Millepiani Anno 16 Numero 35 novembre 2009
Premessa
Il problema del senso, riferito alla filosofia, viene già posto con rinnovata lena primo-novecentesca soprattutto da Husserl, ma assume una declinazione decisa/decisiva all’interno del cosiddetto pensiero postmoderno. Vediamo la costellazione di idee o anche, più semplicemente, di spunti di lettura che quest’ultimo ha consentito di articolare, perlomeno in alcune delle sue versioni “politicamente” più avvertite:
• Alcuni elementi inerenti la mercificazione, la comunicazione e la spettacolarizzazione concorrono nel rendere “superflui” tutti quei saperi che si attardano a voler considerare l’esistere nella sua complessità/complicazione e non nella sua frammentazione.
• L’estetizzazione del presente, negando ogni slancio utopico, o meglio progettuale, ha finito con il consegnare la domanda di senso ad un’inquietante sospensione dell’ascolto e della ricerca.
• Un altro passaggio importante è segnato dalla fine delle grandi narrazioni e dunque dal dispiegarsi di una Krisis, per certi versi salutare e che però ha generato un sistema di nuovi fondamentalismi, di cui l’Occidente celebra quello realizzato nell’ambito del primato del circuito merce-consumo-merce.
• Alla crisi delle identità tradizionali corrisponde un’ansiosa ridefinizione identitaria animata dalla paura e dal rancore e dalla evidente difficoltà della percezione delle trasformazioni soggettive e collettive.
• Lo spazio critico dell’intrecciarsi di queste tensioni è quello della politica restituita sempre più come “reality show”, piuttosto che come luogo di articolazione delle mediazioni, di istituzioni positive ecc.
• La temporalità del Terzo Millennio appare come una dimensione patologicamente “contratta”, per non dire schiacciata, sospesa, senza memoria e dall’incerto futuro.
• La spazialità svincolata da ogni percezione temporale, che non sia quella del “qui ed ora”, si dispone ad essere orizzonte di conflitto, contesa, privatizzazione, assoggettamento.
• La lettura di questi processi attraverso le lenti, sia pure sapientemente elaborate, delle “società di controllo” non appare del tutto soddisfacente, in quanto sembra restare fuori dal suo esercizio di critica proprio quella dimensione “istintuale” e psichica che nell’oggi è profondamente rimodellata dai sistemi di comunicazione (del dominio).
Chi ha assassinato la filosofia?
A questa domanda, che richiama la ricerca di Deleuze e Guattari (soprattutto in Che cos’è la filosofia?, del 1991) e alcune delle posizioni di “principio” riferibili alla tradizione della “Teoria critica” (dalla Dialettica dell’illuminismo alla Dialettica negativa), in un tentativo di combinazione tra percorsi di ricerca considerati abitualmente come incomunicabili (forse per via di un richiamo sofisticato alla dialettica, la quale non coincide pienamente con la versione restituita dai critici francesi di un hegelismo di maniera, piuttosto scontato, a buon mercato), si può iniziare a rispondere in questi termini:
• dalle sue sorelle più prossime: la sociologia, la psicologia, l’estetica, la comunicazione. Queste discipline si sono assunte il ruolo di enunciare, dire, colmare, appianare la crisi di senso, ponendosi di volta in volta come sapere privilegiato, vulgata, nuovo “universale”.
• La filosofia muore nel cosiddetto spazio pubblico e istituzionale della contemporaneità per mancanza di ambiente e di amici – per riprendere appunto Deleuze e Guattari; per mancanza di coraggio nell’affrontare i nuovi oscurantismi, per un nichilismo diffuso che caratterizza le società di consumo, per povertà creativa, per aver praticato troppo esercizio di stile e per essersi consegnata ad ogni forma possibile di “storicizzazione”, di rassegnata adesione alle “piccole ragioni” dei contesti.
Il fuori della filosofia
È possibile dire diversamente il nostro odierno e radicale “non-bisogno” di filosofia, ricorrendo alle nostre tradizioni di ricerca, a quei piani di elaborazione che ‘millepiani’ ha aperto fin dal 1993 e sempre e inevitabilmente “tradito”, (ci interessa più il tradimento dello “sfruttamento” secondo ordine, in conformità a, nel rispetto della legge), soprattutto nel senso di farlo divenire altro (e “noi” con loro). È ancora Deleuze che scrive come non ci sia in effetti alcun bisogno di filosofia, visto che essa si produce autonomamente e “forzatamente” laddove una attività (una qualunque…) si spinge così avanti da produrre “la propria linea di deterritorializzazione”: “Uscire dalla filosofia, fare non importa cosa, in modo da poterla produrre dal di fuori. I filosofi son sempre stati un’altra cosa, sono nati da altro” (Deleuze-Parnet, Conversazioni, cit., p.79). Anche a noi non interessa il futuro della filosofia, ci piace invece lasciarci cogliere impreparati (ma non troppo, però: il nostro obiettivo è quello di buttare giù delle carte delle affettività dunque anche dei divenire-filosofia, inaspettati, sconvenienti, impertinenti), nel momento in cui diffidiamo di qualsiasi “ideologia dell’identità data”, come ci invita a fare T. W. Adorno. A proposito di Adorno, si tratta di rivendicare un “buon” pensiero, quello che affronta i suoi oggetti “irrigiditi” (ma si potrebbe dire anche diversamente) con quella sensibilità per il possibile che è ciò che appunto risulta “frodato” dalla loro realtà odierna (“e che però guarda da ciascuno di essi”: come si osserva nella Dialettica negativa). Insomma, se è vero che non c’è pensiero senza identità, è altrettanto importante affermare che è proprio il non-identico a stimolare la ricerca critica del diverso, del molteplice differente, in tutte le imprese di salute, anche e soprattutto nella filosofia.
Il vero dire e l’umorismo
Le riflessioni che proponiamo in questo volume considerano due prospettive, l’esercizio della parresia che in Foucault si esprime come atto costitutivo di nuove strutture sociali, di una tecnologia di potere volta a creare spazi di potenziamento del libero agire, e la pratica mai obsoleta dell’umorismo che predilige un’azione irriverente e veritiera come possiamo dedurre dalle parole di Deleuze, riferite al suo lavoro con Guattari, ossia la redazione di Mille Plateaux: “L’ironia è l’uomo che discute sui principi; è alla ricerca di un principio primario, ancor più primario di quello che si credeva primario; egli trova una causa ancora più primaria delle altre. Non smette di salire e di risalire. Ecco perché procede per problemi, è un uomo della conversazione, del dialogo, possiede un certo tono, qualcosa sempre dell’ordine del significante. L’humour è proprio il contrario: i principi contano poco, si prende tutto alla lettera, vi si aspetta al momento delle conseguenze (…). Lo humour è l’arte delle conseguenze o degli effetti: d’accordo, d’accordo su tutto, mi concedete questo? Allora vedrete cosa ne salta fuori. Lo humour è traditore, è tradimento”. (Deleuze-Parnet, Conversazioni, cit., p.79).
Per Foucault la parresia pone il problema della democrazia, poiché l’alterazione della parresia implica l’alterazione dei rapporti di questa con la polis.
“Occorre che il logos che sta per esercitare il suo potere e il suo ascendente che sta per essere considerato da coloro che esercitano il loro ascendente sulla città sia un discorso di verità” (Foucault, Le gouvernement de soi et des autres, cit. p.157).
In ragione di tutte queste riflessioni, anche “Millepiani” intende, come già dagli ultimi numeri, avventurarsi tra questi effetti di superficie, convinti come siamo che proprio nei momenti più critici e dominati dal caos, il tradimento migliore da attuare, sia quello di liberare i divenire, amanti della vita, creativi perché sempre in cammino, liberi perché capaci di riconoscere l’amministrazione e la formalizzazione dei poteri fondati sulla paura. L’umorismo è una buona pratica di salute.