESTO NEL CARNALE MERCATO DEL DESIDERIO INCARNATO IN XTUBE E POLYVORE
L’AMORE NON È PIÙ L’AMORE DI UN SINGOLO E L’IMPEGNO È COLLASSATO COME LE SUE FRAGILI ED EMACIATE GAMBE HANNO CEDUTO SOTTO IL PESO DELL’AVVILENTE MEZZA VITA DELLA CONDIVISIONE E DEL RE-BLOG COME RE-IFICAZIONE, SFUGGENDO ALL’INTRAPPOLAMENTO IN UN ULTRA SPECIALIZZATO E SPECIFICO ANGOLO DELLA MATRICE ESTETICA
LA MONOGAMIA È MORTA PER MANO DEL POLIAMORE
UN’ESTENSIONE DELL’AMORE DI UNO PER MOLTI CONTEMPORANEAMENTE
SI DIVIDE IL TEMPO TRA L’ABBIGLIAMENTO DELL’OPERAIO IN FABBRICA, L’‘URBANWEAR’ SCONTATO, L’OUTERWEAR E LE CALZATURE MILITARI DI SECONDA MANO NEL TEMPO LIBERO
LA MONOGAMIA È MORTA PER MANO DELLA MONOGAMIA SERIALE
[…]
LA MONOGAMIA È PROPRIO MORTA E SI È REINCARNATA – SALDO AMORE SINGOLARE PER LA MUTABILITÀ E PER IL CONTINUO MUTARE FORMA A-LA IL CYBORG COME AMANTE. DECADIMENTO E RINASCITA COSTANTI. ALCUNI PEZZI SONO PERMANENTI, ALTRI EFFIMERI, DIGRADANDO CONTRO L’ORIZZONTE DELL’APERTURA (16)

Decadimento, rinascita: si rinforza l’obsolescenza del corpo che gli conferisce nuovamente il privilegio di piattaforma superiore di mediazione del sociale. Il decadimento conferisce significato alle cose: il tu-IRL obsolescente, non il tu-online che si replica all’infinito. Se la condizione del mondo, infatti, è il Post-Internet, e se dobbiamo continuare a credere nel suo potenziale liberatorio, che sia la libertà di espandere uno scenario sociale isolato in una delle città del mondo unite sotto il vessillo dell’arte e del party, o che sia la libertà di organizzare una protesta che rovesci un governo, è tempo di volgere lo sguardo verso quell’orizzonte di apertura, ed è tempo di forzare le sue alternative omogeneizzanti ad arretrare e a diminuire mano a mano che ci avviciniamo.

(1) Si ringrazia il designer dell’App James La Marre per il materiale.

(2) Olson, Marisa, “Interview with Marisa Olson”, We Make Money Not Art. 28 marzo 2008, < http://we-make-money-not-art.com/archives/2008/03/how-does-one-become-marisa.php#.UyY6S_l5NhE >

(3) Lonergan, Gutherie, “Interview with Guthrie Lonergan”, Rhizome, 26 marzo 2008.

(4) Lo scrittore Gene McHugh ha seguito l’evoluzione della Post-Internet art sul suo blog 122909a.com, successivamente pubblicato su Lulu come “Post-Internet”. Cfr. anche il saggio di Brad Troemel e Artie Vierkant.

(5) Chan, Jennifer, “Some Notes on Post-Internet”, You Are Here, a cura di Omar Kholeif, Londra, Cornerhouse, 2014.

(6) In “The Image Object Post-Internet,” Vierkant attribuisce al Post-Internet il tratto saliente della “sincerità” nella sua prassi traduttiva. Nel saggio “The Accidental Audience”, Brad Troemel ha illustrato la natura “democratica” di Tumblr e di simili piattaforme.

(7) Troemel, Brad, “The Accidental Audience”, The New Inquiry, 23 marzo 2013.

(8) Cornell, Lauren e Halter, Ed, “Mass Effect”, Mousse, n. 41. < http://moussemagazine.it/articolo.mm?lang=it&id=1054>

(9) Ibid.

(10) Troemel, Brad, “Athletic Aesthetics”, The New Inquiry, 10 maggio 2013.

(11) Altre immagini in questa vena conservatrice replicano la struttura diagrammatica, inserendo immagini prive di senso tratte da fumetti, o altre immagini tratte a caso dagli altri memi.

(12) Funcke, Bettina, Pop or Populus, Berlino, Sternberg Press, 2009.

(13) Blaser, Robin, “The Practice of Outside”, The Fire: Collected Essays, Berkeley, University of California Press, 2006.

(14) K-Hole e Box 1824, “Youth Mode”, 2013,

(15) Alvarez, Ana Cecilia. “Juliana Huxtable #Shockvaluenyc”, Topical Cream, 2013.

(16) Huxtable, Juliana, “SHOUT OUT TO MY URBAN ANGELS SEARCHING FOR POST-OR-PRE-GENITAL DESIRE VIA GPS”, 10 febbraio 2014. http://julianahuxtable.tumblr. com/post/76261782220/a-portion- text-from-the-vocals-i-did-for-the- hood-by