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Around photography (2004-2009) Anno 2 Numero 6 giugno-luglio 2005



Divertirsi alla Biennale

Guido Molinari

tra arte e lunghe camminate



riverberi dalle immagini infocinevideofotografiche
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Gianni Motti, Viale Harald Szeemann

Sislej Xhafa, Ceremonial Crying System PV, 2004, iron, PVC, water; altezza 23,8m, Courtesy Magazzino d’Arte Moderna, Roma, Courtesy Manfredi della Gherardesca, MDG Fine Arts, London

Jennifer Allora e Guillermo Calzadilla all'Arsenale

Per chi ama l’arte contemporanea, la Biennale di Venezia costituisce un evento da non lasciarsi sfuggire. Dal divertimento che possiamo trarre da un’opera, ai pettegolezzi salottieri che inevitabilmente accompagnano ogni grande iniziativa, tutto obbliga ad una visita a Venezia anche solo di una giornata. Ma al tour spesso ne segue un senso di insoddisfazione e rammarico per una grande occasione parzialmente mancata d’incontro con l’arte più attuale. Anche questa edizione della Biennale a nostro parere lascia un senso di leggero disagio, nonostante alcuni episodi più coinvolgenti e interessanti che vogliamo segnalare. Il primo tra gli interventi di rilievo registrati da chi scrive riguarda Thino Sehgal, giovane artista tedesco, che sceglie in due opere due effetti a sorpresa, facendo interagire il pubblico con il personale di servizio, i custodi del padiglione della Germania. Nel primo caso il pubblico viene avvicinato dagli inservienti pronti a offrire un piccolo contratto volto a stimolare l’attenzione verso un argomento preciso: se il visitatore converserà di economia di mercato per qualche minuto, gli verrà rimborsato metà del prezzo del biglietto che ha acquistato per entrare alla Biennale. Il secondo intervento di Sehgal è ancora più spiazzante: appena varcata la porta del padiglione, i custodi, attorno al visitatore sbigottito, accennano ad un balletto minimale dai toni parodistici ed autoreferenziali, sulla frase “This is so contemporary, contemporary, contemporary”. Un’affermazione esibita quasi a voler ironizzare sul desiderio del visitatore di voler trovare quelle stravaganti novità che a volte il mondo dell’arte propone, anche se, come in un serpente che si morde la coda, in questo caso è la frase ed il balletto stesso, ad incarnare proprio quest’aura di bizzarra novità.
Dal metalinguaggio ironico e paradossale del giovanissimo artista tedesco, ci soffermiamo brevemente sulle curiose e profetiche affermazioni del Ministro dei Beni Culturali Rocco Buttiglione, che durante la cerimonia inaugurale dichiara la sua preferenza verso mostre senza contenuti provocatori, in favore di una figuratività tradizionale che testimonierebbe l’autentica spinta verso il futuro, di matrice antirivoluzionaria e quindi positiva. Dalle premonizioni estetiche di un noto conoscitore dell’arte contemporanea quale è il ministro Buttiglione (probabilmente alla sua prima Biennale, come segnala sul Corriere della Sera lo storico dell’arte Renato Barilli), affrontiamo ora due prove di artisti affermati, colti ad una svolta significativa: Thomas Ruff e Gabriel Orozco. Nel caso di Ruff colpisce, prima ancora del soggetto fotografato, la scelta di ingrandire un’immagine compressa nel formato jpg. Immagine che risulta dunque stampata in un ampio formato eppure elaborata a bassa risoluzione e soprattutto recante in evidenza le tracce del processo di compressione digitale dell’immagine, che produce un “disturbo” a base di micro settori ortogonali. Orozco invece continua la sua indagine sull’elemento curvilineo, esponendo alcuni dipinti raffiguranti pattern vivacemente colorati, basati esclusivamente sulla destrutturazione del cerchio. Il risultato, una sorta di seducente motivo Art Déco che incrocia il Postmoderno, appare come un’affascinante variazione su un tema visivo che può sembrare ben identificabile nella storia dell’arte, ma che appare adesso affrontato in un’ottica radicalmente differente: in questo caso infatti, risultano estranee le citazioni riferite ad opere elaborate su strutture geometriche circolari, ideate da Balla, Delaunay oppure Kupka agli inizi del Novecento. L’elemento circolare è affrontato da Orozco come la chiave di un’apertura simbolica verso il mondo e la sua complessità, trasformandosi in un’occasione per definire un sistema di relazioni aperto ed in continuo dialogo con la realtà, intenzione che emerge con chiarezza solamente ad uno sguardo complessivo sulla sua intera opera. Se in passato l’intervento pittorico interagiva con la fotografia ora viene proposto esclusivamente a tutto campo.
L’attenzione durante la visita alla Biennale cade dunque su singole opere, su alcuni artisti conosciuti o meno noti, ma lascia altamente indifferenti la scelta dei vaghi temi curatoriali che non sembrano avere alcun appiglio con le opere in mostra. Ci si chiede addirittura perché l’opera di due artisti ampiamente storicizzati come Francis Bacon e Antoni Tàpies debbano comparire, perché siano stati scelti loro e non tanti altri artisti celebri del Novecento.
Si deve aggiungere che in complesso la maggioranza delle opere selezionate dalle curatrici Maria de Corral e Rosa Martinez, quasi mai realizzate per questa occasione espositiva, non sembrano brillare per originalità. Degli stessi artisti, nella produzione degli ultimi anni, si sarebbero potute selezionare quasi sicuramente prove più significative. E finalmente arriviamo a sottolineare una nota di grande merito. Le corderie dell’arsenale propongono un allestimento impeccabile, sobrio, variato ed efficace, sconosciuto alla Biennale nell’ultimo decennio. Pieni e vuoti, opere di artisti differenti che convivono armonicamente, suoni ed elementi visivi si alternano con efficacia e coinvolgono lo spettatore nel percorso che lo avvolge e lo incuriosisce, più ancora delle opere stesse in mostra.
Ma torniamo ora ai padiglioni nazionali per considerare uno degli interventi di Gianni Motti, in particolare la targa in marmo situata in alto proprio a lato del muretto che costeggia il padiglione della Svizzera e recante la scritta “Viale Harald Szeemann”. Viene definito in questo modo un eccentrico ricordo commemorativo del celebre critico svizzero, già curatore di due Biennali. Infine non posso esimermi dal segnalare l’opera che io stesso ho presentato in catalogo, si tratta dell’installazione di Sislej Xhafa collocata all’ingresso dei giardini, testimonianza del padiglione dell’Albania al suo debutto ufficiale. L’opera consiste in un enorme cappuccio del K. K. K. alto ventidue metri, la cui caratteristica emerge ad una visione ravvicinata: dai fori per gli occhi del gigantesco cappuccio bianco in PVC fuoriesce realmente dell’acqua a simulare il pianto.
La fatica del lungo tour alla Biennale viene alleviata, visitando l’Arsenale, da veicoli elettrici che traghettano il pubblico da un capo all’altro dello spazio espositivo. Le feste serali organizzate dai padiglioni o dalle riviste del settore, spingono artisti, curatori, galleristi e pubblico a volere entrare anche se non si è in lista, e presto tra amici si scatena una gara tra chi è riuscito a presenziare a più party, spesso ambientati in magnifici palazzi veneziani.
Continuando la panoramica sulle opere esposte non si può dimenticare il padiglione dell’Austria, rielaborato da Hans Schabus in modo tale da conferirgli le sembianze di una montagna, segmentata ortogonalmente come se fosse sottoposta ad un processo di geometrizzazione. All’interno di questo monte sfaccettato, si estende un labirinto di scale disponibile al visitatore. L’astrazione e la realtà più solida ed ingombrante convivono in quest’opera attraverso forme innovative.
Infine alle corderie dell’arsenale risalta l’intervento di Jennifer Allora e Guillermo Calzadilla: un ippopotamo realizzato con il fango della laguna e sulla cui sommità siede una persona intenta a leggere tranquillamente il giornale, ma attenta a suonare con pigrizia un fischietto nel momento in cui, durante la lettura, rileva un’ingiustizia posta in atto. Si tratta di un’opera giocata su registri emotivi delicati e sul filo dello humour, in riferimento ad una base concettuale che vuole costruire un immaginario racchiuso in contorni a tratti reali e a tratti di fantasia.
Complessivamente anche questa Biennale si muove su margini di ambiguità, incapace di regalare le opere e gli artisti più recenti, legati a cambiamenti della scena artistica estremamente rapidi ed in costante evoluzione. Allo stesso tempo la cinquantunesima esposizione internazionale d’arte risulta incapace di coagulare le scelte estetiche in relazione a tematiche forti, sentite e attuali, che vivano la sensibilità del proprio tempo. Certamente, rispetto a Biennali immediatamente precedenti, questa edizione non sembra brillare eccessivamente di luce propria nè presentarsi come un irrimediabile disastro. Probabilmente ad essere in crisi sono più in generale proprio le grandi mostre che devono testimoniare un terreno artistico irrimediabilmente volto ad una positiva diversificazione e frammentazione, in quanto specchio di una complessità propria delle società in cui viviamo.