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cura.magazine Anno 3 Numero 7 gennaio-marzo 2011



In conversazione con Maria Loboda

Michelle Cotton



Free press trimestrale dedicato ai temi dell'arte e della cultura contemporanea


SOMMARIO cura. #07


ART VENUES
CoCA, Torun
ilaria marotta


AROUND THE WORLD
L’arte dopo la democrazia
Art After Democracy
raimar stange

Il contributo critico di Josechu Dávila al dis-facimento dell’opera
Josechu Dávila’s Critical Contribution to the ‘Des-œuvrement’ of the Artwork
josé luis corazón ardura

Ossessionato dalla vita. Gli ultimi progetti di Zvi Goldstein
Haunted by Life. On Zvi Goldstein’s Current Projects
ory dessau

Te la dò io la Storia. Libertà di informazione e trasformazione dei canali divulgativi nell’opera di Fernando Bryce
History? I’ll Show You. Freedom of Information and Transformation of the Media Channels in Fernando Bryce’s Work
federica la paglia


FOCUS
The Szeemann Syndrome
felix vogel


GUEST CURATOR
Il ruolo della soggettività e del piacere nel lavoro di Carla Filipe
Carla Filipe’s Brand of Subjectivity and Pleasure
ulrich loock


TALKING
Arte e incomunicabilità tra culture
Art and Incommunicability Between Cultures
elena giulia rossi

We, The People.
Conversazione con Harrell Fletcher e Jens Hoffmann
In Conversation with Harrell Fletcher and Jens Hoffmann
marco antonini


ANDROIDE
$O$
riccardo previdi


LAB
Antonio Rovaldi
curated by valentina rossi


SPOTLIGHT
In conversazione con Maria Loboda
In Conversation with Maria Loboda
michelle cotton


LAB
Translaction. Memories of a conversation – December 2010 A cura.lab contribution by Nils Olger
curated by maria garzia & julia kläring


DAVIDE D’ELIA, ######1
curated by giulia ferracci


STORYTELLING
La piattaforma attiva
The Active Platform
benedetta di loreto


FORMS BECOMING ATTITUDES
Fashion curating. Intervista a Judith Clark
Fashion curating. Interview with Judith Clark
dobrila denegri

Intervista con Julia Peyton-Jones e Hans Ulrich Obrist
Interview with Julia Peyton-Jones & Hans Ulrich Obrist
sara schifano


A. PUNTI DI MODA
London Paris
maria laura corsini


ART & CUISINE
I paesaggi commestibili di Song Dong
The Edible Landscapes of Song Dong
costanza paissan


BLACK ON WHITE
1969: Exhibiting the New Art
orsola mileti
ARTICOLI DAGLI ALTRI NUMERI

Cosa può fare una scultura?
Cecilia Canziani
n. 18 autunno-inverno 2014

Richard Sides
Anna Gritz
n. 16 primavera-estate 2014

Nicolas Deshayes
Isobel Harbison
n. 15 autunno-inverno 2013

Titologia dell'esposizione
Jean-Max Colard
n. 14 primavera-estate 2013

Laura Reeves. Ritorno alla realtà
Adam Carr
n. 13 inverno 2013

Marie Lund
Cecilia Canziani
n. 12 autunno 2012


Maria Loboda
The Sound of a Jade Figurine falling onto a Chondzoresk Rug, 2010
adhesive letters, 2.5 x 30 cm, installation detail at IMO, Copenhagen
Courtesy: galerie schleicher+lange, Paris
Photo: Anders Sune Berg

Maria Loboda
A Guide to Insults and Misanthropy, 2006
flowers, vase, variable dimensions, installation view at galerie schleicher+lange,Paris
© galerie schleicher+lange, Paris

Maria Loboda
A Room as a Word, 2009
detail, site specific installation, mixed media
© galerie schleicher+lange, Paris

M.C. Vorrei iniziare questa conversazione prendendo spunto dall’opposizione binaria tipica della letteratura tra Classicismo e Romanticismo. A me sembra che il tuo lavoro scelga spesso soggetti di ambito romantico – i fenomeni irrazionali e inspiegabili del passato – trattati però con una metodologia, o secondo un’estetica, che suscita associazioni più classiche, in una forma di indagine empirica o pragmatica che richiama gli aspetti più razionali del Minimalismo o dell’arte concettuale. Vorrei sapere se sei d’accordo con questa interpretazione.


M.L. Direi di sì. Proprio oggi mi sono imbattuta in una citazione di Kant: “Due cose riempiono il mio animo di ammirazione, il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”. Dal mio punto di vista ciò significa che si può trarre piacere dall’inafferrabile che ci circonda e dalla consapevolezza della capacità interiore di interpretare i fenomeni, da Dio e dalla Ragione. In altre parole, bisogna pensare in modo razionale per descrivere l’irrazionale. Come hai detto tu, utilizzo un vocabolario di pensieri e forme del passato, forse perché li considero in qualche modo eterni, perché penso che rappresentino la base della cultura contemporanea e il motivo per cui il presente è così come lo vediamo. Credo che il mio atteggiamento ‘disciplinato’ verso le questioni spirituali, non per forza romantiche, derivi dalla mia precoce attrazione per il Suprematismo. Mio fratello maggiore, anche lui artista, mi aveva spiegato che Malevič dipinse il Quadrato nero basandosi sulle idee del mistico Georges I. Gurdjieff e sulla sua riduzione delle ricche e dorate icone russe alla pura essenza della rappresentazione non figurativa di Dio. Quella storia mi ha fatto una grande impressione sin dall’infanzia. Credo che l’estetica del Minimalismo mi serva a dare forma ad alcune riflessioni complesse. E mi piace l’idea che ciò che vediamo sia molto più grande e autosufficiente rispetto alla forma che ha adottato.


M.C. Hai scelto una bella citazione, ma mi sembri dare più ascolto a Dio che non a Kant. Alcuni tuoi lavori giocano con il lato oscuro della realtà. Penso alla tazza di argilla contenente l’infuso di belladonna (A Study of Pure Curiosity, 2007) posata sull’elegantissimo pavimento in parquet con un motivo ricavato dagli oracoli dell’I-Ching, che costituisce un altro lavoro, intitolato What Will Happen (2007). Uno come Kant potrebbe anche essere elettrizzato dal pericolo (o, come lo chiamerebbe lui, dal sublime) ma non farebbe mai niente per incontrarlo. Il tuo lavoro sembra associare forme e visioni del mondo passato con episodi della controcultura o dell’avanguardia, che, per come la vedo io, sono ambiti tipicamente anti-classici con un sistema di convinzioni a sé stante. Mentre il nostro mondo moderno e razionale diventa sempre più complesso, potrebbe aver senso pensare in modo irrazionale per descrivere il razionale?


M.L. Sì. Sono attratta dall’ambiguità dei materiali obsoleti, che in origine servivano a un certo scopo o erano stati creati per un certo pubblico, e con il passare del tempo li hanno persi entrambi, ma senza scomparire a loro volta. A questo si deve la mia bizzarra ossessione archeologica di dissotterrare sistemi antiquati di credenze o modi di pensare del passato. Mi viene in mente una cosa cui non accenno quasi mai e che non ha riferimenti diretti nel mio lavoro: il fatto di essere vissuta in Polonia prima del crollo del Socialismo. Sono cresciuta in mezzo ai valori di un sistema politico che per me, da piccola, si manifestava semplicemente in oggetti che sono improvvisamente scomparsi. Tante piccole cose che erano considerate simboli di povertà od oppressione, che apparivano vecchie e poco appetibili. Se volevo abbracciare la nuova modernità, dovevo lasciare in cantina la giacca a vento in poliestere altamente infiammabile. Se volessi analizzarmi, direi che ho vissuto la strana esperienza di vedere una ‘civiltà’ (di cui facevo parte) andare in pezzi, e ovviamente, data la mia giovane età, non ne capivo le ragioni politiche, ma mi limitavo a vederne gli effetti in alcuni dettagli concreti e a pormi qualche interrogativo. Dato che si è trattato di un’esperienza molto personale, per quanto così influenzata dalle vicende politiche, non ho mai voluto utilizzarla in modo diretto nel mio lavoro. Per me è più facile cercare fenomeni simili in culture ed epoche diverse, nei ricordi degli altri, nei lutti degli altri. Pensieri che sono stati formulati e poi abbandonati perché si sono dimostrati erronei o ingannevoli, come l’alchimia, l’occultismo, il design sorpassato, la musica un tempo considerata offensiva, i linguaggi segreti e via dicendo. Dato che la nostalgia mi sembra un sentimento troppo vulnerabile, mi piace restituire a questi sistemi logori il loro potere, una sorta di eterno potenziale di rischio, come le scorie nucleari sotterrate, che continuano a emanare radiazioni da sotto la superficie del nostro complesso mondo moderno. Questi materiali obsoleti non scompariranno mai. Sono stati pensati, nominati, utilizzati, qualcuno ha creduto in essi, e l’unica possibilità che mi resta per sottolinearne il valore è esaltarne il potenziale di rischio. E a proposito, so che è rischioso citare Kant a vanvera, ma io continuo a chiedermi se Dio sia stato creato dalla Ragione o viceversa.


M.C. L’immagine delle scorie sotterranee è molto evocativa. Nel tuo lavoro ricorrono oggetti che alludono a forze invisibili connesse al paranormale, come le pratiche occulte, la superstizione, il misticismo o la magia, o alle espressioni fisiche dell’energia. Puoi parlarmi di come hai affrontato la tua ultima personale In the Autumn the Electricity Withdraws Into The Earth Again and Rest, dei lavori che hai realizzato e dei temi che hai esplorato in questa mostra?


M.L. Il titolo è preso dall’I-Ching, Il libro dei mutamenti. Fa parte dell’esagramma 17: “Il tuono al centro del lago: / L’immagine del SEGUIRE. / Così l’uomo superiore al calar della sera / si ritira per riposare”.
Il linguaggio di questo metodo divinatorio è molto poetico e contiene elementi meravigliosi, criptici e quasi surreali. È una filosofia basata sulla metafora, che trovo utilissima per il mio lavoro. Volevo descrivere il suono della ritirata, una cosa incomprensibile che si manifesta attraverso la propria assenza. Come in una scena del crimine: hai l’impressione che sia successo qualcosa di orribile, non c’è il cadavere, ma solo qualche oggetto dimenticato, uno dei quali potrebbe celare la chiave del mistero. Nel nostro caso, però, si scopre ben poco, e il detective resta a mani vuote. Questa mostra parla dei compiti lasciati a metà. Ho realizzato uno scrittoio monolitico, un simbolo di potere destinato a rimanere inutilizzato: i cassetti sono vuoti e sulla superficie di cuoio c’è solo l’impronta di un oggetto rimosso che riecheggia nella parete opposta in una descrizione sotto forma di scultura verbale. Tutte le pareti della galleria sono dipinte in un’approssimazione del ‘colore dell’universo’, una sfumatura di bianco sporco derivata dal codice esadecimale #FFF8E7, generato dagli scienziati durante l’analisi spettrale delle galassie stellari, e battezzata The totality of everything that exists, 2010 (che poi sarebbe il significato della parola greca “universo”).
Poi c’è Ah, Wilderness: una composizione sospesa con i rami di tre alberi ‘antagonisti’, che normalmente si distruggerebbero a vicenda, o distruggerebbero tutte le piante che li circondano perché sono alberi da monoculture come la betulla, il pino e il cedro. Volevo metterli insieme, creare un’entità a partire da cose che non sono fatte per integrarsi. Considero questa mostra una piccola meditazione sugli stati diversi della materia, leggi semplici e ordinarie; su come qualcosa di solido possa diventare liquido e poi evaporare, pur restando lo stesso identico elemento. A ben vedere, ruota tutto attorno al fatto che a volte bisogna abbandonare una cosa, non perché sia perduta, ma perché potrebbe essere sconfitta. Come l’amore, che non è fatto per il nostro mondo.


M.C. È una risposta molto malinconica. La mia impressione, da come hai descritto la mostra, è che in essa il simbolismo sia ancorato agli oggetti. Sembri invocare una significatività del ready-made. La descrizione di questi lavori mi fa pensare alle note di scena dei copioni teatrali. Gli oggetti sul palco agiscono come parte di un codice che fa riferimento a un dramma assente, un’azione che ha appena avuto luogo o sta per iniziare. Mi sembra che i lavori che mi hai appena descritto siano abbastanza diversi da altri che alludono a un processo o a una tradizione di artigianato o produzione artistica. Penso, per esempio, ai disegni murali o alle ceramiche. Che rapporto c’è tra tutte queste attività assenti – scientifiche, spirituali, rituali ecc. – e l’attività creativa, nello specifico la tua attività di artista?


M.L. In realtà, la mia attività principale nell’ambito della produzione artistica è pensare. Non ho grandi capacità manuali, ed è raro che tragga piacere dal costruire qualcosa; è un peccato, perché a volte può essere molto piacevole e rilassante mettersi tranquilli nello studio e tagliare la carta in tanti piccoli triangoli. Ciò che mi ispira è la tradizione artistica, la conoscenza che sta dietro la tecnica, i sistemi, i materiali e gli ingredienti che servono per realizzare qualcosa. Mi fa un po’ paura diventare una professionista in qualsiasi campo, preferisco essere come uno straniero che non parla tanto bene la lingua, ma capisce abbastanza da fraintendere consapevolmente. Io non ho nemmeno uno studio, in genere lavoro sul pavimento di casa mia. La mia situazione lavorativa è abbastanza simile al concetto che sta dietro alla mostra, l’assenza di una vera e propria postazione di lavoro e la presenza di qualcos’altro. Non che ci sia niente di particolarmente insolito o eccentrico: molti altri artisti scelgono di essere nomadi. La mancanza di uno studio si manifesta nel fatto che uso la visualizzazione per fare la cernita tra idee e soluzioni; di solito l’oggetto concreto arriva per ultimo. Ho sempre tutto dentro la testa, e quasi mai fisicamente intorno. Le attività assenti cui ti riferisci non sono qualcosa di inesistente: il fatto che una cosa sia vuota ne definisce il senso e l’utilizzo. Un recipiente deve essere vuoto per poter essere usato.
Dietro a quella che chiami la significatività del ready-made c’è più che altro il mio tentativo di galvanizzare oggetti e pensieri, trasformandoli in qualcosa che forse non dovevano essere. Mi capita di trovare dei ready-made fantastici, come la pelle di zigrino, il cui termine francese “chagrin” fa riferimento anche a un senso di frustrazione, di disincanto e umiliazione. Questo tipo di pelle, usata per rilegare libri o rivestire mobili all’epoca dell’Art Déco, era molto preziosa e costosa. Si potrebbe dire allora che questi oggetti erano ‘rivestiti di tristezza’. Da un altro punto di vista, cerco di infilare a forza idee nelle cose, dare loro l’aspetto di un ready-made: questa è l’operazione più difficile e azzardata, che si potrebbe volgarmente chiamare “fare arte”.


M.C. Il lavoro con la pelle di zigrino mi ricorda una tua opera precedente, A Guide to Insults and Misanthropy del 2004, un bouquet che esprime sentimenti negativi attraverso il linguaggio dei fiori vittoriano (orrore, arroganza, disprezzo, angoscia, crudeltà, falsità ecc.). Il lavoro appare sempre diverso a seconda della scelta dei fiori, del vaso e della persona che li dispone, ma il mazzo assortito dà sempre una piacevole sensazione di eccentricità. Penso che questi oggetti, i fiori e la pelle di zigrino, appaiano molto esotici nel contesto della galleria, tanto da porre un’enfasi ancora maggiore sul titolo e la lista dei materiali: leggendoli, scopriamo un linguaggio simbolico perduto. Quindi il linguaggio ti interessa come materiale più che come soggetto?


M.L. Sì. Considero il linguaggio un materiale tra gli altri, come la musica, i tessuti, la botanica, la ceramica, le tende o i pigmenti. Qualche tempo fa, mentre mi dedicavo a uno dei miei passatempi preferiti, sfogliare un catalogo di articoli Art Déco, ho scoperto uno strano oggetto in vetro anni Venti chiamato “Ruba Rombic”. Il suo nome è una combinazione di due parole: rombododecaedro, un solido archimedeo duale, e Ruba’i, un tipo di verso persiano dell’XI secolo. Questi vasi dall’aria cubista erano pubblicizzati come “la poesia nell’arte moderna”, una combinazione di forme irregolari e lirismo. Mi ha colpito questo tentativo di “infondere la poesia nel vetro”, come diceva il catalogo… La campagna promozionale veniva amata o odiata per il suo approccio kitsch e mi è parso un buon esempio di linguaggio usato come materiale. Il Rubáiyát di Omar Khayyám, nella versione di Edward Fitzgerald, contiene una strofa deliziosa: “Oh un libro di canzoni, oh una coppa di vino, oh una forma di pane, e te, amor mio, vicino a me, a cantare nella solitudine… Solitudine, bene veramente divino!”
Non è fantastico pensare a un set di oggetti di vetro mentre si leggono questi versi? Si determina quasi una percezione sinestesica, fenomeno che ho usato anche in alcuni dei miei lavori. Come guardare forme geometriche mentre si ascoltano tristi canzoni d’amore. Uno strano miscuglio cognitivo di sensi diversi che crea la manifestazione di un pensiero. L’ho spiegato in modo un po’ contorto, ma sono cose difficili da articolare a parole; per esprimere quello che intendo avrei decisamente bisogno di creare un oggetto. E questo potrebbe essere un altro esempio efficace di quando il linguaggio come materiale raggiunge i suoi limiti, e io mi trovo costretta a tornare al lavoro manuale e realizzare una ceramica.