Equipèco Anno 8 Numero 30 Inverno 2011
Archiviare, classificare, ordinare, controllare… sono diverse le aspirazioni di coloro che hanno creduto in quello che il sociologo tedesco Jürgen Habermas ha definito “Progetto della Modernità” e che si sono concretizzate nel museo la cui funzione può essere semplificata nella raccolta, conservazione ed esposizione con finalità educative di quel patrimonio culturale ed artistico degno di essere trasmesso ai posteri. Inevitabile, nemmeno a dirlo, il problema di chi decide cosa sia degno di essere conservato ed esposto. In questo senso per esempio l’artista Jimmie Durham riscontrando una vera e propria egemonia culturale occidentale della quale il museo attraverso la sua funzione di legittimazione di conoscenze ne è un caso esemplare sovverte con la sua consueta ironia tale imperialismo culturale creando nel 2003 in una cartiera abbandonata di Colle Val d’Elsa un Museo della carta il cui patrimonio artistico è composto da scarti di ogni tipo di carta: dai libri scolastici alla carta da parati, dai manifesti strappati alla spazzatura. La critica di Jimmie Durham però non è una voce isolata e marginale.
Durante tutto il ‘900 infatti le avanguardie, le neo-avanguardie ed il movimento della Institutional Critique in particolare hanno duramente criticato la funzione di cui parlavamo sopra chiedendo un’apertura mentale del museo con una maggiore attenzione alle attività dei giovani artisti, un miglioramento dell’attività educativa integrando informazione e formazione, un dialogo maggiormente produttivo tra passato e futuro (pressioni poi confluite nella realizzazione del Centre Pompidou a Parigi nel 1977). A seguito di tali sollecitazioni il museo è andato incontro a numerose modifiche, alcune delle quali come vedremo in seguito sono state a dir poco radicali. Se prendiamo per esempio il caso dei musei di arte contemporanea la modifica più evidente, sintetizzabile nella formula “effetto Guggenheim”, riguarda il rinnovo del look museale con soluzioni architettoniche che come dimostra l’esperienza del Guggenheim di Bilbao possono dare una forte identità al territorio locale nel quale vengono realizzate e stimolare l’economia locale grazie all’arrivo dei turisti. Il museo contemporaneo, però, cambia anche il proprio nome privilegiando l’uso di acronimi (pensiamo agli italiani Madre, MAXXI, MamBO, PAN, MAN, MARCA, RISO, ecc.) per avvicinarsi e coinvolgere il pubblico dei giovani che predilige il linguaggio rapido degli sms e delle email. Ad ogni modo non si tratta solo di una modifica di facciata o di nome ma anche di funzione. Se in passato infatti il compito dei musei è stato quello di conservare, di accrescere ed esporre il patrimonio loro affidato (la cosiddetta legittimazione o sacralizzazione dell’arte) oggi questa funzione, se non è venuta del tutto meno, è comunque passata in secondo piano: i musei contemporanei, infatti, non guardano più al passato ma al futuro promuovendo i giovani così come fanno le gallerie private ed investendo in arte contemporanea come qualsiasi altro collezionista privato. Questa condizione di per sé sarebbe fortemente positiva se non fosse che i musei, data la riduzione dei fondi pubblici e la relativa attività di fund raising, si stanno trasformando in promotori e supporter di artisti emergenti diventando così il punto di partenza di una carriera artistica più che quello di arrivo. Avvicinandosi molto al mondo delle gallerie ed ai mecenati privati, il timore che traspare da alcuni studi che ho condotto tra il 2009 ed il 2010 è che i musei selezionino sempre meno in base a criteri storico critici propri, mettendo la loro funzione di “legittimazione” dell’arte al servizio dei mercanti o comunque di chiunque possa offrire supporti economici e finanziari all’attività museale.
Uno degli artisti contemporanei che con grande attenzione ha analizzato nel corso della sua carriera artistica il sistema dell’arte e l’istituzione museale è senza dubbio l’artista americana Andrea Fraser che nel libro Museum Highlights pubblicato alcuni anni fa ripercorre alcune tappe della sua carriera artistica: dalla performance Museum Highlights: a Gallery talk (1989) nella quale recitando i panni di una docente-guida di museo evidenzia come i gesti e le frasi di coloro che parlano di cultura, invece, di educare ed informare, hanno il potere di alienare ed escludere chi non ha familiarità con questo linguaggio, fino alla performance Little Frank and his carp (2001) nella quale ascoltando un’audio-guida visita il Guggenheim di Bilbao reagendo in modo erotico alla voce della guida ed all’architettura interna del museo evidenziando con questa sua azione come il visitatore-turista abbia un ruolo meramente passivo e meccanico ed il contenitore sia diventato più importante del patrimonio in esso contenuto.
Promuovere, emancipare, acculturare, democratizzare… sono queste le aspirazioni del museo contemporaneo (un caso paradigmatico è quello del Palais de Tokyo di Parigi) per il quale non è più importante la consistenza del proprio patrimonio artistico ma le attività di partecipazione, apertura e confronto con un pubblico sempre più ampio.
Un esempio a tale proposito è dato dalla produzione dell’artista romano Cesare Pietroiusti che in più occasioni ha riflettuto su come il museo sia più un luogo di soffocamento che di promozione e supporto dell’arte. Pensiamo per esempio a quando nel 1996 ha vissuto per una settimana all’interno del museo Lousiana di Humlebæck vicino Copenhagen nella settimana precedente l’inaugurazione della mostra alla quale era stato invitato ad esporre alterando radicalmente l’identità del museo o al più recente progetto Museo dell’arte contemporanea in esilio presentato nell’ambito del progetto di Dora Garcia L’inadeguato presso il Padiglione Spagnolo dell’ultima edizione della Biennale di Venezia, dove l’artista attira la nostra attenzione sul recupero e sulla promozione di quelle opere o testimonianze marginali escluse dai circuiti ufficiali dell’arte italiana e per questo esuli e confinate. Così se per gli addetti ai lavori il museo diventa un luogo claustrofobico, per i sociologi esso diventa sempre più un luogo di consumo di beni culturali che al pari di un centro commerciale cerca con le sue offerte culturali di intrattenere il grande pubblico lasciando che l’aspetto ludico e relazionale prevalga su quello formativo ed informativo. Nella serie Museum Photographs iniziata nel 1989 l’artista tedesco Thomas Struth conduce un vero e proprio studio di sociologia visuale sulle modalità di ricezione dell’arte da parte dei visitatori dei musei. Roma, Firenze, Parigi, Madrid…
In questi scatti l’arte classica diventa una cornice che abbraccia le espressioni dei visitatori di fronte alle opere d’arte o meglio quel sistema di relazioni profonde ed impercettibili che lega i gesti dei visitatori a quelli rappresentati nell’opera osservata. In questo contesto Struth fotografa come se fosse un filosofo la particolare condizione esistenziale dell’uomo contemporaneo che riflette su se stesso attraverso i capolavori dell’arte internazionale. Catturando lo stupore ed il sentimento reverenziale dei visitatori Struth fotografa anche la perdita da parte dei musei della loro “aura” in una sorta di proletarizzazione e turistizzazione dell’arte che non sfocia mai nella denuncia sociale ma resta un’analisi oggettiva delle relazioni tra arte e pubblico.
Attraverso un’analisi psicologica delle architetture dei luoghi culturali ed un processo quasi di purificazione del mondo culturale l’artista tedesca Candida Höfer fotografa luoghi di consumo culturale come per esempio la Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio a Bologna o il Museo di Capodimonte di Napoli con un linguaggio documentaristico e storico caratterizzato da inquadrature frontali ed impersonali e da una precisissima messa a fuoco dando ai soggetti raffigurati una dimensione quasi atemporale amplificata sicuramente dalle grandi dimensioni delle foto. Nelle fotografie della Höfer i visitatori non ci sono più, l’uomo in generale non è più presente. C’è solo il silenzio ed il rigore delle migliori opere di architettura culturale attraverso le quali percepiamo il valore e la grandezza di coloro che li hanno prodotti ma anche il valore e la misura di quel patrimonio culturale che non ha il colore di una nazione ma appartiene all’intera umanità. Questa idea di purificazione racchiude probabilmente una riflessione sulla spettacolarizzazione dell’arte ed i suoi rituali che hanno fatto degenerare il museo a luogo deputato al divertimento delle masse di turisti assetati più che di conoscenze del pellegrinaggio in sé per non fare brutta figura con parenti ed amici al ritorno dal viaggio. Ne è una testimonianza il progetto, basato sugli esempi di Lascaux ed Altamira e benedetto da Umberto Eco, di costruire non lontano da Paestum un tempio identico a quello di Hera a Poseidonia. Continuando così in futuro potremmo avere proprio quell’Uffiziland, suggerita da Eco alla periferia di Firenze con le copie dei quadri, i colori forti e vivaci per la gioia dei fotografi “della domenica”, destinata al consumo delle grandi masse di turisti interessati a farsi immortalare vicino a qualche quadro “famoso” più che animati da una passione per l’arte e la cultura.
Un ultima ma non per questo irrilevante modifica del museo è la trasformazione del suo patrimonio artistico da sempre considerato come privo di valore economico in quanto espressione dello spirito e della storia di un popolo in un insieme di beni culturali che come ha affermato Jean Clair possono essere consumati, venduti, scambiati al pari degli altri beni materiali. In altri termini con i tagli ai musei viene infranto per la prima volta il tabù dell’inalienabilità delle collezioni pubbliche. Penso in particolare al governo francese che qualche anno fa ha siglato un accordo con l’emirato arabo di Abu Dhabi per la cessione della denominazione Louvre e la locazione a titolo oneroso di una parte della sua collezione al fine di costituire nell’emirato arabo un museo, su progetto di Jean Nouvel, da inaugurarsi nel 2012. Non mancano comunque esempi di altre nazioni tra le quali la stessa Italia: per esempio nel marzo 2009 la Giunta del piccolo comune di Monterchi (AR) ha approvato un accordo con la Curia che dovrebbe trasferire l’affresco della Madonna del Parto di Piero della Francesca (affresco che dà il nome all’omonimo museo nonché una identità ed un riconoscimento internazionale a questo piccolo comune) nella chiesa di un ex monastero destinato ad essere trasformato in un albergo di lusso. I musei che per molto tempo sono stati arbitri della lotta tra poteri, a causa della riduzione dei fondi pubblici rischiano di diventare una colonia dei poteri economici più potenti che limitano la libertà artistica potendo in qualsiasi momento richiedere di produrre solo ciò che li soddisfa, sia in termini di opere sia in termini di contenuti, pena la cessazione delle sovvenzioni e dei finanziamenti.
Il futuro del museo è quindi pieno di interrogativi: partecipazione o conservazione? libertà o dipendenza? contenitore o contenuto? Non credo che la scelta migliore sia data dal preferire un termine piuttosto che un altro. Forse la soluzione migliore a questi interrogativi sta nel non considerarli antitetici ma nel farli dialogare e comunicare promuovendo così una piena democratizzazione del museo e della sua funzione per fare in modo che tutti (pubblico, artisti, curatori, ecc.) possano sentirlo e viverlo come uno spazio che dà vita ed alimenta la propria identità e libertà.