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Paolo Guolo
dal 4/10/2002 al 3/11/2002
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Ass. Cult. Fot. Antonino Paraggi



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Paolo Guolo



 
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4/10/2002

Paolo Guolo

Spazio Paraggi, Treviso

Polaroids [1976-2002], comprende una quarantina di Polaroids a colori, di medio formato (14x14.5 cm.), scelte dall'ampia serie che Guolo va realizzando, come propria personale ricerca, dal 1976.


comunicato stampa

Paolo Guolo (1944), scultore e fotografo, vive e lavora a Treviso. Ha incominciato ad interessarsi alla fotografia nel 1965. Dal 1977 al 1990 ha tenuto corsi di tecnica e storia della fotografia presso il Liceo Artistico, dove ha pure insegnato per molti anni figura e ornato modellato. E' stato cofondatore del gruppo ''Magnum '70'' con A. Dorigo, M. Grespan, W. Fenuccio, e G. Coppola, che ha animato la scena culturale fotografica trevigiana degli anni 70 e curatore delle esposizioni fotografiche nella galleria ''Foto-grafia'' dal 1981 al 1995.
Mostre personali: Teatro & Teatro, presso la Fondazione Bevilacqua La Masa (VE), 1971 ? Paris, presso la Libreria Einaudi (TV), 1976 ? 5 x 70 Momenti Quotidiani, presso la galleria Nuova Fotografia (TV), 1981 ? 5 x 70, presso la galleria Arcimboldo (TV), 1984. Mostre Collettive: I° Salon Européen d'Art Photographique Orléans, 1972 ? Religione S.p.A., Studio Martini (TV), 1972. Sue immagini sono pubblicate, oltre che in diversi cataloghi di scultura e pittura, in: Bettini, L'ultima metafora di A. Viani, Ed. N. Pozza, 1996 ? Dalla Costa, Volti e luoghi della resistenza, 1979 ? Bianchin, Treviso negli anni del degrado, Ed. Matteo, 1981 ? D. Dal Pos, Burattini e marionette a Castelfranco e nella Marca trevigiana, Ed. Corbo&Fiore, 1984.

Polaroids [1976-2002], comprende una quarantina di Polaroids a colori, di medio formato (14x14.5 cm.), scelte dall'ampia serie che Guolo va realizzando, come propria personale ricerca, dal 1976. Cinque terrecotte, degli anni 1999-2000 (un piccolo saggio della più recente produzione scultorea di Guolo), sono parimenti esposte a significare la complessità della personalità artistica di Guolo e a dare in qualche misura ragione, nelle fotografie in mostra, di una sensualità, una tensione, una fusione plastica d'ombre e luci spiccatamente scultoree.
Ammirando le fotografie di Guolo si comprende come la scelta del materiale Polaroid, per questa sua ricerca, non sia un caso, e non si debba solo alla preferenza per la sua peculiare temperatura cromatica.

Com’è noto la pellicola Polaroid produce un'immagine fotografica in un esemplare (tendenzialmente) unico; se si prescinde dalle ulteriori, ma in qualche misura accidentali, potenzialità manipolatorie del materiale Polaroid, per concentrarsi su questo dato tecnico-concettuale (l’unicità dell’immagine prodotta), non è avventato vedere nella Polaroid l’esito moderno di una linea evolutiva che ha come capostipite il dagherrotipo, la “magica” lastra di argento con la quale la fotografia ha fatto la prima massiccia irruzione nella storia delle arti e delle tecniche, per poi essere ampiamente (e abbastanza velocemente) surclassata dai progressi sviluppatisi sull’altro ceppo primigenio della fotografia: la talbotipia, vale a dire la prima forma di fotografia imperniata sul sistema negativo-positivo e quindi indefinitamente riproducibile. Tra l’opzione francese (dagherrotipo) e quella inglese (talbotipia), la prima era certamente quella che meno assecondava la vocazione modernista della più moderna tra le arti, negando in radice la risposta alla domanda fondamentale che aveva originato la fotografia, ossia la domanda di un mezzo tanto efficace nella produzione di un’immagine quanto nella sua riproduzione.

Il ricorso che Guolo fa alla Polaroid, rispettandone l’innata vocazione all'unicità e rifuggendo dalle perenni tentazioni manipolatorie che la Polaroid ha alimentato sin dalla sua apparizione, ha dunque il valore di una citazione, rivolta non già ai vecchi stilemi racchiusi nelle preziose immaginette d’argento, quanto piuttosto al simbolo di un’estetica di controtendenza, perché contro la naturale tendenza evolutiva dell’immagine fotografica si poneva per l’appunto, sin dalla sua nascita e con una buona dose di paradosso, l’unicità irriproducibile dell’immagine dagherrotipica.
E davvero le fotografie di Guolo affermano un’estetica che ha difficili paragoni nell’ambito della fotografia contemporanea. Le immagini esposte racchiudono, piuttosto, un ideale di bellezza, armonia e completezza i cui riferimenti sono più evidenti nell'aura di certa fotografia dell’800 (di cui Guolo è un profondo cultore). Moderno sì, ma ancora una volta non del tutto contemporaneo, è invece lo sguardo rivolto agli scorci e alle cose quotidiane della nostra esperienza. Le fotografie di Guolo sono ciascuna una creazione in sé compiuta, e la negazione della sequenza è in qualche modo da vedere come il necessario pendant della negazione della serialità della stampa della singola immagine, insita nella scelta della Polaroid: due negazioni per un'affermazione, quella dell’unicità ed irripetibilità dell’esperienza, nella quale tutto, forme, luci, ombre e colori, sembra convergere, all’interno dei margini dell’inquadratura, a comporre una nuova realtà, perfetta, che non ha più legami con quella esclusa dai bordi.
E’ proprio la capacità di riaffermare una simile esperienza, di crederla ancora possibile e di ricercarla (e di ricercarla nel mondo a noi prossimo e quotidiano, trasfigurandolo in bellezza), ciò che dà la misura più esatta della controtendenza delle fotografie di Guolo e, per altro verso, ciò che spiega il profondo appagamento del senso estetico che esse producono.

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