AI MAGAZINE Anno 8 Numero 67 autunno 2014
Intervista
Ignacio Maria Coccia, fotoreporter dal 2000, spagnolo di nascita ma italiano di adozione.
Il suo curriculum vanta una collaborazione con Grazia Neri, la prima agenzia fotografica italiana, e numerose pubblicazioni ed esposizioni personali. Reportage dall’Ucraina, dalla Polonia e dai Balcani: zone accomunate dalla presenza di guerre e soprattutto dai cambiamenti che queste comportano; Ignacio Coccia ha saputo trasmettere nei suoi scatti le trasformazioni di questi Paesi attraverso la quotidianità e le tradizioni di quelle popolazioni.
Non solo guerra però: i progetti di IMC comprendono anche Ascoli Piceno (Italia), sua città adottiva; un minuzioso reportage sul palio di Ascoli e uno sui monumenti ascolani e i paesaggi dell’alta valle del Tronto.
«Come nasce la sua passione per la fotografia di reportage e come vive la sua professione in questo periodo di crisi che ha investito tutto il mondo della cultura?»
Ignacio Maria Coccia: «La mia passione per il reportage è nata nel 1998, anno in cui ho frequentato l’Istituto Europeo di Design a Roma. Fu durante alcuni incontri tenuti dal fotografo Francesco Zizola, nei quali ci mostrò il lavoro “Ruas”, che decisi di orientare tutto il mio lavoro sul fotogiornalismo. La fotografia è la mia passione ma è anche il mio lavoro e in questo momento storico di profonda crisi, diventa molto difficile vivere solo di questo. Personalmente sono alcuni anni che porto avanti il mio lavoro con lo sviluppo e la realizzazione di progetti personali, quasi tutti a medio termine, che vedono quasi sempre la luce grazie a sponsorizzazione di enti privati.
Proprio in questi giorni sta per vedere la luce il progetto “Verde Cortina”, realizzato insieme al giornalista Matteo Tacconi: un viaggio dal punto più a nord, Lubecca (Germania), a quello più a sud, Trieste (Italia), della ‘cortina di ferro’, ripercorrendo il crinale che al tempo della Guerra fredda tagliava in due l’Europa separando l’Ovest dall’Est».
«Nei suoi progetti ha affrontato tematiche molto diverse: da Paesi come l’Ucraina e il Kosovo, al Palio di Ascoli Piceno (solo per citarne alcuni). Come sceglie i luoghi e i soggetti per i suoi progetti?»
«Qualsiasi progetto che vado ad affrontare lo faccio perché mi deve principalmente appassionare. È cosi per tutti i lavori che faccio. In Ucraina ci sono andato nel 2004, proprio durante la rivoluzione arancione perché volevo documentare il cambiamento di un Paese, il legame tra la tradizione e l’innovazione; idem per il Kosovo, dove sono stato nel 2007 poco prima della dichiarazione di Indipendenza Unilaterale. La scelta è stata quella di raccontare una realtà in transizione attraverso la vita quotidiana delle persone.
Il lavoro sul Palio di Ascoli bolliva in pentola da molti anni ma non ero mai riuscito a dedicargli il tempo giusto per poter raccontare al meglio questa bellissima rievocazione storica, che ogni anno porta in città migliaia di turisti. A questo progetto ho dedicato quasi un anno intero. Non esisteva fino ad oggi un volume che raccontasse in modo cosi dettagliato e profondo tutta la magia che si cela dietro questo evento; con “Assalto al moro, il Palio di Ascoli” ho cercato di farlo. È un regalo che ho voluto fare alla mia città».
«Bianco e nero o colore: è una scelta precedente all’inizio del progetto, in itinere o presa in post produzione? E Secondo lei quanto incide questa scelta sul progetto stesso?»
«Di solito scelgo sempre all’inizio del progetto se utilizzare il colore o il bianco e nero. Assolutamente incide questa scelta sul progetto stesso, eccome!»
«Le sue fotografie sono un racconto di quotidianità: come è stato calarsi in culture e tradizioni diverse tra loro? Ci racconti la sua esperienza o dei momenti particolari che ha vissuto durante i reportage».
«Sono sempre esperienze magnifiche quelle che vivo ogni qualvolta visito Paesi con culture e tradizioni molto diverse dalle nostre. Ho catalizzato il mio interesse soprattutto per i paesi dell’est, in particolare per i Balcani, ed ho imparato un po’ alla volta ad essere rispettoso delle loro tradizioni, ma soprattutto a condividerle con loro. Per portare a casa un buon lavoro, personalmente, credo che sia solo partecipando attivamente alla loro vita quotidiana che le persone imparino a fidarsi di te e ti aprano le porte».
«Osservando le fotografie sembra che si sia creato, a volte, un rapporto tra fotografo e soggetti fotografati, è così? Come reagivano le persone di fronte all’obiettivo?»
«Come spiegavo nella precedente risposta, per riuscire a creare il famoso rapporto tra fotografo e soggetto, bisogna assolutamente essere in grado di vivere come loro e con loro. Capire quando puoi chiedere certe cose che vuoi fotografare e avere molta pazienza nel caso in cui tardino ad arrivare. La fretta non paga affatto, anzi, pregiudica tutto il lavoro. Ogni persona reagisce in maniera molto diversa davanti all’obiettivo, dipende da tanti fattori. Mi è capitato ad esempio di non avere nessun problema nel fotografare una persona in un determinato contesto, ma di averne, e tanti di problemi, fotografandolo in una situazione diversa, nella quale in quel momento il soggetto non aveva voglia di essere fotografato. In quell’occasione dobbiamo solo fare un passo indietro, rispettare la volontà del soggetto ed aspettare che magari sia proprio lui ad invitarti, in un secondo momento, a riprendere il lavoro».
«Quali sono i suoi progetti futuri?»
«Un lavoro sul mare Adriatico. È un progetto in fase embrionale, ma posso solo dirvi che il mio compagno di viaggio sarà sempre il giornalista, nonché caro amico, Matteo Tacconi».