Ubiquity. La sua ricerca pittorica introduce un ripensamento dei meccanismi rappresentativi e dei processi interpretativi dell'immagine.
a cura di Ivan Quaroni
Prosegue il ciclo di mostre dedicate ai giovani artisti, emergenti già conosciuti nei circuiti dell’arte contemporanea, che ABC-ARTE ha organizzato in partnership con MARYLING, all’interno del multipurpose space di Piazza Gae Aulenti 1, inaugurato a luglio.
Giovedi 17 Settembre inaugurerà la seconda esposizione del programma di mostre proposto da ABC-ARTE e curato da Ivan Quaroni: si tratta di Ubiquity dell’artista Patrick Tabarelli che resterà aperta fino al 10 Ottobre.
Durante il vernissage sarà possibile incontrare l'artista e sarà presentato il catalogo della mostra.
In piena era digitale, la ricerca di Tabarelli s’inserisce in un’ottica di ripensamento dei meccanismi rappresentativi e dei processi interpretativi dell’immagine, sondando a fondo la dicotomia latente tra i meccanismi creativi e il risultato finale, laddove l’immagine, cioè il costrutto estetico, si fa portatore di valori formali che contrastano con la tradizione emotiva (e romantica) della pratica artistica.
Le superfici dipinte dall’artista sono piatte, anti-materiche, svuotate di ogni contenuto psicologico o emozionale. Nei lavori eseguiti tra il 2012 e il 2013 con olii e alchidici su tela, le forme hanno spesso un’origine biomorfica e si distendono nello spazio illusorio della superficie con i movimenti rotatori, ondulatori e oscillatori propri della fisica. L’uso di colori terziari e dei chiaroscuri accentua gli effetti di artificialità e conferisce alle immagini una qualità quasi fotografica.
Sembrano immagini digitali, ma sono in realtà interamente eseguite con mezzi manuali. Tabarelli sa che l’immagine è essenzialmente, e per definizione, illusoria, perciò radicalizza le sue qualità mistificatorie con un linguaggio pittorico volutamente ambiguo e indeterminato. Lo fa, soprattutto, lavorando intorno a concetti dicotomici, come ad esempio il contrasto tra la dimensione effettuale dell’immagine e il campo causale del processo di costruzione.
Un’altra dicotomia riguarda la gestione dello spazio pittorico. Il luogo dell’azione, cioè il campo della rappresentazione, è sempre circoscritto, tagliato da perimetri obliqui che interrompono la possibilità di fruizione unitaria. Lo spazio della tela è sottoposto a una frammentazione, a una parcellizzazione tra aree statiche e vividamente mobili. In queste ultime, per intenderci quelle in cui i biomorfismi danno un’impressione di movimento continuo e fluido, c’è comunque una latente staticità. L’iniziale e allusiva mobilità delle forme sembra, infatti, bloccata come in un fermo immagine fotografico. Il moto si arresta pochi istanti dopo il primo approccio visivo.
Cosa che, invece, non succede nei dipinti più recenti della serie Zero-Om, dove le rigature texturali delle superfici, ottenute pettinando la pasta pittorica non ancora solidificata, producono effetti di aberrazione ottica. I più recenti esiti della ricerca di Patrick Tabarelli reiterano, pur attraverso un diverso procedimento compositivo, le
strategie dicotomiche dei dipinti precedenti, con la sola differenza che qui l’artista si avventura in un territorio più schiettamente digitale.
Il suo progetto si chiama NORAA (Non Representational Art Automata) ed è sostanzialmente un drawbot, o se preferite un paintbot, cioè una macchina che traduce i comandi di un software, creato dall’artista, in pittura.
Pensata in realtà per essere qualcosa di più di un semplice strumento, ma piuttosto una piattaforma aperta e condivisa intorno a cui possa costituirsi una comunità di utenti che lavorino alla creazione di un progetto artistico, dal concepimento fino alla creazione di un hardware, NORAA ha portato Tabarelli, in questa prima fase del progetto, alla realizzazione di dipinti su carta essenzialmente bidimensionali ed eseguiti con marker caricati ad acquarello o acrilico. Sono lavori che all’apparenza, e contrariamente alle tele, sembrano dipinti a mano. Hanno, cioè, una caratteristica d’imprecisione e imprevedibilità che deriva dall’apporto umano. NORAA, infatti, non produce immagini precostituite, ma traduce dei comportamenti: il software contiene dei comandi che riguardano il modo di operare, ma non l’esatta qualità o disposizione delle immagini da dipingere. La conseguenza è che la struttura dell’immagine è sorprendente ad ogni impiego della macchina.
Da un punto di vista filosofico, Tabarelli è rimasto fedele all’oggetto della sua indagine, che riguarda appunto la sua fondamentale ambiguità percettiva.
Ha semplicemente invertito i termini della dicotomia tra procedimento e oggetto finale.
Con il suo Non Representational Art Automata, Tabarelli produce un avvicinamento tra uomo e macchina, dimostrando che i concetti di autorialità e autenticità nell’era digitale devono essere integralmente ripensati, anche alla luce delle recenti ricerche nel campo dell’ubiquità tecnologica o, come la chiamano gli addetti ai lavori, Ubicomp (Ubiquitous Computing), una branca dell’informatica che studia nuovi modelli interattivi che non presuppongono l’utilizzo di desktop.
Incominciata come un’indagine artistica eminentemente formale e procedurale, la ricerca di Tabarelli sembra aprire nuove e impreviste prospettive. Prospettive che è difficile circoscrivere al solo ambito artistico, senza considerare le sue inevitabili ricadute nel campo sociologico della creatività open source, sempre più basata sullo scambio e la condivisione dei saperi, ma non ancora pronta ad abolire lo status autoriale dell’individuo.
Inaugurazione 17 settembre
Maryling
piazza Gae Aulenti, 1 Milano
lun-sab 10-19
ingresso libero