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Nero Anno 9 Numero 27 autunno 2011



Compassion for the ephemeral. Seven description and four objects

Vincenzo Latronico



free magazine


SOMMARIO N. 27

Cover by Todd Hido
Special Project by Oliver Payne

MARMELLATE

COMPASSION FOR THE EPHEMERAL
SEVEN DESCRIPTIONS AND FOUR OBJECTS


“OR MAYBE IT’S SOMETHING COMPLETELY DIFFERENT”: FRANK CHU AND THE 12 GALAXIES

WHY I AM THE AUTHOR OF SOUND POETRY AND FREE POETRY

MARIO AIRÒ

THE UNTROUBLED MIND

AROUND FOUR OR MORE CORNERS OR CORNER PIECES…

LIVES HERE

WACKY RACE

WORKS THAT COULD BE MINE & WORKS THAT I WOULD LIKE TO BE MINE

TROVATELLI

ARTIST PROJECTS

OLIVER PAYNE

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images by Herbert Tobias
The Berlin Party is over
Berlin , 1961

images by Herbert Tobias
The Berlin Party is over
Berlin , 1961

images by Herbert Tobias
The Berlin Party is over
Berlin , 1961

Questo potrebbe essere l’articolo più breve che io abbia mai scritto. L’idea di partenza rappresenta, credo, uno dei grandi incubi di chi per mestiere scrive – un po’ come l’incubo del protagonista di Jesus Christ Superstar, che non ha mai fatto miracoli, si concretizza quando un Erode modellato su Flavio Briatore gli intima, “Su, dimostrami che hai i poteri che dici: cammina sulle acque della mia piscina”. Il mio incubo, naturalmente, è che mi chiedano di descrivere qualcosa.

In questo caso si tratta di quattro immagini, che accompagnano questo pezzo, e che, per sfida o per necessità o per via di una pericolosissima sopravvalutazione della scrittura stessa mi è stato chiesto di descrivere: così, senza saperne nulla prima. L’idea, credo, era proprio quella di verificare la capacità di “presa” della scrittura: le sue potenzialità come strumento di definizione del visivo, una fotografia della fotografia, per qualche senso del termine. La prima volta che questo articolo mi è stato proposto ho rifiutato, adducendo una serie di impegni; poi ho avuto più tempo per pensarci, e ho cambiato idea. Una delle cose che ho pensato è stata, appunto, che questo potrebbe essere l’articolo più breve che io abbia mai scritto, perché in fondo potrebbe iniziare, e finire, così:

(1)Quattro fotografie.

Questa è una provocazione. Nessuno la considererebbe una descrizione appropriata. Eppure, potremmo dirci, cosa ha (1) che non va? Non è una descrizione di queste immagini? Certo che lo è: solo che è una descrizione priva di contenuto informativo. Posso provare di nuovo.

(2)Quattro fotografie in bianco e nero raffiguranti un uomo sulla trentina.

Neppure questa è una descrizione adeguata. C’è però una differenza notevole rispetto al tentativo precedente: al contrario di (1), (2) ha un contenuto informativo: e cioè, (2) permette di riconoscere il proprio oggetto a chi lo legge. Non in generale, certo, non fra tutte le possibili serie di fotografie in bianco e nero: ma – probabilmente – fra tutte quelle pubblicate in questo numero di Nero. “Qual è il tuo articolo?” “Quello che accompagna quattro fotografie in bianco e nero raffiguranti un uomo sulla trentina.”

Si tratta di una descrizione insufficiente: se non altro, perché il senso dell’articolo dovrebbe essere di distinguere queste fotografie dalle altre che avrebbero potuto essere al loro posto, non da quelle che sono già altrove. Ma la differenza rispetto a (1) indica, forse, la caratteristica più inspiegabile e l’aspirazione dell’idea stessa di descrivere un’immagine, il suo senso e il suo scopo impossibile: l’individuazione. O, almeno, il suo senso per noi: non è sempre stato così.

*

Non è sempre stato così. Leggendo il Decameron, ad esempio, si è colpiti dalla povertà e dalla trascuratezza delle descrizioni di Boccaccio (un discorso simile, forse più eretico, si potrebbe fare su quelle di Cervantes). Un personaggio, un ambiente, sono risolti in genere con qualche aggettivo formulare; che l’azione si svolga a Napoli o a Venezia, l’autore sembra contentarsi di un richiamo vago alla città e al contesto sociale, e lascia al lettore il compito di immaginarsi il resto, traendo spunto, si suppone, dalla sua fantasia o dalle sue conoscenze. Non sono descrizioni per riconoscere, ma per immaginare: non forniscono nuove informazioni al lettore, ma servono a “tirare fuori”, per dir così, quelle che conosce già. Lo stesso, benché forse con una carica poetica maggiore, vale della descrizione così come viene usata nel racconto epico (l’esempio, ovviamente, è da Omero, ma lo stesso vale dell’epica ferrarese): se ti dico che l’aurora ha le dita rosate, non è certo per permetterti di distinguere l’aurora di cui parlo da un altro tipo d’aurora, come quella che ha invece le dita grigie, o che le tiene nascoste in guanti di velluto, o che ha perso ambo gli arti superiori in un incidente di motocicletta: è per ricordarti come è fatta l’aurora e aiutarti a immaginarla. Ad esempio:

(3)Quattro fotografie in bianco e nero raffiguranti un uomo sulla trentina. Hanno qualcosa dell'autoscatto, ma non se ne può essere certi; i tre ritratti potrebbero essere del secondo dopoguerra. Due delle immagini sono chiaramente preparate, ma anche le altre mostrano una composizione curata. Paiono languide, molto malinconiche.

Questa descrizione, benché molto più ricca di (2), non dice praticamente niente. Non è una descrizione di quello che vedo, ma di quello che so (o credo di sapere) a proposito di quello che vedo: in quanto tale, funziona soltanto se anche chi la legge sa quello che dico di sapere circa queste fotografie (e riesce a immaginare un ritratto languido del dopoguerra). Neppure questa è una descrizione adatta.

*

La letteratura barocca è nota per il suo fervore descrittivo, e ne ha sviluppato un genere proprio. Le descrizioni barocche sono dettagliatissime, sì, ma lo sono in un modo particolare, finalizzato alla ricerca dell’agudeza: lo stupore. Il loro scopo non è informare, ma meravigliare: non vogliono aiutarti a riconoscere qualcosa, ma anzi stupirti dell’ingegnosità con cui riescono a caratterizzare in maniera nuova qualcosa che conosci benissimo. Più che alla fotografia, le descrizioni barocche assomigliano all’indovinello: a un indovinello di cui conosci già la soluzione ma di cui ti diverti a ricostruire i passaggi, come i cruciverba con la risposta dietro. Ciro di Pers, un poeta marinista meritatamente noto per un’unica composizione dedicata agli orologi, si contenta, per descriverne il funzionamento, di osservare che hanno “scritto di fuor con fosche note / per chi legger le sa: sempre si muore.”

Difficilmente possiamo immaginare qualcuno che scopra qualcosa a proposito degli orologi leggendo questa descrizione: ciò che scopre è piuttosto un modo per descrivere gli orologi a cui non aveva pensato prima, un collegamento inaspettato fra l’idea di orologio e un’altra idea (nella chiusa dello stesso sonetto, Ciro si spingerà a fare il parallelismo fra il ticchettio del meccanismo e una mano che bussa, perché si apra, alla tomba). La descrizione barocca parla quindi essenzialmente di se stessa; e che cosa dice, di se stessa? Dice: “Guarda, mamma, senza mani!”.

(4)Scopami adesso, prima che la tisi mi si porti via.

Occorrerà provare ancora.

*

Nell’Ottocento, Honoré de Balzac apre Le illusioni perdute con una decina di pagine di descrizione della cittadina francese di Angoulême, e del funzionamento delle stamperie artigianali all’alba del secolo decimo nono. Un lettore attento e paziente sarebbe in grado, da quell’incipit, quasi di disegnare la pianta della città, collocarvi la stamperia su cui si incentra la prima parte della trama, ricostruire l’atmosfera che si respirava e lo stile architettonico dominante. Di più: se posto di fronte a una serie di topografie francesi dell’epoca, sarebbe in grado, senza errore, di riconoscere fra esse quale è quella di Angoulême. Questo, il riconoscere, è il segno distintivo del tipo di descrizione che ci interessa (è il segno, potremmo dire, che ci permette di riconoscerla fra altri tipi di descrizioni – ha!): è la descrizione a carattere informativo, misteriosamente nata dopo il barocco e prima dell’industria pesante.

Cosa è successo fra Ciro e Balzac? È esplosa la letteratura di viaggio: le memorie di tutta una schiera di signorine e signorini beneducati, che davano alle stampe i diari dei loro giri in Italia o in Grecia per l’istruzione, il beneficio e l’invidia dei loro coetanei di tutt’Europa. Scopo ideale di questi testi era quello di fare da guide per chi avesse intrapreso il tour dopo la loro lettura: dovevano quindi “dipingere a parole” (proprio così!) i paesaggi di cui trattavano, con una precisione sufficiente a fare sì che il lettore li riconoscesse una volta arrivato al punto giusto. Eccole lì, le descrizioni informative. Come questa, forse:

(5.a) Un ritratto in bianco e nero di un uomo sulla trentina, dai tratti marcati ma con qualcosa di femminile; occhi e capelli paiono chiari. L'uomo è raffigurato disteso supino, obliquamente rispetto alla cornice, su un tessuto a piccoli scacchi chiari e scuri. Ha i capelli bagnati, e alcune gocce d'acqua gli scorrono dagli zigomi lungo le guance, rese scintillanti da una luce piuttosto forte che proviene dall'angolo superiore sinistro dell'immagine e accende di riflessi gli occhi del soggetto. Sotto la sua testa, e intorno ad essa, delle foglie molto scure e schiacciate dall'umidità punteggiano la coperta, come a comporre una specie di corona d'alloro.

Forse siamo sulla buona strada.

*

Questa descrizione permette di riconoscere la fotografia? Si direbbe di sì – ma ne siamo proprio sicuri? Di certo non è completa: non si parla, ad esempio, della maglia scura col collo a barchetta che si indovina indosso al modello, né delle foglie che paiono cadere al momento dello scatto, né di quell’inspiegabile angolino nero in alto a destra. Se ci fossero quindi due foto – identiche in tutto, tranne per il fatto che il modello, nell’altra, indossa una camicia di lino – questa descrizione non ci permetterebbe di capire di quale delle due sta parlando. Proviamo a fare di meglio:

(5.b) Un primo piano scattato attraverso i rettangoli di una finestra dagli infissi di legno chiaro. Quello centrale sul lato sinistro incornicia il volto del soggetto, ed è l’unico che la foto racchiude interamente; della fila inferiore su coglie forse un terzo in altezza, quella superiore è appena accennata, per uno spessore pari ai pochi centimetri dell’infisso stesso, che è isolato da una guarnizione biancastra che appare screpolata, a tratti, a tratti addirittura assente. Il vetro è cosparso di gocce d’acqua, che risplendono nell’illuminazione incrociata da una fonte esterna (idealmente a sinistra di chi guarda l’immagine) e una interna, una lampada da tavolo che si scorge alle spalle del modello, in fondo a destra. L’uomo guarda in macchina con un’espressione forse languida, forse severa, il volto tagliato da una lama d’ombra che lo attraversa verticalmente appena al termine esterno dell’occhio sinistro; in questa luce il naso appare pronunciato, le labbra carnose, la mascella quadrata come incassata nell’incavo della spalla – l’uomo è di profilo, in realtà, ma gira la testa a guardare chi guarda – in un gesto che potrebbe sembrare di distacco ma anche di autodifesa. I suoi capelli, non più corti ma quasi, sono ariosi, paiono lavati di fresco, e spettinati lungo una scriminatura centrale che li divide in due cascate disordinate agli estremi della fronte. Su un piano focale immediatamente anteriore al suo volto si coglie la punta di un arbusto o una pianta d’appartamento, che si trova a di là della finestra, nell’angolo inferiore sinistro della cornice, e che suggerisce un movimento diagonale pianta-volto-incrocio dell’infisso al centro del margine superiore della foto, simmetrico alla diagonale discendente che dallo stesso punto traccia, sullo sfondo, quello che pare un cavo elettrico, e che appare quasi una tangente del globo della lampada su un comò, in fondo a destra. Ma a guardare meglio questa potrebbe essere uno specchio, uno specchio tondo puntato verso la sinistra – e che quindi riflette la luce esterna – e che è attraversato dalla fascia nera del traversino superiore della finestra stessa, o di un’altra finestra, dato che in esso a parte questa striscia non si vede nulla. Anche in questo caso, l'angolo superiore destro è scuro.

(5.b) è forse quanto di più particolareggiato riuscissi a scrivere – ma non è vero: non ho nominato, ad esempio, quella struttura verticale sul margine destro della foto, che a vederla al computer sembra una seggiola pieghevole, né l’ombra diagonale del traversino sul bicipite destro del modello, né il taglio di luce sul suo orecchio, né il fatto che l’angolo scuro in alto a destra (anche qui!) sembra un lembo di tenda. Ma cosa fornisce (5.b) in più di (5.a)? Dei dettagli, si può dire: ma si possono quantificare, i dettagli? Si contano, e si vede quale descrizione ne ha di più? Non è detto che la sua ricchezza faccia di questa descrizione un migliore strumento per riconoscere il proprio oggetto.

Possiamo, ad esempio, immaginare di costruire una foto molto simile a questa – una foto che rispetti tutti i dettagli inclusi nella descrizione – ma che sia, al contempo, un’altra foto (ad esempio, una foto in cui l’angolo scuro in alto a destra è dovuto a un errore di sviluppo). In questo caso, (5.b) sarebbe una descrizione insufficiente, perché fra due immagini – quella con la tenda, e quella con l’errore – non ci permetterebbe di distinguere quella che è davvero il suo oggetto. Naturalmente, potremmo ipotizzare una situazione simile per qualunque descrizione possibile: potremmo sempre costruire una foto identica, tranne che per un particolare non descritto, tale da confondere chi volesse risalire, dalle parole, all’immagine. Ogni descrizione sarebbe insufficiente.

*

Il filosofo Bertrand Russell era stato affascinato da questo problema delle descrizioni: che non riescono a “fissare” univocamente il proprio riferimento, eppure sembrano avere senso solo nella misura in cui riescono a farlo. Possiamo “passare” da un oggetto a un testo (descrivendolo), ma il passaggio inverso è sempre problematico, legato alla contingenza: se le alternative che abbiamo (la foto con l’errore vs. la foto con la tenda) non ce lo consentono, non riusciremo mai a capire quale, di vari oggetti, è quello descritto dal nostro testo – eppure è nato da lì! Russell analizza descrizioni come questa:

(6) La foto dell'uomo che guarda in alto, specchiandosi nel vetro di una finestra.

A prima vista, (6) sembra molto meno dettagliata di (5.b). In realtà, però, esattamente come le altre, la sua capacità di descrivere il proprio oggetto dipende unicamente da quali altri oggetti sono “in lizza” per essere caratterizzati da essa. Se fra le nostre scelte ci saranno, ad esempio, foto di animali, non avremo problemi a capire di cosa stiamo parlando. Se ci saranno altre foto specchiate di uomini che guardano in alto, invece, la descrizione sarà insufficiente. Se la descrizione è un’etichetta, a renderla efficace non sarà cosa c’è scritto sull’etichetta, ma quali altri prodotti sono sullo scaffale di fronte a noi: a definire la descrizione è quindi essenzialmente qualcosa che con il testo non ha nulla a che fare.

Il problema è poi acuito, notava Russell, dal fatto che una descrizione presuppone sempre l’unicità del proprio oggetto: l’incapacità a caratterizzare univocamente non è quindi un fastidio, ma un problema cruciale: un problema di senso. Se mi trovo a una festa in cui tutti indossano smoking e bevono champagne, e la mia accompagnatrice mi confessa “Sono innamorata dell’uomo in smoking che beve champagne”, lei mi sta dicendo una frase priva di senso (o giocando con la reticenza a dirmi qualcosa di più): perché, letteralmente, è una frase che mi impedisce di capire di cosa sta parlando. Non posso decidere quale oggetto è caratterizzato dalla sua descrizione, benché questa presupponga, in quanto descrizione, che io possa farlo. È un po’ come (1): una descrizione vuota di informazioni, o troppo piena di oggetti.

Questo, di nuovo, dipende solo dalla natura della situazione, non dalla descrizione in sé: in altre feste (informali, in cui solo una persona è venuta in smoking, magari perché fa il direttore d’orchestra) la frase sarebbe stata perfettamente appropriata. Paradossalmente, in un giornale di solo testo, in cui le uniche foto fossero queste, (1) sarebbe una descrizione efficacissima: mentre, in un giornale con le due varianti della foto di (5.b) – quella con la tenda, e quella senza – (5.b), benché in apparenza dettagliatissima, non lo sarebbe affatto. Quale è la descrizione migliore? Quella che fa ricordare (come l’aurora rosata), quella che fa ricostruire (come l’orologio), quella che fa riconoscere (con o senza tenda)? Sì, ma quale fa riconoscere?

*

Il filosofo Hilary Putnam, rispondendo a Russell, ha sostenuto che le uniche descrizioni efficaci sono quelle che vincolano il proprio contesto con un gesto extra-linguistico: quelle, cioè, che non si affidano alle parole, per identificare il proprio oggetto: perché le descrizioni di parole, come abbiamo visto, non funzionano. Nella festa di cui sopra, il modo migliore dell’accompagnatrice per farmi capire di chi era innamorata sarebbe stato non parlare, ed indicarmelo (magari di nascosto, per evitare imbarazzi). Nel caso dell’ultima di queste quattro fotografie, avrei potuto, certo, parlare di rami, di muretti, di torso nudo e di palloncini: ma sarebbe stato inutile, o potenzialmente inutile, o laborioso e vano. Se fossi stato a sentire Putnam, invece, avrei probabilmente ottenuto una descrizione precisissima – vincolata necessariamente al proprio oggetto, al di là di ogni dettaglio: e questo sarebbe stato, di nuovo, l’articolo più breve che io abbia mai scritto. L’articolo, ovviamente, sarebbe iniziato e finito così:

(7) Questa fotografia.


Vincenzo Latronico (1984) è uno scrittore italiano. Ha pubblicato due romanzi, vari racconti brevi, un’opera teatrale e diversi testi sull’arte. Collabora con varie riviste internazionali ed ha tradotto in italiano alcuni importanti autori ed artisti stranieri (tra cui P. G. Wodehouse, Markus Miessen, Maxence Fermine, Seth Price e Daniel Spoerri)