ArteSera Anno 1 Numero 8 luglio-agosto 2011
Fine settembre 1998.
Un lungo viaggio: la giornata in pullman, la notte in nave.
Poi al mattino, l’Adriatico alle spalle, il bus si inerpica verso il sole, attraverso le colline via via sempre più verdi.
Ancora insonnoliti, ci godiamo il magnifico paesaggio di fiumi, gole e saliscendi, e all’improvviso, come uno schiaffo, ci colpisce la prima casa distrutta.
Avevamo passato la frontiera. La frontiera più invisibile e tangibile che si possa oltrepassare. Eravamo entrati nello scenario di guerra.
Sarajevo ne era stata la protagonista assoluta, come ci hanno mostrato i fotoreporter per i quattro lunghissimi anni dell’assedio, con immagini di distruzione e dolore. Devastazione e disperazione che, a distanza di tre anni dalla fine della guerra, erano ancora percepibili ad ogni angolo, in uno sconvolgente crescendo, lungo tutto il percorso e soprattutto lì, nel cuore amaro della città.
Non era solo la presenza costante di militari e carri armati, non era solo per le steli funerarie a perdita d’occhio, anche nei giardini pubblici, perché non si sapeva più dove seppellire i morti, non soltanto per il paesaggio di grattacieli bruciati, marciapiedi sfondati, case squarciate dalle granate, buchi di proiettili nelle sedie e nel tavolo dove facevamo colazione. Era tutto l’insieme, che unito al vivo vociare che risuonava per le strade, provocava un vortice incostante di emozioni. Era l’enorme contrasto tra la morte negli occhi e la vita nelle orecchie, era l’andirivieni viscerale tra l’aver paura di un filo d’erba sotto cui poteva nascondersi una infida mina e la gioia delle persone che si godevano i raggi del sole autunnale, dei ragazzi con le chitarre nei locali fumosi della notte.
Restituire a Sarajevo la sua vitalità, il suo vissuto, la sua complessa e variegata molteplicità. Sarajevo, secolare esempio di convivenza multirazziale, di apprendimento e di scambio tra le culture, patrimonio e ricchezza di umanità, per tutta l’umanità.
Per questo hanno voluto distruggerla.
Per questo era importante mostrare che non ci sono riusciti.