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ArteSera Anno 1 Numero 7 giugno 2011



Road to gardens

Ilaria Gadenz



Il primo free press di Arte Contemporanea per tutti


SOMMARIO ArteSera n°7 –
LA CITTA’ SI RICONOSCE VOL.2


D’amore e traversine - di Luca Rastelloù

Architettura e paesaggio – di Maurizio Zucca

Road to gardens – di Ilaria Gadenz

La Repubblica verde – di Claudio Cravero

Collezione ArteSera – Pierluigi Pusole

La serra dei soffioni – intervista a Maria Bruni di Olga Gambari

Sent’è d’art – di Filippo Fossati

Il Giardino della Memoria

Identica natura – di Alessandro Sciaraffa

I giardini di Venezia – di Olga Gambari

Little Sparta – di Francesco Bernardelli

City Veins – di Andrea Deaglio

Fitzcarraldo – di Laura Cherchi

Che albero sei?

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L'arte che verrà

n. 16 novembre - dicembre 2012

Il racconto degli oggetti
Monica Cuoghi
n. 15 settembre-ottobre 2012


Liz Christy, photo by Donald Loggins

Orti della Garbatella, photo by Zappata Romana/studioUAP


“C’è nella non determinatezza, nella ingenuità di questi spazi, tutta la carica del riprendersi il mondo che sempre più repressa e censurata è una delle radici della civiltà urbana” (Franco La Cecla)

Nel 1942 il Museum of Modern Art di New York apriva le porte a Road to Victory, una processione di immagini celebrative e manifesti propagandistici selezionati e ben confezionati da Edward Steichen e Herbert Bayer a sostegno dello sforzo bellico. Da un anno, al ritmo incessante degli annunci radiofonici, l'America era scesa a fianco dei suoi figli al fronte, la guerra si vinceva anche a tavola; 'Food for freedom, vegetables for vitality' dicevano radio e giornali, la nazione intera aveva intrapreso l'impresa dei Victory Gardens, gli orti comuni(tari) di cui già in molti si ricordavano e che avrebbero sostenuto l'economia fiaccata dalla spese di guerra.

Un decennio prima, tra il '30 e il '39, anni di depressione nera, li avevano chiamati Relief Gardens, gli orti del sollievo; 'fresh food, fresh air, exercise and education' era il supercalifragilistichespiralitoso della propaganda che trasformò gli affamati coltivatori improvvisati in uomini sani e onesti. A ritroso, negli anni della prima guerra mondiale si chiamavano Liberty Gardens, nel 1894 Potato Patch Plans. Nomi diversi, vari gradi di edulcorazione, un'unica missione reale: tornare alla madre terra per sfamare la popolazione urbana nei momenti di crisi. Anche Eleonor Roosvelt - molto prima che Michelle Obama si sporcasse le mani in nome di diete più equilibrate e valori nutrizionali di sedani e fagiolini - aveva impiantato un victory garden nel giardino della Casa Bianca e non a caso, proprio la terra, coltivata e generosa, era tra le icone di Road to victory - ‘the earth is alive, the land laughs, the people laugh and the fat on the land is here’ - e di molte altre campagne politiche, autarchiche o meno, in tempo di guerra. Lo stesso accadeva in Italia, ad esempio, dove negli anni '40 la battaglia del grano invase le città, colonizzò giardini pubblici e terreni privati. Da noi si chiamavano 'orti di guerra', a Torino si trebbiava in Piazza Castello, si coltivavano patate nel parco del Valentino, si piantavano girasoli nelle aiuole. In Inghilterra si decise di lottizzare e coltivare anche Hyde Park.

Superata la guerra, alle spalle l’emergenza alimentare, dopo un paio di decenni di euforico consumo, la crisi energetica degli anni ’70 - canonizzata nel Rapporto sui limiti dello sviluppo del Club di Roma nel ’72 - ebbe un impatto mondiale, reale, percepibile, quotidiano. Per la prima volta, l’idea fiduciosa del progresso illimitato si sfibrò in fila dal benzinaio, per la prima volta si iniziò a parlare di ecologia e lo si fece fuori dai circoli scientifici, allargandone la portata e la riflessione in ambito sociale: la crisi ecologica rispecchiava una crisi globale di natura cognitiva - fondamentale a tal proposito il concetto di ecologia della mente descritto da Gregory Bateson e il testo di Felix Guattari, Les trois ecologies - una crisi di immaginazione alla quale solo nuove pratiche sociali responsabili avrebbero potuto offrire una soluzione.
Erano d’altronde gli anni ’70, pratica sociale significava anche spontaneismo; negli Stati Uniti, l’inizio del decennio - sulla scia dell’attivismo politico degli anni ’60 - si aprì con una nuova stagione di partecipazione dal basso, con l’emergere di un diffuso desiderio di migliori condizioni di vivibilità urbana. Laddove latitava indifferente il governo, si affermò una nuova agenda, civile, che parlava la lingua franca dell’ambientalismo, intergenerazionale e interclassista; a New York spuntavano nuovi community gardens a ripopolare quei vacant lots invasi dalle macerie del crollo immobiliare; la grande disponibilità di spazi liberi, - interi isolati o lotti interstiziali - la crescita della popolazione e i nuovi flussi migratori furono il terreno su cui si innestarono i primi tentativi di occupazione dei terreni abbandonati, delle pieghe e smagliature edilizie, i primi esperimenti guidati da quel pensiero selvaggio, come lo chiama Claude Levi Strauss, che adattava le regole della progettazione alla logica dell’accumulazione, della disponibilità dell’equipaggiamento, del ‘può sempre servire’.


Spontaneo il gesto, incontrollabile e indefinito il risultato. I giardini comunitari, sebbene in molti casi effimeri, divennero e sono ancora oggi un luogo di stratificazione identitaria e culturale, manifestazione di gusti, religioni e abitudini, estensioni della vita delle persone che se ne prendono cura, che li abitano, li coltivano. Che sia un groviglio di erbacee, un giardino dei semplici incasellato in vecchi cornicioni, che sia popolato di bizzarrie, santi, sirene e cigni di ceramica, coltivato a pomodori e peperoncini, calendule, pervinche e girasoli, ogni spazio verde, riconquistato al degrado e vissuto nuovamente è soprattutto un detonatore sociale, un presidio dell’economia del dono - laddove lo scambio avviene in termini di tempo e socialità - una rete di legami. E’ interessante a tal proposito quanto racconta Michela Pasquali nel bel volume Giardini di Manhattan. Storie di guerrilla gardens; storie appunto, plurali ed eterogenee così come eterocliti sono i giardini e gli orti comuni che punteggiano e hanno occupato negli ultimi quaranta anni Loisaida, un’area a sud est di Manhattan oggi conosciuta come il garden district: Miracle Garden, El sol brillante, Earth People, Jardin de los Amigos, Casa Esperanza, La Plaza Cultural Garden - fondato nel 1976 da un gruppo di artisti tra cui anche Gordon Matta Clark - e molti altri giardini e orti spontanei, quasi domestici, ingenuamente spettacolari fin dalle dalle origini, da quei peace corps-type from the post-flower power generation che nel 1973 lanciarono le prime seed-bombs in un’area abbandonata tra Bowery Street e Houston Street, un vacant lot che avrebbero poi occupato e trasformato in un giardino che ancora oggi esiste e che è stato intitolato a Liz Christy, artista e attivista verde, fondatrice dell’associazione Green Guerrillas.

pimp my roundabout!
Stesso vocabolario e stesse pratiche di riappropriazione urbana sono riscontrabili oggi in quel movimento internazionale chiamato Guerrilla Gardening, fondato nel 2004 dall’inglese Richard Reynolds, che dalle aiuole di Elephant e Castell e grazie a Youtube ha insegnato a migliaia di persone l’arte di costruire seed-bombs nelle proprie cucine, ha trasformato il tradizionale e barboso giardinaggio inglese in un’avventurosa attività notturna. Basta una rotatoria, una pala e qualche pianta per trasformarsi in gentili fuorilegge. Guerrilla Gardening dimostra quanto un’attività da boyscout - pulire i bordi delle strade, prendersi cura di una pianta di fagioli - possa essere super cool, come etica, estetica e epica in questo caso combacino; lo stesso accade quando i Badili Badola, un gruppo di guerriglieri giardinieri di Torino, trasformano un angolo di parco dismesso in una foresta di abeti proprio affianco ai cancelli di un asilo, quando i quartieri adottano uno spartitraffico fiorito, quando la visione diventa azione.

'anybody can be an urban farmer, you’re only limited by your imagination' (David Tracey).
Altrettanto significative sono oggi - e anche in Italia - le esperienze di agricoltura urbana. Un tempo erano solo gli orti comunali, quelli dei pensionati, destinati per regolamento agli ultra sessantenni. Ora si chiamano orti biologici, orti comunitari, roof gardens, fattorie urbane; a gestirli sono spesso gruppi informali di persone o associazioni di quartiere, ambientaliste, che trasformano zone desertiche e cuscinetti periferici in presidi urbani contro la speculazione edilizia - come accade alla Garbatella a Roma, dove un terreno prospicente la sede della Regione è stato riqualificato con orti collettivi - giardini segreti in rigogliosi impianti di autoproduzione e ricerca di specie autoctone - come accade agli orti delle Zitelle alla Giudecca, a Venezia - giardini di condomini, tetti e balconi in aree dove la filiera corta diventa realtà. A Roma li hanno censiti e mappati, la rete degli spazi condivisi si chiama Zappata Romana; nel 2009 a San Francisco, il gruppo di artisti e designers californiani Future Farmers hanno lanciato un progetto pilota - Victory Gardens - di riduzione della filiera produttiva, a Dietroit, dove il collasso dell'industria automobilistica sembrava aver soffocato il sogno americano, la rinascita passa attraverso la riconversione agricola di interi quartieri abbandonati.
Che si tratti di orti sui tetti, orti di quartiere, interstizi e selciati occupati, giardini spontanei, che siano abitudini e pratiche codificate, legiferate o meno, che non si cerchi - come Richar Reynold - o che si auspichi - come il canadese David Tracey - il sostegno istituzionale, sono però tutti capitoli di un’unica storia che riconquista i margini, che parla di riemersioni e re-immaginazione civile e urbana, una battaglia combattuta nei fossati e che guadagnerà il campo aperto solo quando anche la dimensione urbana, quella più alienante, non li avrà adottati e non ci sarà più bisogno di nominarle perchè saranno pratiche diffuse, così come oggi lo sono nelle piccole economie di condominio.

Nel 1973, via dalla voragine del terrorismo, Gianfranco Baruchello trovò la sua avanguardia sociale occupando alcuni ettari di terreno destinati a speculazioni edilizie vicino Roma. Da quella impresa non solo 'contadina' ma anche politica, economica e artistica che prese il nome di Agricola Cornelia e che si concluse nel 1981, prese forma How to imagine: a narrative on art, agriculture and creativity, un manuale di istruzioni per il libero esercizio dell'immaginazione. Oggi, da leggere e rileggere