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Take it easy MAGAZINE (2006-2009) Anno 2 Numero 8 settembre-novembre 2006



ARTE a CASAccio

Alessandra Dini Hidalgo

Incontro con Esterio Segura Mora





02 sgabuzzino in my mind

03 redazionale

04 un impero sottile - racconto di Simone di Maggio (nstr prdct #15)

06 ARTE a CASAccio incontro con Esterio Segura Mora
rubrica a cura di Alessandra Dini Hidalgo

08 Emozioni in soffitta
video arte a cura di Claudia Meini

10 R'N'R pills
recensioni musicali a cura di DNA music

11 scheletri nell'armadio
zodiaco a cura di Claudia Ferri

12 GRAPE JUICE FESTIVAL
speciale 12 pagine dedicate al festival

15 L'anima dispersa del Blues - new Orleans un anno dopo Katrina
intervista a Paolo Luti
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Alessandra Dini Hidalgo
a casa dell'artista cubano
Esterio Segura Mora

Particolari della casa di
Esterio Segura Mora

Mi capita spesso di dover rispondere a quanti, incuriositi, mi chiedono informazioni su Cuba ed ancora mi sorprendo di come la regina dell'Antille accenda la fantasia delle persone. È inevitabile poi che qualcuno se ne esca con quest'affermazione: "Come mi piacerebbe comprarmi una casa a pochi metri dal mare, con intorno solo silenzio e palme!". Questo è stato anche il mio desiderio una volta visitate spiagge come quella di Santa Maria, a pochi chilometri da La Habana, in una giornata "caldissima" di dicembre di qualche anno fa. Niente di più complicato però che entrare nelle dinamiche del mercato immobiliare cubano, praticamente inaccessibile agli stranieri. In un paese socialista il tema della proprietà privata è sempre molto delicato ed è per questo che pur considerandosi proprietari del loro immobile i cubani non possono venderlo a terzi. Questo significa che per trasferirsi in una nuova città o più semplicemente in una nuova casa, sono costretti ad affidarsi al meccanismo della permuta: vale a dire lo scambio. Anche se tutto ciò può apparire molto complicato, di fatto funziona, non senza un dispendio d'energie e di tempo. Ma come farà Esterio Segura a sopportare tutto questo?

A.D.H.: Quando ci siamo incontrati due anni fa qui a La Habana tu vivevi in un appartamento nel Vedado, oggi risiedi nel Municipio Playa. Nel frattempo hai passato un periodo ad Alicante, Spagna, ed in seguito a Madrid; sembra che la casa sia per te un vestito da cambiare spesso. Non t'innamori mai dei luoghi dove hai vissuto?

E.S.: In un certo senso non sono io a scegliere di andarmene, ma è come se ogni casa portasse già in se stessa i segni del tempo che vi trascorrerò, mi spiego meglio: pensa di dover alloggiare in un albergo per un periodo e ti dessero la possibilità di scegliere tra tutte le camere a disposizione quella che ritieni più adatta al tuo soggiorno, quella che ha la luce giusta, la vista che più ti piace, il bagno nella maniera che preferisci e così via. Dopo un'attenta selezione trovi la camera dei tuoi sogni e pensi che non la lascerai, ma poi un giorno ti chiamano alla reception e ti annunciano che per motivi tecnici ti devono spostare altrove scusandosi per il disturbo. A quel punto quella camera già non ti appartiene più, tutto era segnato nel tuo destino ma a tua insaputa. Ti faccio questo esempio per dirti che quando scelgo un posto dove abitare sempre me ne innamoro e nonostante ciò la vita, le necessità di lavoro e della famiglia hanno sempre l'ultima voce in capitolo. Alcune case poi sembrano destinate ad essere prese e lasciate come se lo avessero scritto nel loro karma: una di quelle in cui ho vissuto qui a La Habana aveva avuto decine di proprietari, entrandovi sapevo già che anch'io me ne sarei andato presto. Si tratta di luoghi di passaggio sia perché hanno un'energia repulsiva, come in questo caso, sia perché non hanno le condizioni materiali alla sopravvivenza prolungata: al mio arrivo nella Capitale vivevo in un garage senza finestre e senza bagno, ero felice, elettrizzato, giovanissimo, iniziavo l'Instituto Superior de Arte con un milione di aspettative davanti a me, vivere in quel tugurio allora andava benissimo.

A.D.H.: ... ed oggi credi di aver trovato finalmente la casa del cuore?

E.S.: Questa villa mi piace tantissimo ed ha una sua storia. La sua costruzione è iniziata nel '24 e ci sono voluti quattro anni per terminarla in questo stile fortemente razionalista, da allora l'hanno abitata solamente cinque famiglie, di cui l'ultima costituita da dodici persone di colore che avevano frazionato tutto lo spazio per motivi di convivenza. Ho ancora molti progetti in mente per ristrutturarla, modificarla, insomma renderla più personale, ma chi può dire se dopo aver speso tutte queste energie non mi trasferirò nuovamente. Il mio sogno sarebbe in realtà quello di comprare un terreno ed erigervi sopra una casa progettata da me dall'A alla Z, sto pensando seriamente di farlo, ma in Spagna.

A.D.H.: A questo proposito vorrei chiederti: che cosa significa per te, sia come uomo che come artista, vivere tra due paesi tanto differenti, che cosa ti lasciano dentro?

E.S.: L'uno completa l'altro. Cuba, e La Habana in particolare, sono un amore inevitabile, o per meglio dire innato: sono il mio mondo! Trascorrere del tempo qui significa tornare al mio elemento naturale e questo mi ricarica; quando percorro le vie della Capitale ho la certezza che, se giro un qualsiasi angolo della città, tutto ciò che vedrò di fronte a me fino a dove è possibile arrivare con lo sguardo, è perfettamente comprensibile, lo capisco, mi appartiene. É qui dove misuro le mie scelte artistiche e mi sento più libero di sperimentare. Le mostre che progetto sono utili per sondare la reazione degli artisti miei connazionali e di un pubblico che mi è più vicino. La Habana è il mio termometro.
La Spagna costituisce invece una comodità geografica, mi permette di proiettarmi in Europa ma anche negli Usa; soltanto raccogliendo le informazioni che derivano da tanti punti di vista differenti posso tentare di dare al mio lavoro un carattere più universale. Ancora una volta la scelta di trasferirsi a Madrid deriva da circostanze fortuite, in primo luogo dalla coincidenza fra la mia lingua madre e quella parlata in questa nazione. Ciò ha reso il cambiamento più facile non solo per me, ma soprattutto per i miei figli che hanno potuto frequentare una nuova scuola senza troppe difficoltà. Allo stesso tempo però vivere in Europa mi ha dato la possibilità di avere uno scambio continuo con persone di cultura e lessico diversi, nella sola Spagna gli idiomi variano dal catalano al dialetto basco. A Cuba esiste un'unica altra lingua oltre allo spagnolo ed è quella yoruba: una parlata d'origine africana che solo gli iniziati alla religione afro-cubana conoscono e che rimane perciò un vero e proprio mistero ai più. Questo mescolarsi di lingue diverse ma contigue che respiro oggi in Europa, mi permette di superare il sentimento di separazione cronica che mi porto dentro in quanto cubano, in quanto abitante di un'isola.

A.D.H.: Tanti trasferimenti implicano la presenza continua nella tua vita di scatoloni da riempire e svuotare per portare con te gli oggetti ai quali sei affezionato, ma anche i ricordi e molto spesso, soprattutto a Cuba, materiali che potranno servirti in seguito come parti delle tue opere. Ti sei mai soffermato a pensare a quest'accumulazione che nasce dalla necessità?

E.S.: É un fenomeno che può assumere caratteri davvero divertenti; per prima cosa mi viene da sorridere quando penso a come con il passare del tempo questi sgomberi siano divenuti sempre più impegnativi. Quando sono arrivato a La Habana avevo con me una semplice valigia, più tardi ho avuto bisogno di una macchina per spostarmi con tutte le mie cose da un'abitazione all'altra e poi, in crescendo, un vero e proprio camion per traslochi. Se dovessi muovermi oggi ne sarebbero necessari per lo meno due. Per fortuna, ogni tanto, mi metto a fare "pulizia" e capita perciò che partano da casa mia anche camion pieni di roba destinata al macero. Sono della convinzione che l'essere artista comporta circondarsi da ciarpame, da tarecos come si dice a Cuba, questa robaccia che nessuno vorrebbe in casa propria e che altro non è se non il naturale residuo delle opere prodotte, soprattutto in un contesto dove il riciclaggio di oggetti costituisce un compito quotidiano per la sopravvivenza. Immagino che una volta morto entreranno nel mio studio e vi troveranno un tale cumulo di cianfrusaglie da poterne riempire le sale di un museo, e questo pensiero mi rende orgoglioso della mia arte!

A.D.H.: Mi puoi parlare dell'installazione Casa tomada che hai presentato in occasione della Octava Bienal de La Habana nel 2003? Ha qualche relazione con i tuoi abituali cambiamenti d'abitazione?

E.S.: Il titolo deriva da un racconto di Julio Cortazar che mi ha particolarmente colpito. È la storia di un gruppo di persone che convivono sotto lo stesso tetto ma che sono respinte da una forza misteriosa che pervade la casa, tanto da finire poi in mezzo ad una strada. Già dal 2000 avevo iniziato a realizzare una serie di lavori in cui dei banali oggetti erano collocati in gabbie per uccellini in maniera tale da frustrarne la funzione, perché così imprigionati non potevano essere più utili a nessuno. Nel caso di quest'installazione decisi di prendere a prestito la casa di una persona per ingabbiare tutti i mobili e le suppellettili che vi si trovavano senza spostarle. Incontrai Nimia per caso ed ella si prestò ad aiutarmi con quest'idea. Tra noi nacque una bell'amicizia. Lei, moglie di un ex-combattente che aveva partecipato alla guerra in Angola e che viveva sola già da molti anni, si calò perfettamente nel personaggio tanto che il giorno della conferenza stampa, non vedendomi arrivare, accolse i giornalisti venuti da ogni parte del mondo rinchiudendosi volontariamente nella gabbia che avevo preparato per accoglierla: non poteva sopportare l'idea che vedessero il mio lavoro a metà! Nimia, una donna con un nome che significa "poca cosa" e che invece possiede un grande spirito!