AI MAGAZINE Anno 9 Numero 71 fall 2015
Landscape of memory
“Vorrei avere un corpo riflettente che rispecchi i paesaggi che vedo, che mi circondano, che mi sento addosso. Il paesaggio è ciò che assorbo, è ciò che sono.”
Dal liceo artistico in Albania alla fuga verso Bologna e la laurea all’accademia di belle arti in scultura. La necessità di maneggiare materia diversa: marmo, ceramica, ferro, nidi d’uccello, aculei di porcospino, scatole di pillole svuotate del contenuto.
“Il paesaggio è azione, il paesaggio siamo noi questa sera che parliamo, sono le persone al tavolo a fianco che ci stanno guardando.”
La necessità di maneggiare la carta, la necessità del disegno che si trasforma quasi sempre in scultura, la necessità dell’incisione che si fa bassorilievo, la necessità del collage che diventa accumulo di ritrovamenti più o meno casuali.
“Io compongo il mio paesaggio come se dovessi costruire una natura morta.”
È ormai da qualche anno che seguo il lavoro di Erjon Nazeraj ed è da qualche anno che in quasi tutte le nostre chiacchierate ci chiediamo sempre le medesime cose, ricadiamo sempre sulle stesse domande, sugli stessi errori (pochi si possono permettere il lusso di farlo, solo chi considera il pensiero azione).
“Dovrei prendere una strada precisa, riconoscibile, non dovrei girare intorno al problema e guardarlo da mille sfaccettature, dovrei prenderlo di petto, guardarlo da una sola direzione. Un solo materiale, una sola tecnica, una sola idea.” (libera elaborazione di troppe discussioni difficilmente riassumibili).
Quando ha iniziato, ormai due anni fa, a parlarmi dell’idea di affrontare il paesaggio come forma reale ma, soprattutto, utopica, è continuata, quasi senza alcuna soluzione di continuità, la stessa medesima interrogazione sulla necessità di trovare una direzione attraverso cui risolvere il problema. Ma qual’era il problema? Il paesaggio stesso. E quindi?
“Il paesaggio per me è tutto, uno stato d’animo, una fabbrica, un’architettura, un strada, quello che ci ricordiamo di una città.”
Nemmeno questa volta era possibile una sintesi, nemmeno questa volta il problema poteva essere affrontato da una sola prospettiva, ma bisognava circondarlo, accerchiarlo come fosse qualcosa sotto assedio, preso per sfinimento. Anche questa volta una necessaria esplosione, che nel caso di Nazeraj significa utilizzo di strumenti differenti, di tecniche, di materia diversa, dalla pietra alla carta. E quindi una successione di opere che dalla scultura passano alla superficie bidimensionale della carta, per ricadere nella sovrapposizione del collage. Ma questa duttilità nell’affrontare il problema (in questo caso il paesaggio), non è una semplice questione di tecnica, d’eterogeneità della materia che si trova a maneggiare; è piuttosto una questione linguistica. Ossia l’impossibilità di utilizzare una stessa sintassi, una stessa lingua per provare (la risoluzione del problema non è un risultato auspicabile e tantomeno raggiungibile) ad interrogare e a soppesare quel poco che riusciamo a vedere e a credere reale. Ed è da qui, da queste multiformi sfaccettature che nasce la ricerca di Erjon Nazeraj, dalla complessità che in questo momento non può ancora ridursi in sintesi, ma ha bisogno di rimanere materiale duttile, da scomporre e ricomporre. Anche perché il paesaggio non è solo fisicità tangibile, ma è esperienza stessa, memoria, rielaborazione e quindi utopia. Nella serie Linee d’ombra Nazarej ricostruisce in resina, o ridisegna direttamente, (esercizio di sedimentazione della memoria) sassi trovati durante passeggiate nei boschi, posizionandoli su fogli di carta e costruendovi intorno ombre ipotetiche, irreali, come se quest’ultime avessero una loro autonomia con dall’oggetto stesso. In questo modo si creano delle piccole isole, che mai sono esistite e mai esiteranno nel triste e noioso mondo della razionalità tangibile.
“Questo per me è un paesaggio di memoria, un paesaggio emotivo, ma di presenza fisica. Il sasso è testimonianza, sono frammenti di qualcosa che ho vissuto. Anche quegli oggetti minimi hanno bisogno di esistere e quindi di confrontarsi con il mondo.”
Affrontare il paesaggio significa anche conservare e preservare, quasi fosse un atto ecologico, ma più cerebrale che fisico. E quando spesso Nazerej ripete che per lui l’arte è esperienza vissuta, sottolinea proprio questo passaggio, ossia la necessità di ricodificare il paesaggio che lo circonda in una geografia utopica. Perché l’esperienza, anche quella vissuta, può essere elaborazione mentale, rimescolamento delle carte in tavola, come se si volessero cambiare le regole del gioco, almeno per un momento. Come in Linee di tensione in cui le fotografie di un muro scrostato (le fotografie sono di Valentina Scaletti) si possono trasformare in una mappa, in cui descrivere il passaggio di un fiume, immaginare un vulcano spento da almeno trecento anni e deserti di rocce, forse lunari o forse semplicemente terrestri, ma la differenza, a questo punto, è irrisoria.