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ArtSEEN Journal (2006-2007) Anno 1 Numero 3 autunno 2006



Il “Moving Locker Show” – La mostra negli armadietti

Marco Chiandetti e Matt Rodda

Una conversazione Marco Chiandetti e Matt Rodda





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The Moving Locker Show –
La mostra negli armadietti

By Marco Chiandetti e Matt Rodda

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The Moving Locker Show
Marco Chiandetti e Matt Rodda
Courtesy ArtSEEN Journal

Marco Chiandetti: Come faremo questo?

Matt Rodda: Chiacchieriamo.

MC: Beh, io posso, err, suppongo posso farti una domanda…perché eri interessato a fare questo progetto?

MR: Uno passa così tanto tempo facendo i propri lavori, essendo assorbito in ciò che fa, così avere l’occasione per curare una mostra, anche in miniatura come questa, un gruppo di altre persone, ti da una prospettiva diversa, e si tratta di trovare un posto più grande, una scena d’arte più vasta.

MC: Credi che l’aspetto curatoriale del lavoro di un artista sia importante oggi?

MR: Uno si trova coinvolto in tante mostre, dove fai tutto da solo, ti devi stimolare, devi curare le tue proprie opere di continuo. E’ un lusso avere qualcun’altro che cura il tuo lavoro. E anche se gli armadietti sono stati cuarti in parte minima, credo che l’aspetto curatoriale è stato quello di definire gli spazi che la gente avrebbe usato. E’ stato interessante vedere il responso della gente.

MC: Si, credo che ciò che sia stato eccitante per me in questo progetto fosse che non si trattava di un spazio qualunque, ma di un spazio molto specifico, essendo esso l’interno degli armadietti scolastici, che non erano in un ambiente o un contesto specifico, il contesto cambiava di continuo, visto che portavamo gli armadietti in giro. Allora aveva l’aspetto, in parte di una performance, in parte un intervento, ma allo stesso tempo l’idea tradizionale di una galleria, nonostante gli spazi fossero minuscoli.

MR: Ero sorpreso dalla risposta della gente a ciò, alcune delle opere che la gente ha creato specificamente per la mostra, mostravano un uso intelligente di quello spazio e di quella idea.

MC: Anche perché gli armadietti hanno le porte che si aprono e si chiudono.

MR: E’ stata un’impresa il solo portarli in giro, e come le porte erano chiuse quando si spostavano, e quando ci fermavamo, aprivamo tutte le porte. E’ stato come una fiera…

MC: Aveva una certa estetica della Fiera Vittoriana.

MR: Giocava con le idee dell’arte come un divertimento. Era un intrattenimento, uno spettacolo vederlo portato in giro in posti inusuali. Ha sorpreso molte persone ed ero curioso di vedere come la gente rispondeva a tutto questo.

MC: Assolutamente, anche perché a volte le gallerie sono così elitarie, spazi non molto invitanti, così suppongo che ci fosse un senso nel portare il lavoro alla gente, portarlo là dove la gente non necessariamente vedrebbe queste cose. E la cosa che mi piaceva così tanto, era che non aveva un territorio fisso e che credo che la ci sia qualcosa d’interessante, sai, politicamente, perché la gente diventa così territoriale, e poi hai questa cosa che non ha nessun territorio, cambia continuamente posizione, è in movimento.

MR: A me sembra non avesse neanche un’appartenenza, anche se abbiamo iniziato noi, direi che l’abbiamo solo iniziato perché non ci appartiene

MC: Assolutamente, non me ne sento l’autore per nulla. Definitivamente mi sembra più un qualcosa di condiviso.

MR: Un’impresa.

MC: Certo, tra noi ed i dieci artisti che hanno partecipato.

MR: Avevi uno scopo specifico?

MC: Sai, abbiamo questi armadietti, ed io continuavo a pensare a Chris Burden, suppongo fossi interessato all’idea di avere uno spazio alternativo dove non credevi di trovare una mostra. E il fatto che queste porte possono essere chiuse a chiave e tutto quanto riporta all’ambiente scolastico.

MR: Per me ha funzionato su diversi livelli, avevi l’immagine dell’armadietto scolastico la proprietà individuale di un armadietto quando qualcuno ci mette sopra il proprio timbro.

MC: Certo dava una sensazione dell’ambiente del liceo.

MR: Può darsi quello dipende dal fatto che frequentavamo un’istituzione d’arte quando ne abbiamo pensato. Ma anche, forse ci penso troppo, ma l’idea di uno spazio che si chiude a chiave, e tornando all’ istituzionalizzazione del mondo dell’arte, questi spazi vengono chiusi e uno deve fare uno sforzo concertato per andare in una galleria.

MC: E per me, suppongo, non sembra essere un progetto ancora finito.

MR: No.

MC: Sembra ci sia più di una collaborazione tra noi rispetto a questo progetto, anche perché i nostri lavori sono abbastanza simili in alcuni aspetti, così era interessante vedere gli armadietti arrivare da un matrimonio tra nostri lavori.

MR: Sono pienamente d’accordo, non sembra sia ancora finito, ma non sono sicuro che sia ad un punto dove le idee che ha suscitato hanno bisogno di manifestarsi e diventare qualcosa di diverso.

MC: Non credo abbia bisogno di rimanere in quel formato.

MR: Il problema nell’usare la stessa forma continuamente è che finisce per creare la propria istituzione, una propria serie di stili, dove se uno continua a cambiarla e continua ad evolverla, allora forse ha un po’ più di libertà.

MC: Suppongo che ci sia un senso di paternità rispetto al fatto che uno abbia creato quel luogo.

MR: Ma quello è più un’idea, sarebbe stato molto diverso se avessimo costruito gli armadietti, invece appropriarcene è stato diverso. Alla fine della giornata gli armadi torneranno alla loro funzione come armadietti.
Avevi un’opera preferita?

MC: C’erano lavori riusciti molto bene e per molto tempo non sapevamo cosa allestiva la gente, il ché è fantastico, perché bisogna dare la libertà a tutti anche se la struttura era molto specifica. Mi piace l’isola, sentivo che lo spazio si è trasformato e diventava qualcos’altro. Era teatrale. Mi piace la tenda, perché la gente continuava a chiedere cosa c’era dietro, quando infatti, non c’era nulla dietro la tenda. Ho imparato molto dalle installazioni degli altri.

MR: C’era un contrasto tra le opere che trasformavano lo spazio e le opere che esistevano come un oggetto dentro lo spazio, come la piccola casa.

MC: C’era un senso dell’umorismo esteso quando hai installato un minuscolo bar funzionante, dove venivano offerte le bevande alla gente, e il bar aveva l’aspetto come se ci fosse stata una rissa all’interno. Ed era un tema fisso quando portavamo fuori gli armadietti.

MR: Ero meravigliato di come le mostre avevano un atmosfera diversa tra di loro...

MC: E la gamma di lavori dalle istallazioni video alle opere sonore…

MR: E le opere cinetiche.

MC: Sembrava fosse vivo.

MR: I miei luoghi preferiti dove venivano visiti i lavori erano le fermate d’autobus…

MC: Si, le fermate degli autobus possono essere luoghi così noiosi, così pietrifica-cervello mentre aspetti per l’eternità un bus...

MR: L’unica cosa che puoi osservare è la strada...

MC: O alcune pessime pubblicità. Era sbalorditivo quanta gente non voleva guardare gli armadietti

MR: Evitandoli completamente, come se non esistessero. (ride)

MC: Quali sono le implicazioni?

MR: Non cambierà il sistema delle gallerie, ma sembra vitale, è una di quelle attività marginali che rende il sistema ciò che è.

MC: E queste cose alimentano sempre il proprio lavoro in qualche maniera, rendendole attività alternative al proprio lavoro.

MR: Sarò molto contento di mantenere la sensazione della mostra negli armadietti nella mia testa quando sarò ad allestire le opere in una galleria. Se uno riesce a portare un po’ di quel humour e di quella realtà, ricordando sempre che c’è un’ audience alternativa là fuori, oltre ai frequentatori delle gallerie. Qualcosa da tenere presente mentre uno lavora.

MC: Certo.