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Art'O (2005-2009) Anno 8 Numero 21 autunno 2006



L’artificio melanconico

Silvia Fanti

Conversazione con Gisèle Vienne



cultura e politica delle arti sceniche


Prima pagina

GEOGRAFIE

Dove va l’occhio di chi guarda
Conversazione con Pippo Delbono
Di Gianni Manzella

Questo buio feroce
Di Gianni Manzella

Hans Bellmer e la sessualità inorganica della Poupée
Di Marco Dotti

L’artificio melanconico
Conversazione con Gisèle Vienne


Di Silvia Fanti

Nuove geografie del corpo: Cindy Sherman
Di Enrico Pitozzi

Il corpo occluso di Francesca Proia
Riflessioni con Francesca Proia e Danilo Conti
Di Adele Cacciagrano e Jacopo Lanteri

Alvis Hermanis: per un teatro umano
Di Massimo Marino

Alla ricerca di una piattaforma felice
Di Massimo Marino

Elogio dello striptease
Conversazione con i protagonisti di Nightshade
Di Giulia Palladini

Non basta più nulla, alla fine
Conversazione con Luca Camilletti sullo spettacolo Fine (includendo il testo
Le presidentesse di Werner Schwab)
Di Jacopo Lanteri

Dentro la vertigine del linguaggio
Alcune riflessioni sul nostro lavoro degli ultimi anni
Di Accademia degli Artefatti

Ricordando il tempo presente
Di Paolo Ruffini

VISIONI

La pornografia sublime di Iké Udé
Di Viviana Gravano
Tecnologie della percezione: la scena secondo i Dumb Type
Di Enrico Pitozzi

Adriano Canzian: il pop, il porno e la trasfigurazione elettronica
Di Fabio Acca

Il ring degli esorcismi culturali
Conversazione con Jonathan Meese
Di Paul Clinton

L’eros di una trottola. Per vedere “tra”
Viaggi nell’Utopia di Jean-Luc Godard
Di Elfi Reiter

DEC ROOM

Adriano Persiani

DARK ROOM

A cura di Fabio Acca
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My Complement, My Enemy, My Oppressor, My Love. Kara Walker
Giulia Grechi
n. 28 autunno 2009

Teatro Superstite
Marco Pustianaz
n. 27 primavera-estate 2009

Il teatro della memoria futura
Annalisa Sacchi
n. 26 autunno 2008

Deep Trance Behavior in Potatoland di Richard Foreman
Giulia Palladini
n. 25 primavera 2008

Il critico come etnografo?
Viviana Gravano
n. 24 autunno-inverno 2007

Alla ricerca del gesto perduto
Gianni Manzella
n. 23 primavera 2007


Gisèle Vienne, I apologize, 2004. Foto Philippe Munda

Gisèle Vienne, Une Belle Enfant Blonde , 2005. Foto Mathilde Darel

Gisèle Vienne, 2005. Foto Gisèle Vienne

In diverse occasioni hai detto che per te la scena è come un luogo di cerimonie per i nostri fantasmi. La presenza di manichini, oggetti antropomorfi e bambole accanto a figure umane nei tuoi spettacoli è un modo di interrogare il rapporto tra corpo vivente e corpo artificiale (il simulacro)?

Il mio lavoro nasce dall'incontro di due discipline artistiche – la danza e il teatro delle marionette – che hanno a che fare col corpo, ciascuna a suo modo: la prima lavora con il corpo, la seconda con l’oggetto. È il rapporto tra queste due forme espressive – ossia l’influenza reciproca che esercitano il corpo e il corpo artificiale – che mi ha spinto a passare dalla bambola al corpo, e quindi dal teatro delle marionette alla coreografia. Gli interrogativi posti da questo confronto mi sembrano fondamentali per quanto riguarda la riflessione sull'immagine, l'idea e la percezione che attualmente abbiamo del corpo, così come delle possibilità di cui disponiamo per trasformarlo, e quindi idealizzarlo, disumanizzarlo o abbassarlo a mero oggetto. Il rapporto corpo-oggetto è modificato innanzitutto dalla percezione urbana del corpo, cioè oggetti e macchine “prendono corpo” e allo stesso tempo il corpo tende a disumanizzarsi. Se nell’arte si è passati da un “corpo meccanico” a un “corpo liberato”, ora è come se si accogliesse un'estensione che va a protrarsi oltre il campo del vivente, in una fusione di reale e irreale.
Gli spettacoli che abbiamo creato finora trattano effettivamente di proiezioni fantasmatiche e della loro messinscena come esperienza poetica.
Innanzitutto, c’è una passione per le bambole, le maschere e altri oggetti antropomorfi che mi ha portato dalla filosofia e dalle arti plastiche verso il teatro delle marionette. Mi interessa capire qual è la significazione del corpo artificiale in scena. La bambola materializza l’antagonismo drammatico in un corpo, creando la connessione tra erotismo e morte. Sotto le sue spoglie fisiche evoca sia l'incarnazione che l’assenza, la mancanza, ovvero il fantasma disincarnato. Di qui sorge questo corpo rappresentato come stato intermedio tra corpo reale e corpo immaginato, semplice oggetto e prodigioso trampolino di lancio per altre proiezioni immaginarie.
La maschera – come il trucco o altri travestimenti – permette di incollare fisicamente un’altra immagine su un corpo spogliato della sua identità. Il perturbamento risiede nel fatto che non si riesce a fissare un’immagine, essendoci simultaneamente il corpo fantasma e il corpo reale sul quale questo fantasma agisce come proiezione, come immagine. Ecco evocato quel sentimento indistinto che caratterizza l’esperienza poetica, come è descritta da Georges Bataille nel suo L’erotisme: “La poesia conduce allo stesso punto a cui ci conduce ogni forma di erotismo, a non distinguere, a confondere gli oggetti distinti. Essa ci conduce all’eternità, essa ci conduce alla morte e, attraverso la morte, alla continuità […]”.
Forse è per queste ragioni che le relazioni tra immagine e movimento, tra rappresentazione e realtà, occupano un posto centrale nel mio lavoro.

Quindi nelle tue messe in scena la separazione tra animato e inanimato, tra reale e irreale, è incerta…

La relazione tra reale e irreale, e tra animato e inanimato, mi permettono entrambe di evocare i rapporti tra il fantasma e la realtà, e mi interessano perché il dialogo tra dimensione fantasmatica e dimensione reale è il cuore di tutte le problematiche legate alla percezione della realtà.
Si tratta di interrogare il nostro rapporto con la realtà, di trasformare il nostro modo di pensare, o perlomeno di mantenersi flessibili alla trasformazione della lettura del nostro rapporto col reale. È una spinta a ricercare forme sempre nuove, o a interrogarsi sulle forme di cui ci serviamo, cercando di mettere in discussione le strutture del nostro pensiero e la definizione di ciò che è reale e ciò che non lo è.
La distinzione tra finzione, fantasma e realtà permette di sviluppare liberamente tutto ciò che ci anima nel regno dell’irreale, assumendo il reale e i suoi segni come trampolini di lancio. La connessione tra erotismo e morte può essere esaltata in molte maniere, per esempio usando degli oggetti, e come ho già detto, la bambola. Questo rapporto con il “fantasma” permette di individuare l’espressione necessaria a esaltare il mondo delle proiezioni mentali in piena libertà, svincolati da ogni ristrettezza morale.

Affermi ancora: “L'anatomia è una materia da definire, da sottomettere al proprio desiderio.” Come si relazionano il corpo del danzatore e quello della bambola? Parlavi per l'uno di una fuga, e per l'altro della ricerca di un centro di gravità nel movimento. C'è quindi un codice cinetico e un vocabolario gestuale che condividono (o che li separa)? In sostanza, cos'è per te – che hai a che fare con fissità e movimento sulla medesima scena – una coreografia?

Le questioni sollevate dal rapporto tra immagine e movimento permettono di interrogare anche il rapporto tra finzione e realtà. Tutto il mio lavoro è attraversato dalla ricerca sull’immagine, sia in relazione a forme di rappresentazione statica (la fotografia, il quadro, la statua) che al movimento, nonché alla scena reale. Spostandomi tra questi poli indago le connessioni esistenti nel movimento tra rappresentazione e realtà. A partire di qui, la creazione di forme incrociate tra arti plastiche e spettacolo dal vivo creano un’ambiguità nella forma che mi pare altrettanto inerente al teatro di figura. Il rapporto tra corpo e corpo artificiale è trattato quindi da un punto di vista plastico attraverso l'uso di oggetti, di corpi “ritoccati” e di presenze umane. Lo stesso vale da un punto di vista coreografico, se vogliamo considerare il vocabolario gestuale utilizzato. Quest’ultimo nasce da movimenti “intermediari” tra immagini e personaggi reali. La tipologia dei movimenti ritoccati è multipla: ci sono movimenti scomposti, meccanici, influenzati dalle possibilità di movimento di corpi artificiali, passando da quello estremamente stilizzato a quello più realistico. Questo vocabolario – che presenta un ampio spettro motorio che va dall’immobilità alla naturalezza – può ricordare a tratti gli effetti cinematografici o i movimenti tipici della marionetta.
Per quanto riguarda la rappresentazione del corpo, né la marionetta, né le maschere e gli altri artifici, vengono utilizzati come strumenti magici, piuttosto vorrei giocare con l’illusione suscitata dalle apparenze che si prendono gioco della razionalità. Questa costruzione dei corpi è testimone delle proiezioni e dei desideri che abbiamo rispetto ai nostri corpi e, in senso più ampio, rispetto ai mondi reali e ipotetici nei quali essi evolvono.
Le partiture coreografiche che abbiamo elaborato permettono ai diversi elementi che le compongono (suono, movimento, luci, interpreti, oggetto, testo…) di interagire al pari dei singoli strumenti musicali in seno a una partitura per orchestra. Cosa che a volte può disorientare nell'identificazione di uno specifico genere artistico, a seconda che l'uno o l'altro elemento prenda il sopravvento nello spettacolo. Se finora la musica e il testo sono stati alla base della scrittura dei nostri spettacoli, nell'elaborazione successiva gli elementi primari sono i corpi e gli oggetti antropomorfi. Il lavoro creativo diventa così un’esplorazione dell’emozione che nasce dal rapporto intimo tra bambola, erotismo e morte, rapporto evocato proprio dalla perturbante immobilità di quest’ultima.

Che ruolo ha l'immaginazione dello spettatore di fronte all'inerzia delle figure? Erotismo e morte ritornano, così come i riferimenti ai testi di Bataille, Sacher-Masoch, Genet, Hans Bellmer, Dennis Cooper che vi hanno accompagnati. A che immaginario ti riferisci nei rapporti tra scena e pubblico? Si può parlare di sguardo pornografico?

I nostri spettacoli portano a interrogarsi sull'esperienza della lettura del reale e del mondo delle proiezioni mentali, mettendo lo spettatore di fronte a diversi registri della rappresentazione. Si tratta di guardare come si esprimono i fantasmi, le ossessioni e i timori di ciascuno, e quanto ne siamo consapevoli, sia in seno a quello che è presentato, sia in seno alle ipotesi da noi immaginate.
Credo che quello che propongo, come tutte le forme d’arte, possa svolgere la funzione di esorcizzare i fantasmi collettivi e individuali. Questi spazi artistici diventano così spazi di libertà, individuali o collettivi, ma in ogni caso spazi particolari perché affrancati dalla morale, capaci di agire sul comportamento razionale. Lo spazio artistico è, per me, uno spazio assolutamente necessario per la libertà, quale riflesso delle nostre passioni e dell'immaginazione, separato dalla nostra attività razionale e ordinata. Questi spazi offrono la possibilità di affrontare le nostre proiezioni, di esprimerle, scoprirle e interrogarle, ed è essenziale farlo nella buona fede, riguardo alle passioni che ci animano, per comprendere in quali spazi vorremmo viverle, quelle passioni. La cattiva fede, invece, che consiste nel negare queste fantasie, soprattutto quelle che urtano violentemente la nostra morale, proprio nel dominio destinato ai fantasmi – cioè nell’immaginario – porta a condannare l’espressione di certi desideri in campo artistico. Se invece l’espressione di queste immagini mentali, con la massima buona fede (per quanto possibile), avviene in un campo preciso come quello dell’arte e appare necessario alla società, allora è plausibile che questa onesta presa di coscienza delle nostre pulsioni possa permettere anche un’apertura di spirito e una maggiore tolleranza.
È vero che Bataille, Sacher-Masoch, Genet, Bellmer, Dennis Cooper, nei loro testi fanno quasi tutti riferimento al rapporto tra morte e erotismo, e lo fanno – tra molti altri punti – in maniera assai distinta l’uno dall’altro, ed è vero anche che questo in qualche modo crea un punto di contatto tra loro, e tra loro e il nostro lavoro. Aggiungerei però, senza voler rendere esaustiva la lista di autori che evocano questo soggetto, Sade e Robbe-Grillet, che hanno altrettanto influenzato il mio lavoro.
Dal momento che prima ho parlato di esperienza poetica riferendomi all’esperienza erotica descritta da Bataille, vorrei precisare che era per evocare l’esperienza di quel sentimento “di non sentire il corpo nel mondo”, tipico di certe esperienze mistiche, sessuali o di quelle dei guerrieri, sentimento espresso anche in maniera reale e/o metaforica da quell’esperienza assoluta che è la morte, ossia la disintegrazione reale, oppure immaginata, del corpo: il suo farsi indistinto in modo definitivo in questo mondo. Questo è il tipo di esperienza che vorrei far provare al pubblico. Lo spettatore può fare questa esperienza in modo empirico, o per qualche fortunata alchimia, grazie alla rappresentazione stessa, o meglio, attraverso la rappresentazione dei personaggi che la evocano.
Per quanto riguarda ciò che si intende per pornografia, Alain Robbe-Grillet negli anni settanta diceva che “la pornografia è l’erotismo dell’altro”. La concezione che se ne può avere dunque non è altro che il corollario dell’evoluzione delle diverse mentalità. Il nostro lavoro, trattando dell’erotismo dell’altro e soprattutto di un’altra forma di erotismo per la gran parte degli spettatori, in questo senso può essere definito pornografico! Se vogliamo aggiungere che la definizione della parola “pornografo” data nella grammatica di Atene del II secolo d.C. si usava per indicare gli artisti che eccellono nell’arte di rappresentare le cose dell’amore, allora il nostro lavoro è – speriamo proprio in questo senso – doppiamente pornografico.
Gli spettacoli che proponiamo chiedono molto all’immaginazione perché mostrano ben poco: siamo per così dire “riservati” a livello visivo, ed è risaputo che la semplice evocazione può urtare maggiormente alcune sfere sensibili. Ma in definitiva, dato che il nostro lavoro parla dell’esperienza erotica in una prospettiva in cui l’esperienza sessuale non è che uno degli aspetti, non mi sembra appropriato parlare di pornografia.

La creazione di un corpo artificiale pone la questione del rapporto tra immaginario e reale e quindi della percezione del corpo. Che esperienze hai indagato sulla trasgressione di un modello e sullo stereotipo (di genere e identità)?

Mi interessa molto la confusione creata da una identità sessuale non definita. Nel movimento che genera il travestimento per esempio – un movimento di oscillazione tra quello che siamo, o meglio che ci è imposto dal nostro codice genetico, e quello che vorremmo essere e costruiamo – è fortemente leggibile. Oserei dire che, più grande è lo spazio di oscillazione, più quello che costruiamo a partire dal nostro corpo si avvicina a ciò che sognamo, e più quel difetto che ci separa dalla perfezione immaginata mi appare doloroso ed emozionante! Se è vero che l’oscillazione tra diversi sessi è forse l’ambito da me prediletto, è vero anche che lo stesso fascino lo ritrovo in ogni tipo di mascheramento. Un adolescente gotico che si afferma con un certo tipo di abiti, trucco, gioielli, ci fa facilmente immaginare il modello a cui vorrebbe assomigliare, assieme a tutto l’universo di immaginari in cui gravita: al di là del fatto che il suo vestirsi bizzarro sia più o meno perfetto, il difetto tra realtà e immaginario continuerà a persistere, ed è esattamente questo difetto che è, ed è sempre stato, al centro del mio interesse.
La mia passione per il mascheramento e per il travestimento è stata la forza motrice principale che mi ha condotto verso le arti della scena. E per andare maggiormente in questa direzione ho deciso di collaborare con Jean-Luc Verna che, oltre a essere un collaboratore da sogno, incarna entrambi gli aspetti della trasformazione di cui ho parlato prima, la trasgressione del genere e la trasgressione dell’apparenza imposta dal suo corpo. L’oscillare tra il suo essere maschile e la sua femminilità (che sia travestito o meno), e tra ciò che lui era e ciò che desidera diventare scolpendo il suo corpo e riempiendolo di tatuaggi, ne fa un corpo estremamente perturbante, un corpo vivo, in uno stato intermedio tra la realtà (il suo corpo nel mondo che lo circonda) e il fantasma (del suo corpo nel relativo mondo fantasma).

Melodia e violenza: una miscela conturbante che è anche una forma di poesia indiretta. C'è un'eco tra musica, coreografia e rappresentazione plastica. A più riprese hai collaborato con Peter Rehberg (noto come Pita, fondatore dell'etichetta viennese Mego) che ha curato il suono per le tue creazioni. Qual è il nesso con la musica elettronica?

Innanzitutto c’è grande affinità di sensibilità tra noi. La sua musica è fatta di movimenti fluidi da cui sporadicamente emergono le parti melodiche e le frasi significanti, come l'apparizione di una certa umanità. Si tratta di momenti rari, disseminati col contagocce nei nostri spettacoli. Per rendere l'atmosfera sonora a livello visivo, potete immaginare un essere umano in mezzo a un quartiere come l’asettico La Defense a Parigi. L’impatto creato dall’irruzione di questi elementi “più umani” sembra tanto più violento ed emozionante proprio per la loro rarefazione; sono suoni smembrati, decostruiti, che appaiono e scompaiono. Il lavoro musicale e quello coreografico sono intimamente legati nelle scelte estetiche e nelle soluzioni realizzative, come lo sono per certi aspetti le nostre modalità di lavoro. La musica viene composta prima, durante e dopo le prove, a partire dalla coreografia, e la coreografia si crea a partire dai suoni: si costruiscono incrociandosi. Per creare i movimenti parto dall’improvvisazione, successivamente molto ritoccata con l’aiuto di effetti multipli che possono ricordare quelli utilizzati dallo stesso Rehberg (pause, casualità, diminuzione, amplificazione, cambiamento della direzione, cadute…la lista è lunga), eliminando e ricostruendo spesso fino a non riconoscere più il materiale di partenza: creiamo continuamente movimenti che via via vengono inseriti nel corso del montaggio dello spettacolo.

Dalle fantasie intime ti sei spostata alle fantasie collettive. La tua collaborazione con lo scrittore americano Dennis Cooper continua con l'indagine sul corpo nella rappresentazione dell'iconografia tradizionale austriaca...

Sì, attualmente stiamo lavorando a Kindertotenlieder e Jerk, due nuovi spettacoli per la primavera 2007, che intrecciano quattro testi di Cooper, e che vorremmo realizzare in collaborazione con lui, come già abbiamo fatto nel caso di I Apologize nel 2004 e di Une belle enfant blonde nel 2005.
Kindertotenlieder è una riflessione sulla rappresentazione dello spavento legato alla morte e la sua prossimità alle sembianze umane come l’apparenza del corpo e il comportamento. Queste forme di rappresentazione si avvicinano a ciò che Freud chiamava “il Perturbante”: la rappresentazione di una forma familiare e al contempo strana, per cui inquietante. Essa costituisce una risorsa privilegiata delle esperienze catartiche che caratterizzano le cerimonie, i riti e gli spettacoli come quelli a cui facciamo riferimento per questa nuova creazione: la marcia dei Perchten. Kindertotenlieder evoca la tradizione austriaca legata a personaggi come i Perchten (figure diaboliche che si rifanno all’immaginario religioso-profano, Ndt) che sorgono nell’inverno per cacciare i demoni e punire le anime dannate. Questa tradizione tuttora in voga risponde ancora una volta a certe fantasie che ci animano e che sono legate alla crudeltà, all’innocenza e all’espiazione. Mi interessano in quanto fantasmi espressi all'interno di una tradizione. Ciò mi ha portato a interrogarmi sulla confusione che si può creare tra i luoghi di espressione di questi fantasmi – come le cerimonie rituali – e la realtà. In effetti, sì, con questo nuovo lavoro, l'interrogativo sul rapporto tra finzione e realtà nella sfera intima, si sposta sulla confusione tra fantasma e realtà nella sfera collettiva.
Jerk, il secondo spettacolo in cantiere, è una ricostruzione dei crimini perpetrati da Dean Corll, serial killer americano che grazie all’aiuto di due adolescenti, David Brooks e Wayne Henley, ha ucciso oltre venti ragazzi nel Texas a metà degli anni settanta. Nello spettacolo, David, che sarà interpretato dal marionettista Jonathan Capdevielle, espia la sua pena in prigione dove impara l’arte delle marionette come una specie di terapia che gli permette di affrontare le sue responsabilità nei crimini. Lui stesso scrive un testo che ricostruisce gli assassinii di Dean Corll facendoli interpretare alle marionette, e presenta questo suo spettacolo in prigione davanti a una classe di studenti di psicologia di una università locale. Jerk è un assolo per marionettista, è uno spettacolo più narrativo che sarà anche l’ultimo del ciclo che ruota attorno al rapporto tra simulacro e realtà. Qui si affronta il fantasma dell’assassinio. I diversi aspetti di questo tipo di fantasie sono evocati dalla esperienza di finzione dei personaggi interpretati, tra gli altri, da Jonathan Capdevielle e Anja Röttgerkamp, così come dall’esperienza reale degli scrittori Dennis Cooper e Catherine Robbe-Grillet, già interpreti di Une belle enfant blonde.

Traduzione a cura di Elfi Reiter