Postpresente. "La riproduzione di un quadro di dimensioni piccole rispetto alla squadrata campitura della rigida copertina del libro. Temi e movimenti artistici si esaurivano..."
Comprai quel libro, il cui nero colore dominante prometteva, nel suo lucido e invitante richiamo, di essere come una splendida notte gremita di sogni, all’età di diciassette, diciotto anni, forse. Oppure più tardi; a memoria non riesco a trovare punti di riferimento che possano darmi una collocazione temporale esatta. Sto parlando del primo dei quarantadue volumi, più uno di indici (pubblicati precedentemente in fascicoli a partire dal 1967, ed era quella la data di edizione segnata anche nei volumi quando cominciai ad acquistarli), che componevano la collana “L’Arte Moderna” della Fabbri. Uscita mensile, copertina cartonata, appunto nera, e plastificata. Titolo di tutta la collana scritto in verde. La riproduzione di un quadro di dimensioni piccole rispetto alla squadrata campitura della rigida copertina del libro. Temi e movimenti artistici si esaurivano nell’arco di tre pubblicazioni. Ognuna di queste, cioè ogni volume, a sua volta era divisa in tre parti. Tra la prima e la seconda parte, tra la seconda e la terza e dopo quest’ultima, otto pagine, con una più scarsa qualità della carta, in bianco e nero con foto varie (degli artisti, altre opere, ambienti dell’epoca e altro).
Era l’inizio, pensavo, di un periodo pieno di meraviglie, un mondo tutto da scoprire che mensilmente si sarebbe aperto in edicola attraverso le riproduzioni dei dipinti su quelle bianche pagine. I testi principali, sia del primo sia dei volumi successivi non m’importava molto di leggerli, più volentieri leggevo quelli delle pagine in bianco e nero perché brevi e più che altro citazioni, e gli altri, di un numero maggiore di pagine, sempre monocromatiche, che andavano a costituire una specie di consommé dei tre volumi e che occupava tutta la terza parte del terzo libro di ogni gruppo. I saggi critici delle pagine patinate mi annoiavano. Parole, parole, parole e parole.
Mentre leggevo con interesse, a volte grande interesse, la presentazione, “l’itinerario di un’avventura critica”, la biografia, le schede delle opere – con tutti quei simboli e varie forme grafiche impostate su pieni e vuoti che mi divertivano: olio, tempera, affresco, tavola, tela e così via – dei libri della Rizzoli che già da alcuni anni compravo: L’opera completa di…
Ma con questi della Fabbri (alcuni “Mensili d’Arte” che già possedevo li trovavo ben fatti) l’entusiasmo e l’attesa erano già enormi. Ero sicuro che sarebbe stata un’altra cosa, avrei avuto finalmente modo di vedere tanto di quel che ancora non conoscevo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento.
Ci fu subito qualcosa, però, che mi piacque poco e che forse fu la causa (meglio una delle cause) della concezione che ho del tempo pittorico. E degli stili.
Postimpressionismo il titolo dei primi tre volumi. Perché Post? Che senso aveva? Qualsiasi giustificazione a quell’iniziale amputazione della primigenia specie la ritenevo inaccettabile. Quell’abitudine, frequente, di ruminare le parole, di gironzolare attorno a parole e fatti non passava mai di moda.
Sulla copertina numero uno (scritto, questo, con una cifra bianca stretta e allungata) un particolare, l’ho già detto, di dimensioni alquanto contenute rispetto all’ampiezza del volume, di un dipinto di Degas. All’interno la prima foto era un autoritratto di Manet, sul retro della pagina ancora Manet e poi di nuovo con “Il bar delle Folies-Bergère”. Nella pagina successiva Degas con il quadro di copertina nella sua interezza. Pensiero gregario, retaggio, queste scelte, della “indiscutibile, imprescindibile, compositiva, figurativa storia dell’arte italiana”.
Perché Post? Mi chiedevo.
Perché post? Quella parola che dava ed era già un dopo a una somma di suggestioni che aveva appena avuto inizio. Sarebbe stato tanto insostenibile il costo di tre, due…uno! un solo volume in più? C’era Monet, l’invenzione, l’avventura, la ribellione, il colore (Paris, l’azzurra acqua della Senna e del Tamigi), la scoperta, la luce. Sapevo (dai libri con quadri/francobolli appiattiti in minuscoli riquadri in bianco/nero): Monet, impressione, il sorgere del sole, da lì qualcuno aveva chiamato lui e i suoi amici impressionisti (e non postimpressionisti) in senso dispregiativo. Nome che rimase e che tuttora ovviamente è in uso. Storia classica, cominciata male e finita bene, anzi benissimo. Ma di tutto questo lì non c’era un granché, l’alibi del primo testo dalle intenzioni riparatorie e poche foto. Tutta l’arte moderna partiva da un “post”. Vedevo il piano dell’opera: Simbolismo, tre volumi; Espressionismo e Fauvismo, tre volumi; Cubismo, sempre tre volumi; Futurismo, lo stesso; eccetera, eccetera. Un’omissione che non riuscivo a comprendere, un post che significava negazione, amputazione; non c’era una nascente associazione di pittori che più in là avrebbe avuto quel nome e sulle cui direttive tutto sarebbe successo, ma artisti vari che in quelle pagine nuotavano in un paio di decenni a cominciare dalla fine degli anni ottanta dell’Ottocento (Manet muore nell’83). Non c’era nulla del disgregamento che in quel periodo si stava attuando, della vivezza dilagante e postpresente di un certo numero di quadri tenuti insieme, ciò è tutto dire, da un luogo di fotografia. Erano assenti le acute grida di quella pittura celate da “inesperti eccessi cromatici”. Perché scavalcare la giovinezza di quei pittori che avrebbero scardinato ogni convenzione illuminando di solari bagliori veloci pennellate? Non si dava il valore che avevano alle conquiste che stavano per ridimensionare, e parecchio, la pittura di storia di qualsiasi genere privando falsità e artifici della bussola e facendoli disperdere perché nuove direzioni fossero percorribili, ad esempio (all’aperto) della pura e semplice quotidianità di un paesaggio.
Perché post? Sarebbe stato tanto semplice dare un nome semplice alle cose.
Perché post? Cos’era Claude dopo i quarant’anni? E l’olandese che non ci è arrivato, il provenzale, il ricco borghese, Auguste, Berthe, persino il pittore di Marthe, conosciuto sotto altre etichette, cos’erano?
Vivo di pittura; mi sveglio e vado a dormire da pittore, e il mio tempo pittorico scorre assai accelerato.
Quando dipingo lo faccio come se dal giorno dopo non potessi più avere la possibilità di farlo. Quindi ho fretta, ho sempre fretta in pittura. Devo sbrigarmi. Non m’interessano gli stili. Utilizzo quello che al momento sento oppure vedo vicino, e questa immediata scelta è già uno stile, lo stile di Feliscatus. Quando mi annoia la pittura che sto facendo – e dopo un po’ di tempo e un certo numero di opere inevitabilmente accade – cambio. Lo stile unico non mi basta. L’alfabeto è lì, in tutta la pittura che si è sempre fatta, diventa mio perché lo utilizzo. Se mi occorre e un’innovazione urge, se è il mio fisico, il mio benessere a richiederlo e non ce n’è uno che faccia al caso mio, che soddisfi le esigenze del momento, lo invento; non è difficile. Tutti gli esseri imperscrutabili (li intravedo come sfuggenti, concitati e loquaci, informi movimenti) che contemporaneamente abitano in me l’hanno sempre fatto in passato. Già in partenza non mi prefiggo di farlo durare eternamente, anzi neanche tanto. Dopo un po’ diventa vecchio, contaminato da cose stantie che m’infastidiscono, impastato con un pensiero che è “già stato”, reso acido dal tempo che passa. E allora, quando non serve più, lo metto da parte. Do una virata di bordo e vado in un’altra direzione, anche in quella opposta se mi va di farlo, nuova terra per altre invenzioni, senza far vincere la noia, mai. Che gusto c’è a fare quello che con l’immaginazione si può vedere come compiuto? Questo comportamento è già uno stato mentale di post.
Non è necessario che per gli altri sia così, tra i pittori che preferisco alcuni hanno fatto per tutta la vita opere se non uguali assai simili; ma per me è impossibile pensare che oggi debba fare ciò che facevo a venti, trenta, quaranta anni perché lo stile personale deve essere riconoscibile (ed è la ripetitività che lo rende tale, oppure si è Picasso, iperconosciuto in tutti i suoi cambiamenti di rotta, ma anche “nel suo piccolo” Carrà) perché chi osserva il mio lavoro abbia precise coordinate su cui agire per una piena comprensione e rassicuranti omogeneità e continuità atte ad evitare qualsiasi disorientamento. Quel Feliscatus di allora è morto per sempre e continua a morire ogni sera e a rinascere ogni mattina.
Non posso evitare di misurarmi continuamente con quei territori di cui ancora non ho un’idea chiara e quindi hanno in sé il piacere dell’esplorazione, la gratificazione della scoperta. Voglio avere l’identità di una miriade di stili, perché un giorno differisce sempre da quello che lo precede e la pittura è ciò che si è mentre la si fa. Oggi non esiste più il Gaspare Sicula, il Feliscatus che ero anche solo un mese fa, figuriamoci venti, trent’anni fa. Quando sarò niente di più di nulla non avrò più la possibilità di dipingere, devo affrettarmi a conoscere e fare tutto ciò che mi è possibile fare e conoscere, finché avrò la capacità di farlo.
Quest’anno, nel mese di novembre, compio sessant’anni, il 15 (ma probabilmente sono nato il 13). Li sento e non li sento. Bene che vada ne avrò ancora venti di lavoro lucido. Quante cose riuscirò a fare in venti anni? Se ci penso, dal ’94 a oggi…sì, non poche; ma lì ero dai quaranta ai sessanta, da ora in poi sarò dai sessanta agli ottanta, c’è una bella differenza!
Un altro fatto modificò definitivamente il mio carattere d’artista, quando nell’81 un’emorragia (che fece il bis esattamente un anno dopo, e fu allora che decisi di lasciare il lavoro che avevo in Sicilia, mentre la facoltà d’Architettura l’avevo abbandonata, in dirittura d’arrivo, cinque anni prima) mi rese cieco un occhio da un istante all’altro. Ci vollero mesi perché riprendesse la sua funzione, sia pure parziale; e tale rimase la capacità visiva dell’occhio sinistro; continua a essere, questo evento, avvertimento, monito, come se in qualsiasi momento potesse di nuovo accadere.
Oggi voglio dipingere il luogo dove vivo (mi è già capitato in passato, secondo pensieri e mani di allora, nell’ottantotto e nei primi anni novanta). Stavolta voglio farlo all’aria aperta, en plein air, come se avessi accanto Monet.
Forse perché Monet è la Francia, è Parigi, è gioia di vivere mentre una gran parte della pittura dell’Ottocento italiana è triste e lacrimosa. Mi sarebbe piaciuto vivere a Parigi ma non mi è stato possibile e vivo a Tortona. Tortona così è diventata la mia Parigi. Come quando, ora che per la verità non ho più tanta voglia di viaggiare, di spostarmi per andare a vedere mostre varie e musei, vado nella Pinacoteca della Fondazione, che da casa mia dista dieci minuti, nella terracquea foschia pomeridiana di brumose domeniche. Tolgo i quadri già tante volte visti e ci metto quelli che vorrei vedere. E’ sufficiente che ci sia un luogo con dipinti appesi alle pareti e i passi che risuonano in sale possibilmente deserte che abbiano l’aura della storia e dell’intoccabilità, quindi lascio la cornice e la memoria visiva fa il resto. In un attimo mi trovo al Jeu de Paume di trent’anni fa, come se fosse ieri, o sarà domani.
Rare le eccezioni nell’Ottocento italiano: qualche paesaggio di Fattori e pochi altri.
Mi rimane la sensazione che intere costruzioni, anche di ragguardevole grandezza, siano fondate su uno spostamento continuo e un progressivo scivolamento.
Settant’anni fa il periodo impressionista di Magritte (altrettanti lo separavano dall’anno zero ’74) che ora più di prima guardo con una certa attenzione e un vago senso di amara nostalgia, come molto di perduto di cui mai si saprà cosa quel gruppo di opere tanto luminoso e così spigliato nel colore non è diventato nelle mani di chi nel pensiero sguazzava, con la pittura, forse, si annoiava.
F.C.
Inaugurazione 11 maggio ore 16
11 Dreams Art Gallery
via Rinarolo, 11/c - Tortona (AL)
mart-dom 16 - 19
Ingresso libero