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MU6 Anno 8 Numero 29 ottobre-dicembre 2013



Giacomo Costa

Nicla Cassino

Alberi come palazzi e città decadenti come metafora dell’uomo moderno che distrugge le città in cui vive. Intervista a Giacomo Costa, artista immaginifico che rielabora visioni architettoniche sullo sfondo della sostenibilità ambientale



arte – cultura – impresa – paesaggio – territorio


SOMMARIO N. 29

Editoriale, Numero Civico, di Germana Galli

Il Personaggio, Dante Marianacci. Un poeta al servizio dello Stato, di Germana Galli

L’Opinione, Fabrizio Marinelli. Le proprietà collettive e l’utile bellezza, di Filippo Tronca

L’artista, Giacomo Costa, di Nicla Cassino

Eventi, Acqua, diritto-dovere pubblico. Tra bene comune o bene demaniale, il costo rimane ineludibile, di Maria Mazzei

Usi Civici, Il Bosco di S. Antonio. Nuovi Modelli di Economia sostenibile, di Giovanni Di Bartolomeo

Usi Civici, La carta degli usi civici, di Filippo Tronca

Musei Civici, Musei locali quale futuro? Il Museo al nostro servizio, di Antonella Muzi

Archeologia, Il letto in osso della tomba 4 di Navelli. Espressione artistica e abilità tecnica in un capolavoro dei vestini, di Vincenzo d’Ercole e Alberta Martellone

Editoria, Le messe in sicurezza all’Aquila a disposizione di tutti

6-, Il vuoto segue il fiasco, di Massimiliano Scuderi

Percorsi Antropici, Musei di pietra, di Edoardo Micati

Architettura, La forma della memoria, di Raffaele Giannantonio

Community Project, L’artista, il cittadino, la comunità, di Paola Mulas

Cultura e Impresa, William Zonfa
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Fusione n. 1, 2007

Plant n. 2, 2012

Nicla Cassino: Norman Foster, nell’introduzione al tuo libro “The Chronicles of Time”, definisce le tue visioni apocalittiche come “rovine di una civiltà perduta, che potrebbe essere la nostra […] ci ricordano soprattutto la fragilità del nostro mondo artefatto”.
Quale aspetto della nostra società pensi si stia deteriorando con maggiore velocità? La materia, lo spazio o quello che essi custodiscono?

Giacomo Costa: Quello che negli anni della crescita esponenziale non è cresciuto in maniera proporzionale è l’attenzione alla sostenibilità dell’agire umano. Il fatto di essere parte integrante di un sistema complesso, il cui equilibrio è fondamentale per la sussistenza del sistema stesso, non è stato preso in considerazione sin dall’inizio ed il gap che adesso si è determinato tra l’aspettativa della qualità della vita ed il realismo di poterla garantire, non è più facilmente recuperabile.
La materia e lo spazio, osservati nell’unità di tempo, sono i limiti fisici del mondo nel quale è custodita ogni forma di vita compresa la nostra e la cui esistenza è sempre più minacciata.

NC: I tuoi lavori, salvo alcune eccezioni dei primi anni, non presentano visivamente la figura umana. In che modo l’assenza fisica dell’uomo si relaziona alle città abbandonate che egli stesso ha costruito?
GC: Fin dall’inizio della mia ricerca artistica, ho individuato nella città la metafora perfetta per rappresentare l’uomo mentre con la natura ho sempre simboleggiato tutto ciò che sfugge al nostro diretto controllo e che segue altre logiche. Nelle mie città non c’è l’uomo perché è la città a rappresentare l’uomo e i suoi comportamenti. Spesso ciò che fa l’uomo (e le città lo mostrano perfettamente) finisce per non essere più sostenibile e le città, per questa ragione, sovente non sono ospitali per gli stessi loro abitanti.

NC: Per Giacomo Costa, appassionato di natura e alpinismo, cosa insegna la montagna alla città e cosa le due hanno in comune? Che differenza c’è tra un bosco fitto di alberi e una città fitta di costruito?
GC: La mia esperienza in montagna è stata all’origine della mia ricerca. Lì ho scoperto come l’uomo con il suo antropocentrismo cerchi di sottrarsi alle regole della natura, quasi esistessero delle leggi speciali che valgono solo per noi. Pertanto si dovrebbe dire che la montagna e la città abbiano tutto in comune perché l’ambiente naturale contiene la città. Potrei quindi affermare che non esista nessuna differenza tra un albero e un palazzo. Se così fosse, se si seguissero le leggi della natura per regolare anche il nostro agire, non saremmo a pochi passi dalla catastrofe e vivremmo in armonia con l’ambiente che ci contiene.

NC: La città è il luogo prediletto dell’uomo, la sua maggior impresa, ma forse anche la sua maggiore debolezza. Quando l’uomo diventa pericoloso per la città e quando invece accade il contrario? Quando la figura umana è annientata dallo spazio urbanizzato?
GC: Come dicevo, la città è la rappresentazione plastica di come l’uomo concepisca il suo vivere sociale, è l’abito che fa il monaco. Se si osserva una città rinascimentale, si capisce come in quel periodo si concepiva la relazione tra gli individui e quindi qual era l’idea di uomo, se si studia una periferia italiana degli anni del boom industriale, si comprende come si pensava dovesse essere lo sviluppo e il benessere. Guardando una megalopoli asiatica o una favela brasiliana, possiamo capire quale sia il valore dell’uomo e della vita in quei luoghi, in quelle culture e in questi tempi.
Uomo e città sono due lati della stessa medaglia, la domanda dunque diventa: quando l’uomo diventa pericoloso per se stesso?
La risposta è ogni qual volta crede di potersi esimere dal rispettare la natura.

NC: C’è una città reale che, secondo il tuo parere, si sta muovendo verso uno sviluppo responsabile e sostenibile? Una sorta di best practice che sia un esempio reale per tutte le altre città?
GC: Purtroppo non spetta all’amministrazione di una singola città il compito di cambiare le regole dello sviluppo e della modernità. Tante sono le città che cercano di tamponare paradossi e pratiche folli e scellerate... ma sono solo palliativi. Viviamo in un periodo storico in cui la nostra cultura si incentra sull’ipocrisia del benessere a tutti i costi mitigato da interventi di facciata atti a farci credere che si possano compensare i disastri che facciamo con dei nobili gesti. Quel che serve è una cultura alternativa diffusa, un’idea di futuro che segua nuove sensibilità necessarie per garantire crescita e salvaguardia dell’ambiente che sono le basi per poter immaginare il futuro stesso (almeno con noi come specie non estinta).

NC: Tematiche come inquinamento, sfruttamento delle risorse naturali e speculazione sono al centro della tua ricerca. Pensi che le tue opere comunichino rassegnazione o che inducano il pubblico a una reale riflessione sugli spazi che viviamo?
GC: Il mio occhio si pone l'obiettivo di rappresentare al meglio un insieme di sensazioni e di riflessioni che sono la diretta conseguenza della maniera in cui stiamo affrontando lo sviluppo e la crescita della nostra civiltà. Il mio punto di partenza concettuale passa attraverso la rappresentazione estetica che, in ultima istanza, è ciò che deve emergere nelle mie immagini. Il sentimento prevalente è una sensazione di orrifico, una fascinazione per la tragedia della quale l'uomo è il principale attore. La riflessione che le mie opere suscitano spetta al singolo spettatore.
Non nascondo che la speranza sia quella di indurre una riflessione critica, ma in ultima istanza è la sensibilità individuale che deve interpretare i miei messaggi e possibilmente tradursi in un agire virtuoso.