cura.magazine Anno 2 Numero 6 ottobre-dicembre 2010
La recente esposizione di Haris Epaminonda Volume VI alla Tate Modern (Level 2 Gallery) invita a riconsiderare molti degli aspetti comunemente associati ai musei: storia, conservazione, patrimonio culturale, memoria collettiva e individuale. Per la mostra Epaminonda (nata a Cipro e residente a Berlino) ha creato un’installazione con immagini trovate, oggetti antichi e moderni e un video, composti nello spazio come se fossero tracce di una civiltà esotica lontana che un rigoroso criterio museologico ha ordinato per il pubblico. Quanto segue è il risultato della conversazione epistolare avuta con l’artista nell’intento di approfondire le tematiche affrontate in questo lavoro.
F.C. Vorrei focalizzare la nostra conversazione sulla scelta di ricorrere alla museologia come medium del tuo lavoro e sul concetto di temporalità che ne emerge. La mostra mi ha fatto venire in mente un racconto di J.L. Borges, Funes el Memorioso. Nella fiction, Borges incontra Ireneo Funes, ragazzo dalla memoria prodigiosa, capace di ricordare e descrivere in dettaglio tutto ciò che ha vissuto o percepito. Borges riflette anche sul fatto che l’universo per Funes è costituito da innumerevoli dettagli, cui egli non è in grado di dare una lettura generale; egli è privo di idee “platoniche” e di un vero e proprio senso della storia. I nomi comuni delle cose appaiono a Funes troppo ambigui, troppo generici, perché non sono in grado di descrivere il tempo. Nella percezione di Funes, gli oggetti fisici sono in costante evoluzione e si trasformano sottilmente istante per istante e per questo motivo è quasi impossibile descriverli in modo inequivocabile. Nel tuo lavoro usi spesso immagini trovate; spezzoni di vecchie fiction TV, oggetti (o rappresentazioni di oggetti) provenienti dal passato, tuttavia non sembri interessata alla loro provenienza, al loro contesto originario e tanto meno a dare loro nuovi significati iscrivendoli in contesti diversi. Piuttosto ti interessi della loro essenza frammentaria, delle ambiguità generate dall’essere stati osservati e descritti in modo sempre diverso (da differenti punti d’osservazione), sottolineando la distanza che li rende inafferrabili, infiniti e autosufficienti. Credi che si possano riscontrare punti di contatto fra la temporalità rappresentata dalla memoria non lineare di Funes e il criterio museologico che hai usato in lavori come Volumes (I II III V e IV) o anche alla Biennale di Berlino del 2008?
H.E. Sono d’accordo con te e con Funes che nulla è immobile; probabilmente non riusciamo mai a stabilire delle relazioni permanenti con le cose perché noi stessi siamo entità soggette alle leggi del tempo. Ritornando ai Volumes, essi per me non vanno visti come lavori finiti, ma come delle proposizioni. Sono consapevole del fatto che tutto quello che fa parte della mostra - come anche gli spazi vuoti - contribuisce a creare un’immagine d’insieme e che questa immagine potrà essere letta attraverso il movimento con e nello spazio. Se penso alla mente di Funes, vista come uno sconfinato deposito della memoria, essa può avvicinarsi a un museo, un luogo di conservazione e di memoria, un microcosmo fatto di elementi raccolti in luoghi e tempi lontani che messi insieme propongono una visione del mondo organizzata e classificata secondo differenti categorie. Tuttavia i musei non sono in grado di contenere, come Funes, tutta la memoria del mondo, perciò la loro natura frammentaria è in effetti un riflesso della nostra discontinua comprensione del mondo. In realtà, non importa quanto lontano noi possiamo arrivare migliorandoci come esseri umani, nessuno potrà raggiungere una condizione come quella di Funes. Inoltre, secondo il mito, le forze soprannaturali appartengono agli immortali e ogni tentativo umano di raggiungere il divino non solo è destinato a fallire, ma è anche portatore di catastrofe e morte.
F.C. Tornando alla rigorosa esposizione museale, nei Volumes presenti le opere su piedistalli immacolati, con barriere protettive e schede esplicative, ma trascuri volontariamente ogni coordinata spazio-temporale. In questo modo crei le condizioni perché ogni singolo elemento possa essere visto solo con gli occhi del presente ed essere reinventato e reinterpretato ogni volta in modo diverso, aprendosi alle infinite vie interpretative dei fruitori. Una simile operazione accade anche in The Infinite Library, il progetto che stai portando avanti con Daniel Gustav Cramer. Come i pezzi da museo, i libri sono simboli di patrimonio culturale e conoscenza, ma anche in questo progetto le pagine e le immagini si mescolano come se fossero geni di due genitori che si perpetuano nelle generazioni successive. Questi lavori non solo si confrontano con la comune nozione di patrimonio culturale, ma, più in generale, con la visione lineare della storia comunemente accettata. Quanto è importante per te capire il mondo “storicisticamente” e fino a che punto si può giocare reinventando e reinterpretando la storia?
H.E. In realtà non sono interessata alle didascalie o alle barriere, oppure dovrei dire che le barriere mi interessano in quanto vie di accesso e non come posti di blocco. Tutti questi elementi: un piedistallo, un vaso, una pagina di un libro, una cornice – oppure la scelta di condividerli con il pubblico in un modo o in un altro, e le connessioni incrociate che nascono – sono frammenti di uno stesso lavoro. Quando creo, la mia relazione con questi lavori è molto diretta: non mi interessa costruire nuove sovrastrutture concettuali, o tradurre un’idea in una costellazione di oggetti. Piuttosto mi sento come un pittore, che usa colori diversi e li mescola sulla tela per creare un’immagine. Sono cosciente del fatto che nei Volumes sono presenti due polarità diverse. La prima è la conoscenza dell’origine dei singoli frammenti (o forse semplicemente la consapevolezza che essi provengono da un altrove e che in qualche modo appartengono alla storia in quanto forme del patrimonio culturale, o semplicemente come gesti o materiali). La seconda è rappresentata dal loro essere nel presente, uniti in una stessa immagine. Mi piace la tensione che si crea fra queste due polarità e anche l’impossibilità di comprenderle e decifrarle. Per me questi lavori non sono lì per essere analizzati, ma piuttosto per essere letti. La storia certamente fa parte di tutto questo, anche se non credo che vi sia alcuna possibilità di leggerla come un insieme (complessivamente): troppe cose accadono in un solo momento, troppe vie della stessa storia. Di nuovo, si tratta più di capire e accettare che esiste un mondo al di fuori di noi stessi e che esiste al di là della nostra esistenza temporale.
F.C. Tutti gli oggetti esposti nei Volumes appartengono al tuo archivio personale. Che tipo di legame esiste fra te e loro? Hanno un valore personale? Come scegli cosa preservare e conservare nel tuo archivio?
H.E. Questi oggetti provengono da fonti diversissime, li prendo con me perché so che alla fine troveranno posto in un lavoro. In essi vedo del materiale grezzo: origine, provenienza, connotazione, somiglianza, forma, colore, texture, sono tutti elementi che prendo in considerazione nella selezione. Tuttavia è solo dopo aver inserito gli oggetti all’interno di un lavoro che la mia relazione con essi diventa personale. Vedo le connessioni e le associazioni crearsi fra gli elementi come in una poesia, dove le parole, le frasi e i significati sono evocati senza la necessità di un’immediata traduzione.
F.C. Continuando il discorso sui musei, è molto interessante esplorare quante possibilità vi siano di condurre il visitatore attraverso percorsi diversi da quello storico o tematico. Vari artisti hanno in passato lavorato con le collezioni museali. Uno dei lavori più famosi è forse The Play of the Unmentionable (1992), in cui Joseph Kosuth ha curato una selezione di opere dalla collezione permanente del Brooklyn Museum di New York. Ti piacerebbe curare l’allestimento di un museo reale?
H.E. Rispetto moltissimo Kosuth e il suo approccio concettuale. Tuttavia io vedo me stessa in una posizione quasi opposta. Quando allestisco una mostra non sono completamente sicura di come sarà il risultato finale, è al momento dell’allestimento che molte decisioni vengono prese e solo allora il lavoro si manifesta veramente nello spazio: non seguo una logica o un’idea, non voglio dire nulla che possa essere tradotto a parole. Credo che l’arte abbia il potere di trasformare gli oggetti e di creare energie, e che quando la guardi in qualche modo entra in contatto con te, ti tocca, ti trasmette qualcosa di veramente umano, come fa la musica o come le parole. Nel mio lavoro non sono veramente interessata ai musei, a come espongono i lavori, trasmettono le informazioni, o alle loro collezioni. Probabilmente sono interessata a quello che un museo provoca in me quando lo visito, quando volto l’angolo di una nuova stanza e c’è una vetrina all’estremità opposta con piccoli oggetti, e allora mi avvicino curiosa come un bambino per capire che cosa sono: cose che provengono da un altro luogo e da un altro tempo, eppure oggetti che hanno a che vedere con il mondo e con me, con quel mondo che circonda entrambi, me e questi oggetti.