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Espoarte Anno 7 Numero 41 giugno-luglio 2006



Regina José Galindo

Viviana Siviero

Intervista



Contemporary Art magazine


[GIOVANI]
36 Michelangelo Galliani
40 Serena Piccinini
44 Paola Pansini
48 Emiliano Di Mauro
52 Gosia Turzeniecka
56 Emanuela Fiorelli
60 Roberto Messina

[PROTAGONISTI]
64 Christo e Jeanne-Claude
68 Regina José Galindo
72 Simone Frittelli

[SPECIAL GUEST]
78 Gruppo A12
82 Robert Gligorov
86 Vasco Aràujo
90 Gioacchino Pontrelli

[RUBRICHE]
94 [RAPTURE]
96 [NO MAN’S LAND]
100 [EDITORIA]

[DOSSIER LUOGHI SPAZI]
102 Museo Bilotti
104 Acciaierieartecontemporanea

[PROGETTI&DINTORNI]
106 Written City
107 Allarmi 2
108 Velasco, Tana
109 H.H.Lim, Parole

[EVENTI]
112 Giulio Paolini
114 Tom Sachs
116 Concetto, Corpo e Sogno
118 Sound & Vision
120 Less
122 Omar Galliani

[RECENSIONI]
124 Rudi Wach
125 Settimana della fotografia europea
126 Martin Parr
127 Leandro Erlich
128 Il diavolo del focolare
129 Gastone Novelli

[IN GALLERIA]
132 Flavio Favelli
133 Infrared
134 Urs Luthi
135 Mauro Staccioli
136 Gülsün Karamustafa
137 Luca Caccioni
138 Lida Abdul
139 The Green Fuse
140 Thomas Hirschhorn
141 Corrado Bonomi
142 MOG
143 Luisa Raffaelli
144 Stefania Galegati
145 Matteo Bergamasco
146 Il Papero Rosso
147 Walter Valentini
148 Paul Goodwin
149 Dialogo I
150 Wim Delvoye
151 Carlo Steiner
152 Veronica D’Agostino/Matteo Basilé
153 Andrea Mariconti
154 Refresh Project/Bang Bang

[NEW ENTRY]
155 Container
156 Romberg
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Regina José Galindo
¿Quién puede borrar las huellas?
still da video, 2003

Regina José Galindo
Limpieza social, 2006
Galleria Civica di Trento
fotografo Hugo Muñoz

Regina José Galindo
Perra
performance
Prometeogallery, Milano 2005.

Magra e minuta, dalla pelle olivastra, un sorriso radioso e un’energia contagiosa anche in stato di riposo. L’abbiamo incontrata a Trento, sulla strada di ritorno da una nuova performance, presentata nell’ambito della mostra della Galleria Civica di Trento, dal titolo Il potere alle donne a cura di Luca Beatrice, Caroline Bourgeois e Francesca Pasini.
In mostra, una registrazione dell’azione è proiettata sotto una volta di pietre umide che, per l’occasione, si fanno opprimenti e gelide. Nel video, altre pietre, quelle antiche della cinta muraria della città di Trento. È marzo: appare Regina, che al grido di Limpieza social, offre il suo corpo sociale al sacrificio, alla violenza di un getto d’acqua gelata. Elemento che evoca la vita e la rinascita, si trasforma in strumento di prevaricazione. Dall’altra parte, il piccolo corpo innocente, dimostra ad uno ad uno le sue qualità sensibili: soccombe al gesto inevitabile, ma non si lascia vincere. Un corpo territorio dove la battaglia si svolge sia realmente, sia metaforicamente: un corpo capace di ridefinire l’intorno fatto di nulla, assorbendo le sofferenze e divenendo portavoce di quanto altri non vogliono dire.
Dopo alcune ore, cambiato contesto, la cosa più commovente, è stato sentir dire a Regina -la “piccola donna” che si è aggiudicata il Leone d’oro come artista giovane all’ultima edizione della Biennale di Venezia- «che fredda questa serata…».

Viviana Siviero: Nel tuo lavoro l’appartenenza sessuale pare essere un dato particolarmente interessante; sei orgogliosa di essere “femmina”?
Regina Galindo: Sono più che orgogliosa del mio sesso, sono riconoscente e sento rispetto per la condizione che, in questo ciclo, mi è “toccato” vivere.

Nel tuo paese sono tragicamente frequenti le violenze in ambito famigliare: si stima che 3 ragazze su 10 siano vittime di incesti ed abusi sessuali, e ogni 10 donne assassinate, 6 periscono a causa di violenze domestiche. Fra le donne Maya, 3 su 4 sono emarginate a causa del loro analfabetismo. In Golpes (Colpi, 51^ edizione della Biennale di Venezia) lo spettatore ha dovuto (voluto?) familiarizzare con una situazione indeterminata ma riconoscibile, perché ne sentiva solo il suono, divenendo esso stesso metafora delle istituzioni.
Il mio è un paese malato, tremendamente razzista (dato doloroso ed incredibile visto che è terra di indigeni Maya Quiches) e violento, in cui tutti sono vittime. Le donne indigene sono tre volte discriminate: per essere donne, per essere indigene e, nella maggior parte dei casi, per essere povere, conseguenza dell’impossibilità ad accedere all’istruzione.
Molto del mio lavoro scaturisce dalla realtà: in El dolor en un panuelo (Biennale di Venezia 1999 n.d.r.), mia prima performance, feci in modo di proiettare sul mio corpo nudo, notizie ritagliate da periodici locali riguardanti abusi e violenze contro la donna. L’opera (279) Golpes, era un conteggio esatto delle donne assassinate fra il 1 gennaio 2005 e il giorno dell’azione, nel mese di giugno. Si trattava di un’opera sonora: m’interessava che si potesse sentire soltanto il suono dei colpi scoccati contro la pelle. Una metafora di ciò che succede quotidianamente nel mio paese: le cose accadono, il mondo intero sa quello che succede, ma resta in ascolto, senza fare nulla a riguardo.

Nel celebre ¿Quien puede borras las huellas? (chi può cancellare le impronte?), cammini fra la Corte Costituzionale e il Palazzo Nazionale di Ciudad de Guatemala, lasciando impronte rosse di sangue, ipotetico cammino, abito metaforico di ciò che attraverso la memoria non si può (e non si deve) cancellare.
Quest’azione, oltre che onorare la memoria delle migliaia di morti del confitto armato del Guatemala, denuncia la posizione malata del generale Rios Montt, genocida accusato dalla Corte Internazionale per aver manipolato la legge, che si è poi lanciato come candidato presidenziale…

All’inaugurazione della Prometeogallery di Milano di Ida Pisani, ti sei incisa sulla pelle le lettere P,E,R,R,A, cagna, nomignolo di ogni donna violentata ed uccisa, che compare sui muri dopo che il violento gesto si è consumato…
Sono molti i corpi delle donne assassinate in Guatemala, ritrovati mutilati, con evidenti segni di violenza sessuale, segnati con coltelli a serramanico che riportavano scritte come «maledette cagne», «morte a tutte le cagne»…

A tal proposito, è evidente il fatto che il mondo stia vivendo una difficile situazione: in scena la “solita, vecchia, drammatica, storia”, che vede fra i protagonisti “Fame”, “Dolore”, “Ingiustizia”, in una danza macabra e rituale, al confine fra vita e morte. Queste ultime entità paiono ormai esser senza peso; la loro inconsistenza spicca a fianco della pesantezza del corpo-cadavere. Alla Biennale di Tirana nel 2005, hai sottoposto le tue carni ad un dolore evidente a livello emotivo ma non narrativo. In Vertigo, ti sei trasformata in una sorta di anti-angelo, facendo sentire a tutto il pubblico il peso del corpo. Un corpo che crea lo spazio circostante. Uno spazio alla mercé di un fluttuare corporeo irregolare nell’aria.
Vertigo nasce con l’intenzione di mostrare la fragilità della vita. Ho cercato di trasformare l’immagine del mio corpo in un pendolo, col mio corpo al centro, da cui sorgeva un sottile filo di urina, provocata come elemento chiave della paura. In tutta onestà ammetto che la performance ha fatto sì che io perdessi completamente il controllo di me stessa e delle mie azioni. Ho sentito vertigini effettive, arrivando al terrore di sentire tutto il peso di me stessa su piedi gonfi e tumefatti, mentre fluttuavo nell’aria, e nonostante il pubblico, mi sentivo assolutamente sola e senza appoggi.

Ho letto impalcature di paroloni molto pertinenti per spiegare la profondità sociale e antropologica delle tue azioni. Ma com’è stata la vita di Regina, donna cresciuta nel Guatemala degli anni ’80, rinominati “la decade perduta”…?
Molte volte mi sembra di non aver ancora finito di crescere. Ho 32 anni e ciò nonostante continuo ad avere le stesse paure. Nella mia vita mi sono scontrata costantemente e le mie azioni sono atti che, oltre a compiere formalmente una funzione artistica, mi sono servite per capire e cercare di curare certi vissuti. Suppongo che l’essere umano adulto, sia una conseguenza delle sue esperienze: tutto ci segna, ci costruisce e ci definisce.
Crescere in Guatemala è stato un capitolo “fra le nubi”. Nacqui e crebbi in una famiglia patriarcale di classe media, dove non si parlava di quello che succedeva. La guerra fu qualcosa che ignoravo finché piano piano non cominciai ad aprire occhi e orecchie.
Quello che succedeva, riguardava le genti dell’interno e noi, non eravamo indigeni. Ora che sono adulta, riconoscendomi latina, sono orgogliosa di dire che possiedo tratti indigeni, anche se non so neanche una parola in un qualsiasi idioma maya, e vesto sempre abiti “civili”.
Il Guatemala della mia infanzia, malgrado non lo capissi, fu un campo di battaglia; ricordo la bomba che esplose nel parco centrale nel 1980, io avevo forse 7 anni, le finestre del mio collegio si ruppero con fragore.
Ricordo notizie di morte, immagini di soldati e carri armati nelle strade e la preoccupazione di mia madre per i miei fratelli maggiori, che studiavano nell’Università statale dove giornalmente erano assassinati studenti. Le conseguenze della guerra si vivono ancora oggi: una guerra silenziosa e terribile. Attualmente ci sono più morti per anno, che durante ogni anno in cui durò il conflitto armato.
Siamo rimasti malati, il nostro spirito è rimasto triste, con fame di morte e con poca fede.

Alla III edizione della Biennale di Lima (2002) hai partecipato con una performance particolare, Hasta Ver, di cui si è parlato poco in Italia…
Rosina Cazali, amica e curatrice guatemalteca, mi accompagnò, servendomi come guida per ciechi durante tutta l’azione, che consisteva nel fare un non-viaggio. Mi censurai gli occhi nella mia casa, prima di prendere l’aereo. Viaggiai, arrivai, collocandomi poi in uno spazio dove la gente poteva vedermi. Dormii lì per 4 giorni, tutto il tempo senza vedere, compreso il viaggio di ritorno, togliendomi le bende dagli occhi quando fui di nuovo nel mio paese…

I progetti per il futuro sembrano essere nebulosi, sei fresca però di un nuovissimo lavoro…
Non so che farò prossimamente. Il 1 maggio, a Santo Domingo, ho terminato l’ultima azione, Peso (acher 4477), numero che si riferisce alla legge che attualmente è in discussione presso il Congresso statunitense e che, tra le altre cose, pretende di criminalizzare tutti gli immigrati senza documenti. Per 4 lunghi giorni ho vissuto costretta da un sistema di pesanti catene e chiavistelli…semplice ed esplicito.

Alla fine del mondo quali sono cinque cose che salveresti e perché?
Tutte le forme di vita, il mare, una pietra, un fiore, un animale, un umano (anche se su questo, devo riflettere).