20_02_2015 - Quale eredità?

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Indice :

1 Now happening at the Design Biennale

2 3_11_2014 - Cos'è il futuro Oggi?

3 5_11_2014 - Quale futuro per gli spazi pubblici?

4 12_11_2014 - Che prospettive per le azioni collettive?

5 22_11_2014 - Il futuro dell'artigianato è in città?

6 1_12_2014 - Quale Biennale?

7 20_02_2015 - Quale eredità?


Il 16 Dicembre 2014 la Biennale di Design chiude i battenti, promettendo di lasciare dietro di sè la dinamicità di progetti continuativi e duraturi.
Due mesi dopo sono in un'altra città, a riconnettere i fili degli accadimenti successivi alla seconda edizione dell'evento.

Poco prima della mia partenza, i Kontraakt e i promotori del progetto Ek Biç Ye İç (“Plant’n Harvest Eat’n Drink”, letteralmente 'semina, raccogli, mangia e bevi') mi hanno rilasciato due interviste* du cui pubblico solo ora, intenzionalmente, gli estratti.
Nelle loro parole risuona infatti la curiosità, ma anche la perplessità, sul possibile futuro delle loro sperimentazioni, che già all'interno della 'bolla Biennale' hanno conosciuto impensati sviluppi, e offerto non previste strade di analisi e riflessione. Nella distanza temporale di due mesi, si possono leggere quelle stesse affermazioni e domande in prospettiva, e offrire allo sguardo proprio e altrui alcune più lucide chiavi di lettura. Sicuramente, riprendere in mano tali interviste a sessanta giorni di distanza ha significato per me il richiamo di moltissime sensazioni e pensieri, e la conferma di alcune precedenti intuizioni.
Vista da lontano, osservata attraverso i canali social, la 'macchina Biennale' si conferma una efficace infrastruttura di promozione e "city marketing"; dalla fine dell'evento sono costanti le notifiche riguardo altri eventi, incontri, laboratori volti a confermare il trend imperativo: 'il design è il futuro di Istanbul'.
La città è lanciata in una frenetica accelerazione per catapultarsi nelle prime file dell'intrattenimento culturale mondiale, e architettura e design sono i linguaggi internazionali della cultura di tendenza. Nella città smembrata da interventi urbanistici imposti dai poteri forti, agitata dalla frammentazione sociale e dagli attriti culturali, e sofferente della sparizione di spazi e paesaggi atti alla vita pubblica, il trattare di tali tematiche è il modo migliore per ripulire l'immagine della città e della sua amministrazione, spostando i riflettori sulle future promesse glamour della centenaria realtà urbana sul Bosforo.

La strumentalizzazione della cultura per fini politici è una realtà ampiamente consolidata; tuttavia, bisogna tenere presente come i progettisti di Kontraakt, Ek Biç Ye İç, TAK – Tasarım Atölyesi Kadıköy, Made in Sishane, Şehrine Ses Ver - e altri incontrati negli articoli di questa narrazione e negli spazi dell'evento – abbiano preso parte alla 'vetrina Biennale' consapevoli delle sue ambivalenze e intenzionati ad avvantaggiarsi della forbice di visibilità offerta.
Mostrarsi e disporsi per il confronto è infatti il primo necessario passo per smuovere le coscienze e diffondere l'abitudine ad uno sguardo critico verso l'ambiente circostante. Ciò è particolarmente vero per gli stanbulioti, apparentemente rassegnati a subire le metamorfosi della propria città, ed educati a suon di manganellate a rifuggire l'ambizione di movimenti di contrasto dal basso.
Nell'ultimo articolo di dicembre, ho lamentato la 'poca internazionalità' dell'evento, laddove il massiccio uso della lingua turca nelle comunicazioni – da parte degli organizzatori della Biennale, così come dei designer ospiti – ha portato all'esclusione del pubblico anglofono dagli appuntamenti aggregativi principali: workshop, design walk di perlustrazione e scoperta della città, incontri serali con esponenti locali dell'innovazione progettuale. Ripensandoci oggi, mi rendo conto di come tale condizione, anche se forse sintomatica di una approssimazione organizzativa, è stata certamente rappresentativa di una forte volontà di contatto con il pubblico locale.
Se per gli organizzatori e gli sponsor della manifestazione la Biennale ha seguito gli scopi di "cultural urban branding" inaugurati con gli eventi della fondazione IKSV, per i designer turchi ospiti tale contesto di visibilità ha significato soprattutto una possibilità reale di incontro con i propri connazionali, e in molti casi concittadini, per guardarsi, ascoltarsi e scambiarsi informazioni sul come vivere e come – forse – poter cambiare l'ambiente, e sicuramente l'atmosfera sociale, della propria città. Con una mossa appartentemente ingenua rispetto alle aspirazioni internazionali dell'evento, la predilazione per la lingua locale ha significato in molti momenti una chiara apertura e un appello di partecipazione rivolto soprattutto alla cittadinanza stanbuliota.

Questo panorama di propositività e prospettive per il futuro non emerge tuttavia dalla comunicazione successiva della macchina Biennale di Design: l'evento ha ospitato temporaneamente i progetti a beneficio della propria vetrina, e una volta smantellata la stessa, i designer ospiti hanno fatto ritorno alla condizione di relativa visibilità e autonomia gestionale su cui si scommette, allo stato attuale, la ricaduta delle loro iniziative sul largo pubblico. La Biennale di Design per gli ospiti locali ha rappresentato insomma un grande dilemma: l'occasione precedentemente ineguagliata di raggiungere un ampio pubblico, ma anche la grande fatica di gestire e 'fidelizzare' lo stesso per radicare in modo duraturo l'emersione e la diffusione delle iniziative. I progettisti hanno sperimentato sulla propria pelle come la riuscita di un progetto, per quanto di qualità e importante per il luogo ed il pubblico di riferimento, sia strettamente legata alla capacità dei suoi promotori di fare marketing e comunicazione, più che alla validità delle proposte. Il pubblico stanbuliota in questo senso non smentisce le abitudini del pubblico internazionale: attenzione temporanea, fame per eventi one shot uno dietro l'altro, senza soluzione di continuità.

In questa forse scoraggiante prospettiva, le criticità ricadono sullo spettatore: ad Istanbul, come in altri centri della cultura internazionale, sta allo spettatore mantenere lucida la propria coscienza critica, e viva la propria fame di panorami altri. Aspettarsi che grandi macchine di intrattenimento culturale e city branding come Biennali, Fiere, esposizioni universali si pongano in avanguardia nella diffusione e affermazione di modelli sociali e culturali alternativi, è utopistico; aspettarsi anche che le organizzazioni indipendenti che si incontrano in questi ambiti possano, da sole, costruire complesse reti di comunicazione e gestione per ampie progettualità con il largo pubblico, è forse chiedere troppo. Il primo passo va fatto da quello stesso pubblico che vuole vedere cambiamenti, mostrando un diretto sostegno e un continuo interesse per il lavoro di chi si sforza di proiettare altri immaginari di gestione dell'ambiente urbano e della convivenza sociale.
Dal canto loro, le realtà locali, più delle grandi manifestazioni culturali di tendenza, devono prendere coscienza del valore della visibilità internazionale, e aprire le proprie prospettive di interazione con l'utilizzo della lingua inglese.

Nel lasso di tempo successivo alla chiusura della Biennale di Design, gli attori locali hanno continuato e continuano a lavorare, non senza difficoltà: Ayca Ince mi aggiorna sull'avanzamento del progetto Ek Biç Ye İç, spiegandomi che "what we aim to do in Turkey is new for this country, using recycled material, or building such systems are taking time as we lack knowhow or sources... so each is an time-consuming achievement". D'altronde, il panorama Stanbuliota è ancora in forte trasformazione: il lavoro dei designer e degli architetti incontrati lo scorso inverno si prospetta doppiamente impegnativo ed essenziale, laddove si vanno a gettare le basi per modelli di vita collettiva relativamente affermati in alcune realtà occidentali, ma rivoluzionarie per il contesto turco. Tale dimensione, agli occhi di un osservatore italiano, fa altresì emergere innegabili deja-vù e risveglia una qual certa sensazione di familiarità; lo scarto tra i due contesti è portato proprio dall'approccio e dall'apporto del pubblico a sostegno di nuovi possibili scenari di crescita culturale, sociale ed urbana - un pubblico che in italia sta imparando, non senza qualche difficoltà, a diventare proattivo nello sviluppo di differenti modelli di vita, e non solo passivo spettatore.

Da osservatrice italiana, inserita nel settore culturale, non posso che auspicare una crescita e un radicamento alle attività che ho potuto conoscere durante la seconda edizione della Istanbul Design Biennial. Questo ultimo articolo rappresenta una analisi postuma gravida di molteplici e stratificate riflessioni, ma anche di seminali spunti di indagine; la speranza e la sfida che getto in queste righe di chiusura è verso l'ambiente culturale indipendente attivo in Istanbul, chi progetta e chi assiste, per un ulteriore sforzo di connessione, con la comune finalità di creare una base su cui radicare e sviluppare quella partecipazione, che è poi il motore che può potenzialmente trasformare l'immaginario di oggi nella realtà sociale e urbana di domani.

Elena Malara

*Tutte le interviste sono pubblicate nella sezione 'Interviews'.


Le altre sezioni: 

Interviews 
http://www.undo.net/it/my/TasarimBienali2014/305/832

Impressions from the city 
http://www.undo.net/it/my/TasarimBienali2014/304/831

Ulteriori informazioni su Istanbul Design Biennial
http://www.undo.net/it/mostra/182795


Fotografie rilasciate sotto licenza Creative Commons. Autori: Lindsay Maizland, Shankar S., Validd, Vincent AF.