Equipèco Anno 9 Numero 33 autunno 2012
Riflessi di un’iconografia moderna
Vincenzo Santoriello, ceramista di Vietri sul Mare, me lo aveva detto: «Noi siamo una freccia lanciata nel futuro, e più si tira indietro, nel passato, la corda dell’arco, più la freccia andrà lontano».(1) E Bill Viola (1951, New York), rivisto tra le sale di Villa Panza a Varese ne è cosciente. Non può esistere quindi un’epoca moderna senza la consapevolezza di un bagaglio culturale preesistente. Da dove veniamo? Dove andiamo? Le domande sono sempre quelle, e sempre gli stessi sono gli interrogativi sulla vita e sulla morte. Bill Viola, in qualità di video artista, si è posto all’interno dell’unica storia esistente: dentro una storia e dunque parte di una tradizione, avendo scelto come pura opzione rappresentativa ciò che è veramente costitutivo e strutturale alla vita dell’uomo. Semplice dimostrazione del fatto che, nonostante tutta l’evoluzione mediatica e scientifico-tecnologica che ci circonda, siamo in realtà non troppo distanti da uno scalpellino del XII secolo.
Dentro una stanza buia, addossato ad una parete, uno schermo ad alta definizione ospita Emergence (2002). Ai lati di una piccola vasca di marmo, due donne sedute meditano, pensano e riflettono su un fatto che non riesce a dar loro pace. Ad un certo punto la più giovane si accorge di qualcosa che sta per accadere e, con movimenti estremamente rallentati, dirige lo sguardo verso la vasca. La donna più anziana, con un velo in testa, si gira, mentre l’acqua ha cominciato a sgorgare. D’improvviso il corpo bianco-cadavere di un loro caro (forse un figlio e un fratello) è restituito leggiadro alle braccia delle due donne che lo raccolgono piangenti, lo distendono al suolo e ne coprono le membra. Quei fattori che potrebbero ricondurci al tema della Resurrezione non sono in realtà così espliciti: il corpo del giovane uomo è restituito innanzitutto senza piaghe, né fori di chiodo sulle mani e sui piedi. Che si trattasse invece di una rigenerazione? Di una vita dopo la vita? Sta di fatto che le donne non lo attendevano e, lo stupore dei loro volti, misto a lacrime, è il vero protagonista. Infatti, più che alla Pietà di Masolino da Panicale (datata al 1424 e conservata al Museo Diocesano di Firenze) alla quale la composizione rimanda, sembra di essere dinanzi a Giotto. Come egli introdusse il «diritto alla lacrima»(2) Bill Viola getta le fondamenta di una moderna Pietas, che costringe a guardare gli aspetti essenziali dell’umano – nascita, vita, morte –, il circolo vitale caro al buddismo secondo il quale «ogni cosa deriva da un’altra in un processo di generazione permanente».(3)
L’acqua, elemento della purificazione e cortina esistenziale di necessario passaggio, detta la profondità e la dinamicità nei movimenti, anche qui estremamente rallentati, delle Three Women (2008) protagoniste di un’altra pala di Bill Viola. Questa fa parte della serie Transfigurations e descrive il passaggio da uno spazio atemporale sgranato in bianco e nero, verso la rinascita e il rinnovamento del colore. Una madre, una ragazza poco meno che ventenne e una bambina si avvicinano lente dal fondo, fino a raggiungere la cortina d’acqua. La prima a passare è la donna più anziana che con un gesto materno e benevolo invita le figlie più timorose ad entrare. Poco dopo si accorge che il tempo è finito e, seguita dalle altre, insieme tornano indietro secondo un ritmo circolare. È il passaggio, il trapasso da un’esistenza spettrale alla carnalità luminosa della vita, sperimentata da un unico corpo. Come nel dittico Eternal Return (2000) Viola descrive la transizione tra due mondi, dello spirituale e del materiale, della vita e della morte, le parti che secondo la tradizione figurativa cristiana orientale e occidentale erano unite e rappresentate nelle Icone. L’Imago umano, eterno e spirituale espresso attraverso un’immagine percepibile ed esperienziale. È un doppio movimento, verso il terrestre e verso il celeste, l’azione dove prende forma la natura simbolica della bellezza. Ha scritto Pavel Florenskij, l’Icona è «l’esistenza spirituale rivelata».(4)
L’unità del soggetto è ritrovata, contemplata senza alcun invisibile abbaglio spiritualistico né tantomeno decadente e naturalistico. Nei 60 minuti di durata di The Darker side of dawn (2005) una vecchia quercia che sormonta una collina a nord di Los Angeles è stata ripresa da Viola durante alcuni giorni. Il materiale è stato poi montato in un video time-lapse in modo da documentare il lento procedere del tempo dall’alba al tramonto. L’unico elemento visibile che separa il video da un dipinto è il saltuario fruscio delle fronde dell’albero che di tanto in tanto una lieve brezza smuove. Ancora una volta è il passaggio dalla notte al giorno che domina la scena, con una semplice postilla da aggiungere. La panoramica dell’immagine, ossia la fotografia di partenza, è pensata in modo tale da legare il particolare dell’albero al suo contesto, e più ancora alla mutazione delle condizioni astronomiche che variano nell’arco delle ventiquattro ore. Come se la quercia partecipasse durante la sua breve esistenza di una storia che l’ha preceduta e che la supererà. Vengono alla mente le inquadrature del recente film di Terrence Malik, The Tree of life, in cui la “via della Grazia” coincide con immagini immense, volte a legare la dolorosa esperienza di una famiglia con il disegno ampio di una vicenda cosmica. Anche in Bill Viola il dolore è uno «spazio vuoto» - o se si preferisce è una ferita aperta – che guida l’esistenza dell’umano: «Per vivere abbiamo bisogno dell’ignoto, di quel luogo del mistero indescrivibile a parole in cui il pensiero si arresta, se quel luogo non c’è non è possibile andare avanti».(5)
Consapevolezza questa che guida il Nantes Triptych (1992) dove tre canali di proiezione video a colori rappresentano tre scene distinte (veramente riprese da Viola): a sinistra una giovane donna nell’atto di partorire, a destra una donna anziana in punto di morte, mentre al centro un uomo vestito galleggia nello “spazio vuoto” e scuro, tra la vita e la morte, quale collante tra i due estremi, legati in un’unica azione in The Reflecting Pool (1977-1979). Un uomo, anch’egli vestito, dal cuore di un bosco si avvicina ad una piscina d’acqua, prende un grande respiro e si tuffa. Rimane sospeso per aria, bloccato in fermo immagine, contratto, e piano piano si confonde tra i rami degli alberi. Nel frattempo lo “specchio” non smette di riflettere le immagini di una vita che continua. Alla fine l’uomo esce nudo dalla piscina e rientra nel bosco. Anche qui è il ciclo vitale che trasforma la persona e Bill Viola trasforma la figura umana in icona. Sono video, è vero, ma l’alta definizione della tecnologia al plasma, in LCD, unita ad una formazione umanistica e ad una sensibilità classica nell’uso del colore, delle proporzioni e nelle velature di luci e ombre, ci permettono di dire che Bill Viola è un pittore. In breve, egli non è sceso a patti con la modernità, usa metodi diversi, ma dentro una medesima traiettoria d’immagine. Lega la sua arte alla storia dell’arte, nel tentativo di perseguire un significato. Direzione alla quale, ad oggi, non è stata trovata una valida alternativa.
Note
1- V. Santoriello, intervista realizzata dall’autore, lunedì 2 marzo 2009.
2- P. Daverio, Ecologia della bruttezza, Il Giornale dell’Arte, N. 269, ottobre 2007, pp.12-13.
3- V. Valentini, L’imago: luce mescolata a tenebre. In K.Perov (a cura di), Bill Viola: visioni interiori, catalogo della mostra, Palazzo delle Esposizioni (21 ottobre 2008-6 gennaio 2009), Giunti, Roma, 2009, p.132.
4- V. Valentini, ibi. p.148.
5- Intervista a Bill Viola, in A. Bernardini, Bill Viola: Reflections, catalogo della mostra presso Villa e Collezione Panza, Varese (12 maggio-28 ottobre 2012), Silvana Editoriale, Milano, pp. 62-65.