Equipèco Anno 9 Numero 31 primavera 2012
Carne...Spirito...Pittura...Spazio...
Carne: pulsante, accesa, ingombrante, massiccia... e la pittura che si fa muscolo vivo e intona una sinfonia digestiva, un metabolizzare la materia e i colori del mondo attraverso la sublime crudeltà del gesto espressivo.
Spirito: fluido, volatile, invisibilmente solido... lo spazio della consacrazione accoglie la carne pittorica nel suo ventre morbido, lascia galleggiare i volumi dipinti come un pianeta infuocato nel buio cosmico.
Vincenzo Pennacchi rimette in gioco la superficie del fare pittura, credendo in una vita biologica della materia cromatica, riaprendo il contenzioso interiore con la potenza barocca della memoria. Le forme spezzate o parziali richiamano il ciclo alimentare della natura, non dimenticando la veggenza di quanti hanno perimetrato e suturato la ferita aperta. Penso a Goya e Edvard Munch, Rembrandt e Chaim Soutine, Caravaggio e Hermann nitsch, Artemisia Gentileschi e Marina Abramović... artisti che hanno sentito l’odore del sangue nel timbro della notte, scivolando dentro il trauma della carne urlante, lungo la metafora sociale di una violenza estrema ma riscattabile. le opere di questo ciclo sono urla metalliche che rimbombano nel nero, lampi solidi che scorrono fuori e dentro lo sguardo. hanno l’impatto evocativo del crash che spaventa, quel modus pittorico che richiama un James G. Ballard più molecolare e ascetico. I colori si accendono come fossero lampi urbani di qualche metropoli meticcia, la natura informale del gesto mette insieme la tragica vitalità dell’incidente (la nostra era e costellata da incidenti che segnano svolte epocali) con la metafora iconoclasta di una figurazione organica.
Ci sento anche l’automatismo estremo di William S. Burroughs, intellettuale più interiore di Ballard ma altrettanto catartico nel modo biologico di leggere il reale. natura e artificio dialogano nei suoi libri sotto il segno del sangue, della carne lacerata, della patologia virulenta. e la stessa cosa che ascolto davanti alle formule installative di Pennacchi, dove ritrovo una coscienza batterica della bellezza, un epitaffio indomito della resistenza umana di fronte all’incedere dell’universo.
La fotografia restituisce lo spazio reale della visione.
La costruzione di ogni inquadratura disegna l’attraversamento linguistico.
L’estetica della consumazione si esprime qui con matura cognizione spaziale. Un luogo svuotato dalle sue protesi rituali si rianima attraverso i volumi installativi dell’opera. In un attimo riaffiorano silenzi meditativi, echi sacrali, densità che riguardano lo spirito profondo di certi ambienti. la stessa opera diviene superficie percorribile, spazio dentro lo spazio, lingua arcaica e al contempo futuribile.
Carne e spirito in una sintesi che fonde ogni differenza percepibile.
Il conflitto si ricompatta senza scomparire.
La battaglia molecolare attraversa l’opera e il suo spazio elettivo.
Dentro l’opera: dove non esiste morte ma continua rinascita.