ArteSera Anno 2 Numero 12 marzo-aprile 2012
Nel 2005, in occasione del 60° anniversario della Liberazione, quattro registe e attrici teatrali, Gabriella Bordin, Mariella Fabbris, Rosanna Rabezzana, Elena Ruzza, mettono in scena, su commissione dello SPI CGIL di Torino, uno spettacolo che rappresenti il ruolo rivestito dalle donne nella Resistenza in Piemonte. L’idea forte e la sfida del progetto, intitolato Non mi arrendo, non mi arrendo!, è stata quella di partire dalle testimonianze dirette delle donne che alla Resistenza avevano preso parte, rendendole protagoniste sulla scena.
In cinque comuni del Piemonte, Collegno, Pinerolo, Ivrea, Settimo, Torino, grazie ad un passaparola tra donne, si sono trovate anziane ex partigiane disposte a condividere i propri ricordi. Insieme ad altre donne più giovani e ad un gruppo di studentesse hanno preso parte a laboratori teatrali in cui si sono man mano aperte alla memoria e al racconto e hanno acquisito tecniche teatrali di base. Ne sono nati diversi spettacoli radicati ai singoli territori.
Non mi arrendo, non mi arrendo, è un progetto condiviso con molte donne che non si sono mai arrese, altre che imparano oggi cosa significa resistenza. R-esistenza è un mare in piena, con ondate di produzione e di idee, che si articola e sviluppa, tra sedi Spi, con donne appena pensionate, con le studentesse, bambine e ragazze, e anziane, nel territorio piemontese.
Vivo in una Città che mi ha permesso di sperimentare un percorso artistico/antropologico/teatrale che chiamo Per un teatro della memoria nel quale sostengo che solo con gli abitanti si raccolgono dati e informazioni vitali, che un’ “indagine tradizionale” non può rilevare. La ricerca diventa sostanziale e qualitativa, e non prevede di indurre tutto ad un piano prestabilito, ma raccoglie desideri e opportunità reciproche, per chi ascolta e per chi racconta. Crea un’eco che nel tempo fortifica e amplia i contenuti.
Ritrovo, in questa mia attitudine e attenzione, un autentico percorso artistico che si ramifica, cresce come un albero, pone interrogativi che si trasformano in obiettivi, allargando la propria visione del mondo. Dall’interno costruisce strumenti per realizzare senso critico, e insieme nutre lo stesso sogno, quello di edificare una società di pace.
Quel mare di memoria, noi su questa nave lo solchiamo, e diventa forza contagiosa. Continuiamo a coinvolgere diversi territori, incoraggiate l’una dall’altra, con forza e sicure che si possa dare altro coraggio per vivere, con le piccole e grandi cose. Da tempo si concretizza il nostro fare teatro, ed è mitica la nostra nave che emerge, si allontana, si avvicina …Questa nave ha visto una guerra di secoli, sole, pioggia, vento mai finita. Oggi noi orientiamo il cammino vicine come ieri decidiamo la rotta, non mi naufraghe. Audace impresa la nostra contro le minacce della tempesta, che non vede il bisogno di tenerezza, maternità, creatività.….Nessuna può resistere se non è saldamente legata, una all’altra, costrette a chiederci di quale sorta di resistente sostanza siano le corde che ci legano alla vita. Andiamo non perdiamo la rotta, con piacere e con speranza. Per continuare a vivere, vedere … parlare con la nostra voce.
Questo è il testo iniziale, che risuona in tante di noi, e mi riporta ogni volta, all’inizio dello spettacolo, a pensare con forza che stiamo facendo proprio questo, concretamente. E’ detto tra parole in prosa e poesia, testimonianze, oralità, testi letterari, dentro a quel teatro in divenire, che comprende con semplicità tutta un’umanità della quale faccio parte.
Chiediamo alle donne di partecipare ai Laboratori, indichiamo un percorso, ma è la sostanza che dà forma creativa, comunicazione, confronto generazionale fondamentale. Costruire ogni giorno la gioia di vivere, costruire quei luoghi della cultura, farli nostri per non farne consumo, ma farne cultura, vita, la nostra non solo femminile, ma dei ragazzi e delle ragazze. I figli.
Una donna come Nathalia Ginsburg ci lascia queste parole:
Quello che deve starci a cuore è che ai nostri figli non venga mai a meno l’amore alla vita, non devono essere oppressi dalla paura di vivere, ma semplicemente in stato di attesa, intenti a preparare se stessi alla propria vocazione. E che cosa è la vocazione di un essere umano se non la più alta espressione del suo amore per la vita. Non dobbiamo chiedere o sperare che i nostri figli siano: geni, artisti, eroi, santi. Aiutarli nella ricerca di una vocazione: avere una vocazione noi stessi, conoscerla, amarla e servirla con passione perché l’amore per la vita genera amore alla vita.
E’ stato verificato ampiamente sulle nostre teste e corpi che si può fare, e che non sono i tempi che possono decidere, ma le persone che in un’alchimia irripetibile possono voler cambiare, in questo tempo, il mondo. Artisti e non, di chi vuole fare della propria vita un’arte.
Per un teatro della memoria entra anche nella scuola, necessario come il pane, credo non sia speculativo se non per ancorare “quella nave carica di significati” di conoscenza reciproca, di legami, di noi. I laboratori, con noi “Figli della Fabbrica” non figli d’arte, ma autodidatti in cerca di maestri/e, sono stati e sono i luoghi informali di produzione, apprendimento, circolazione di immagini e di idee.
Non ho usato parole come empowerment …. Non so riprodurre in analisi teoriche tutto questo, perdo certe parole, e ho la presunzione di volerne usare di nuove… ma i progetti parziali o compiuti, immediatamente realizzabili, mi consentono insieme a tanti di vedere il futuro, il nuovo … elementi che ancorano la speranza della comunità, fatta di fisicità concreta…. I momenti progettuali sono sempre necessariamente tortuosi e incerti, con tappe di verifica. I progetti precisano soluzioni affrontano problemi, anticipano o rilanciano il processo di partecipazione. E non abbiamo bisogno di tecnici spersonalizzati … ma di potere decisionale. Avere il coraggio di costruire questa responsabilità a chi si sente escluso.
Il diritto alla felicità? Vogliamo costruire la gioia di vivere, considerare le cose nel loro giusto livello. Né troppo né poco; scoprire il sapore delle minute cose come preparare un pranzo, adornare una casa e se stessi; circondarsi di oggetti semplici, inventando dal nulla bellezza e armonia, che dagli oggetti si comunicheranno ai rapporti tra le persone. Se i capi decidessero di occuparsi di questo senza pensare che è perdere tempo, non esisterebbe più la guerra? E’ Joice Lussu che scrive in quel tempo di ricostruzione delle cose, della vita delle persone, appena finita la guerra.
Certo la guerra non è qui, ma nei paesi intorno, e la sentiamo vicinissima. I bambini soprattutto sentono quell’aria di morte, e non sanno darle un nome. I bambini che non fanno distinzioni tra loro, che non vedono confini e bandiere. Gli adulti distrattamente lasciano i loro piccoli davanti alla televisione e non rimane solo la realtà virtuale nelle loro teste, ma parole, informazioni, immagini, che vengono elaborate nei loro sogni, producono pessimismo, sottomissione e paure che generano atti di difesa, arroganza, con giochi solo di sfida, non di prova e iniziazione naturale alla conoscenza, al dolore. Tutto è finto.
Nei laboratori di Teatro è tutto vero. Come raccontare e raccontarci attraverso le parole del racconto. Per esempio, metteremo in scena Il vestito nuovo dell’imperatore e ragioniamo su quanto ha speso in stoffe per essere vistoso e potente l’imperatore, di quanto spendiamo noi per trucchi, cibo per animali, gelati, profumi, una cifra, come direbbe Rodari, billiardoni di millantoni…
E’ un capitale enorme, e ne basterebbe la metà per debellare la fame e la sete nel mondo, per curare i bambini malati, per eliminare l’analfabetismo sulla faccia della terra. E nel gioco delle parti , sono i bambini a voler vivere la parte degli “imperatori” immaginandoseli ben diversi da quelli che vedono alla televisione che provocano guerre. E’ sono vere le parole che cercano i bambini, autentiche, di un sapere profondo.
Diritto di pensare, di avere idee tante e diverse…, un’altra arte dimenticata, fondamentale per la conoscenza e la crescita delle persone.