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Espoarte Anno 9 Numero 56 dicembre 2008-gennaio 2009



Giuseppe Penone

Alberto Mattia Martini

Intervista



Contemporary Art magazine


[GIOVANI]
24 Nero
30 Arthur Duff
34 Amparo Sard
38 Mario Maffei
42 Fiorella Fontana ??

[PROTAGONISTI]?(artisti)
48 Giuseppe Penone
54 Alfredo Jaar

[SPECIAL GUEST]
60 Sabrina Mezzaqui

[RUBRICHE]
68 No man’s land
74 Rapture
74 Progetti&Dintorni
92 Profili ?

[EVENTI]
100 Carlo Cardazzo. Una nuova visione dell'arte
104 Louise Bourgeois
106 Bill Viola
108 T2 - Torino Triennale
110 Sonic Youth etc
112 Il sublime è ora
114 Arnaldo Pomodoro
116 Lucio Fontana
118 Giacomo e Pio Manzù
120 Meret Oppenheim
122 Omaggio a Pierre Restany
123 Tino Sehgal
125 Eppi Femili
126 La Sostenibile leggerezza dell’essere
127 Armin Linke
128 Simmetria Personale
129 Ian Tweedy

[IN GALLERIA]
da pagina 132

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Giuseppe Penone
'Soffio di foglie', 1979
foglie di bosso, dimensioni del corpo dell’artista
Foto © Archivio Penone

Giuseppe Penone
'Albero di 12 m', 1970
Legno, cm 1213x25
Courtesy Moderna Museet, Stockholm

Giuseppe Penone
'Rovesciare i propri occhi', 1970
fotografia, cm 40x30
Foto © Paolo Mussat Sartor

La Natura è protagonista a Bologna. Il MAMbo presenta una delle mostre più complete dedicate all’artista Giuseppe Penone.
La natura è sempre stata per lo scultore piemontese il punto fermo della sua ricerca, una volontà di fare interagire l’espressione creativa, filosofica dell’essere, del tempo e dell’infinito con tutti gli elementi del mondo vegetale.
La mostra affronta, in modo evolutivo, i cicli tematici presi in esame dall’artista; uno su tutti quello degli Alberi, serie concepita nel 1969 e che successivamente ha visto numerose mutazioni e trasformazioni. La mostra di Bologna non si “limita” alla scultura, ma affronta anche altre modalità espressive appartenenti all’artista: il disegno, la fotografia e la scrittura.


Alberto Mattia Martini: Vorrei iniziare questa intervista addentrandomi subito tra gli spazi reali e immaginari della mostra ospitata al MAMbo di Bologna. L’esposizione presenta alcuni dei cicli più importanti del tuo lavoro come Alberi, dove si avverte costantemente l’intenzione di “ritrovare” l’albero all’interno della materia. Mi puoi spiegare meglio il significato di questi lavori?
Giuseppe Penone: Ho iniziato nel 1968 a fare un lavoro sulla crescita degli alberi, riflettendo sul modo di sviluppo che essi avevano, poi da questo sono nate le opere esposte qui al MAMbo, datate 1969.
L’albero mi affascina perché è un compromesso tra il vegetale e l’animale, però ha anche la persistenza, possiede un respiro molto differente da quello umano e ha una durata nel tempo assai lunga; possiamo affermare che l’albero registra i suoi gesti, la sua struttura, la sua immagine è il suo vissuto, perché cresce ad anelli concentrici e conserva nella sua costituzione la memoria del suo vissuto. L’albero è molto vicino alla scrittura ed è appunto in tal senso che ho lavorato sul tema dell’albero. Il lavoro più sintetico è quello della mano, che viene posta sul tronco dell’albero, che a sua volta ne memorizza il contatto e lo esprime nella crescita. Una riflessione semplice come quella dell’impronta di una mano impressa su una materia apparentemente solida, ma nel tempo fluida, che quindi si comporta in un modo analogo alla creta. Successivamente, sono nate le opere dove si ritrova all’interno della materia-legno la forma dell’albero, cioè avviene la ripetizione della sua forma all’interno del legno, rifacendo quindi qualche cosa di già esistente.

Un altro lavoro che mi affascina e m’incuriosisce sia dal punto di vista concettuale, sia da quello puramente tecnico-formale è il Soffio, una serie di opere imperniate sul respiro dell’uomo e come un suo stesso “generato”, apparentemente così flebile, possa modificare e creare un’opera scultorea. È così?
Quando l’uomo respira, immette nello spazio un volume, questo volume d’aria è differente da ciò che gli sta intorno, quindi tale prodotto è già, a mio avviso, scultura. Essa è, però, una scultura automatica, in possesso di chiunque respiri, un’azione continua legata alla vita. Con questi lavori ho voluto rappresentare un aspetto, che solitamente passa più inosservato, ma che è di tutti, che esiste indipendentemente dalla nostra volontà. Per realizzare tale concetto, sono giunto alla conclusione che la forma più interessante è anche quella più semplice e cioè una forma che ricorda quella del fiasco, del soffiatore di vetro e successivamente l’impronta del corpo. Ho realizzato quest’opera per dare la sensazione dell’assenza, che paradossalmente si avverte dal momento che è avvenuto il respiro; infine, nasce l’impronta del volto con l’interno della bocca, per suggerire il rapporto interno ed esterno.
Ho completato questo lavoro sull’emissione del fiato anni dopo, circa alla fine degli anni ’90, con un lavoro intitolato Respirare l’ombra, che riproduce alcuni muri ricoperti da foglie d’alloro insieme ad un polmone in bronzo, per indicare l’immissione del respiro e completandone così l’idea.

Nella quasi totalità della tua ricerca, dalla serie Palpebre a Pelle di grafite, in Spine d’acacia o ancora in Essere fiume, è come se si cercasse di far emergere ed instaurare una sorta di simbiosi tra natura e uomo, come se queste due realtà potessero divenire un’unica forma vitale e si venisse a creare un rapporto paritario tra le due realtà.
Penso che sia proprio come dici tu, è la realtà. Se si guarda dal punto di vista della persistenza, una pietra naturalmente è molto più durevole e perenne rispetto all’uomo; si ritiene la pietra inanimata, ma in realtà ha una sua presenza e persiste nel tempo. Purtroppo si pensa sempre che l’uomo sia al di sopra della natura, qualche cosa di differente, forse perché l’uomo, dovendo sopravvivere come specie, si deve difendere e tutelare, ma a mio avviso dovrebbe rapportarsi con il mondo naturale in modo diverso, se non altro con maggiore rispetto e riconoscenza.

A tale proposito, che rilevanza ha avuto nella tua vita e di conseguenza nel tuo lavoro essere nato in un piccolo paesino di montagna come Garessio e, quindi, a diretto contatto con la natura e non in una grande metropoli?
Sono nato in un posto dove la cultura è inesistente, se intendiamo per cultura quella cui facciamo riferimento quotidianamente, conosciuta e riconosciuta socialmente, studiata e poi approfondita. In questi piccoli luoghi esiste, invece, una cultura ancestrale, che è legata alla memoria degli individui, anche se non è così presente o cosciente.
Io ho sempre ritenuto che l’uomo fosse in possesso di un valore indipendentemente dal luogo dove è nato, dove si trova o dove agisce. Se prendiamo come esempio ancora la pietra, vediamo che essa ha lo stesso valore e importanza indipendentemente dal luogo, sia che essa si trovi in un piccolo paese, in città o conservata all’interno di un museo; quindi anche l’uomo, a mio avviso, ha lo stesso rilievo ovunque egli si trovi nel mondo, cambia solamente la sua formazione e gli argomenti della sua conoscenza, ma l’essenza rimane invariata.

Osservando la mostra al MAMbo si nota come i linguaggi, impiegati e utilizzati, non siano solo la scultura ma anche la fotografia, il disegno e la scrittura. Che ruolo hanno, nella tua ricerca, queste modalità espressive?
Utilizzo la scrittura come mezzo chiarificatore delle mie stesse idee, per rielaborarle o chiarire meglio a me stesso il lavoro che sto affrontando. Esistono poi delle pubblicazioni di miei scritti nati in funzione dell’opera, usando il linguaggio in un modo parallelo all’immaginazione dell’opera e non come descrizione della stessa.
Nel mio lavoro ci sono vari tipi di disegni: alcuni come Pelle di grafite che io considero opere finite, altri disegni sono dei progetti, delle annotazioni. Il disegno è una forma di espressione, un linguaggio che rimane inalterato nel tempo che è trasversale al problema di contemporaneità nell’arte e questo permette di raccontare le idee, i concetti come avremmo potuto comunicarli cento o duecento anni fa o come potremo esprimerli in futuro. Il disegno, quindi, sfugge all’aspetto nevrotico dell’arte contemporanea di inventare attraverso la forma il linguaggio.

Una delle tue opere più note se non la più nota è certamente Rovesciare i propri occhi del 1970; opera, a mio avviso, ancora attualmente dotata di grandissima forza comunicativa. Come è nato e perché è nato questo lavoro?
È nato da una serie di lavori sulla superficie, sul contatto della pelle; il tentativo, in questo caso, è quello di rimandare con gli occhi, con lo sguardo ciò che in quel momento l’occhio vede. Il fine dell’opera non è solo quello di riflettere le immagini, ma indagare fino dove possa arrivare lo sguardo e quindi la possibilità di prevedere in anticipo ciò che poi, una volta giunti a contatto con l’oggetto o l’elemento naturale osservato, possiamo toccare con il nostro corpo.

Una curiosità: nel ’70 non vi era la possibilità di rielaborare digitalmente l’immagine, come hai fatto a creare questo effetto specchiante?
Facendomi fare da un ottico delle lenti specchianti e ponendole una sopra l’altra, quindi due lenti per occhio con un piccolo foro per poter vedere. Se devo dire sinceramente fu una sofferenza fisica per i miei occhi non indifferente.

Vorrei chiudere questa intervista con una domanda sull’Arte Povera: Germano Celant, come è noto, prese in prestito l’espressione Arte Povera dal regista teatrale Jerzy Grotowski. Tra le teorie alle quali Celant fece riferimento, vi era quella contenuta nel libro Autoritratto di Carla Lonzi, la quale sosteneva che occorreva diminuire il più possibile il ruolo del critico in favore delle opere e degli artisti. Tu che hai aderito all’Arte Povera, cosa ne pensi?
Tutto ha inizio nel 1969 con la pubblicazione del libro Arte Povera da parte di Germano Celant, all’interno del quale non comparivano solo artisti italiani, ma anche americani, tedeschi, inglesi. Quindi non vi era una restrizione all’arte italiana, infatti, la finalità primaria era quella di documentare un forte cambiamento che stava avvenendo nell’arte. Successivamente gli artisti stranieri presero altre direzioni all’interno dei rispettivi paesi d’appartenenza, mentre gli artisti italiani rimasero uniti sotto questa “denominazione” di Arte Povera e così iniziarono le prime mostre. A differenza di altri movimenti artistici, non c’è mai stato un manifesto, c’è un testo di Germano Celant, che ripeto non ha la finalità e lo scopo di essere un’enunciazione ideologica.
Gli artisti dell’Arte Povera sono artisti di estrazione culturale, età molto diverse, con opere e una ricerca molto differente, non c’è come si dice un’identità forte e senza un “prodotto omogeneo”, come è successo in altri movimenti artistici non c’è una confluenza del pensiero sul modo di fare arte. Nell’Arte Povera ci accomunava un’affinità nell’affrontare il problema dell’opera.


Giuseppe Penone è nato nel 1947 a Garessio (CN). Vive e lavora tra Torino e Parigi.