Arianna di GenovaMy home. Una casa in città, il titolo dell'edizione di Networking 2004-2005 raccontata in questo libro (che nelle sue intenzioni vuole essere una sorta di diario di bordo, un album da sfogliare capace di restituire il vissuto, più che un insieme di testi teorici), parte da qui per tentare di disegnare una mappa della nuova situazione che si va creando.
''Gli spostamenti e le migrazioni planetarie hanno messo in scacco lo stato-nazione e non c'è da meravigliarsi pertanto se gli
abitanti di uno stato-nazione forgiano sempre più spesso la propria identità a partire da altri riferimenti... Oggi siamo tutti in movimento. Molti di noi si spostano, cambiano abitazione o vanno avanti e indietro tra posti che casa loro non sono. Alcuni di noi non hanno bisogno di uscire per viaggiare: possiamo correre o svolazzare attraverso la Rete, raccogliendo o mischiando sullo schermo del computer messaggi nati in angoli opposti del globo. E la maggior parte di noi, così, si muove, anche se fisicamente, cioè con il proprio corpo, sta ferma. Lo facciamo, secondo le nostre abitudini, quando restiamo incollati alle poltrone e ci spostiamo da un canale all'altro sullo schermo televisivo, entrando o uscendo, via cavo o via satellite, da spazi stranieri a una velocità molto superiore a quella dei jet supersonici e dei razzi cosmici. Ma non vi sostiamo mai tanto a lungo da diventare qualcosa di più di semplici visitatori, da sentirci a casa nostra'' (Zygmunt Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, ediz. Laterza, 2002). Molti, però, ''sono in movimento perché vi sono stati spinti, dopo essere stati in primo luogo sradicati spiritualmente da un posto che non prometteva nulla, da una seduzione o propulsione, una forza troppo potente, e spesso troppo misteriosa perché le si possa resistere. Essi non considerano affatto il proprio stato una manifestazione di libertà. Sono i 'vagabondi' alla deriva''.
Ecco, l'argine a questa deriva potrebbe essere rappresentato dal concetto di «casa»: non naturalmente la casa intesa come costruzione architettonica, stabile, ferma nelle sue fondamenta, ancorata in un mondo di ricordi e in un tempo che non si può più agganciare al presente, ma una dimora aperta, interattiva, un luogo che accoglie in sé le istanze della nuova società e ricompatta - a partire dalla memoria di un passato stratificato, dalla sedimentazione di mille storie che si intrecciano sui pavimentidi semplici camere, da una promessa di identità futura - l'individuo smarrito, spaesato, in cerca di radici moderne, quindi «trasportabili ovunque».
La realtà sottratta
Siamo di fronte a un'inevitabile fine della grande narrazione, in compagnia di microstorie che si dipanano lungo i sentieri esplosi. La sparizione del sistema-mondo, quello che elargiva sicurezze e porti riconosciuti dove orientare la propria bussola o far nascere certezze inconfutabili, è avvenuta senza provocare almeno in apparenza terremoti catastrofici. C'è in atto, come diceva Ernesto De Martino quasi trent'anni fa, una apocalisse culturale (La fine del mondo, Einaudi, 1977-2002), dove tutto ciò che è famigliare, domestico, privato, sfuma in una dissolvenza. È divenuto incomunicabile e ha allentato la sua presa su una dimensione intersoggettiva. Ogni mondo porta necessariamente con sé la sua fine ma oggi assistiamo alla permanenza dello stato luttuoso, alla non riciclabilità degli eventi, alla mancata sostituzione dei referenti. ''Il perdersi del mondo comune - scriveva De Martino - riflette il perdersi della presentificazione''. La realtà allora si fa sottrazione, è segno incerto, vuoto da riempire. Siamo tutti corpi separati, fisiologicamente a rischio, spossessati, immersi in una fluidità che tende a cancellare le biografie o a renderle dicotomiche, schizofreniche, disgregate. La lotta contro tutto questo disperdersi richiede uno sforzo collettivo che riconduca il privato dentro al pubblico, nel tentativo di una nuova risignificazione del mondo che curi le smagliature prodotte da quel declino di mondo ormai profetizzato. Se non si reagisce, ammoniva ancora De Martino in tempi non ancora così attraversati dal fenomeno delle migrazioni di identità e di massa, si rischia la nausea sartriana, lo spogliarsi di tutte le memorie operative della cultura. In sintesi, la nudità dell'esistenza.
Nel crepuscolo del XX secolo e all'inizio del XXI, le soluzioni per ovviare a questa precipitazione identitaria sono state diverse. Per combattere il senso di instabilità, si può per esempio creare una sceneggiatura delle sensazioni, tuffarsi in una soggettività che ridisegna i suoi contorni con l'aiuto dell'immaginazione. ''Oggi il passato non è una terra cui tornare in una semplice politica della memoria, ma è diventato il deposito sincronico di scenari culturali, una specie di archivio centrale de tempo, cui fare ricorso come meglio si crede, secondo il film che dev'essere girato...'' (Arjun Appadurai, Modernità in polvere, Meltemi, 2001). Il nuovo rito collettivo, afferma l'antropologo indiano, si affida a una performance: una volta c'erano le tradizioni a formare un mondo comune, adesso vengono riconfigurati gli scenari ''inoculando dosi di immaginazione negli spazi che ne sono privi''. E l'attività mediatica è un valido supporto, anzi un motore attivo, per il buon esito di questa azione di ricontestualizzazione esistenziale.
Corpi extra territoriali
Viviamo, dunque, in quella che è stata acutamente definita ''una società post-tradizionale'' (Anthony Giddens), ovvero in un mondo dominato dalla variabilità, con un'abbondanza di alternative. Ogni cittadino però, pressato dal doversi assumere qualsiasi responsabilità individualmente, rischia di restare apatico, vinto dalla lacerazione dell'io. La vecchia comunità che si basava sulla solidità delle sue strutture, a partire dallo stato-nazione che sovrintendeva a tutto e a tutti, è definitivamente tramontata, avendo perduto le sue tre condizioni per porsi in essere: sicurezza esistenziale, personale, certezza (la speranza di essere nel giusto, la conoscenza di ciò che è proprio e improprio). Ancora Bauman: ''La routine quotidiana, ormai spezzata e inaffidabile, è sottoposta a un esame che genera ansia, in quanto rivela i rischi che essa comporta; ma quel che è peggio, spesso le risposte apprese perdono di validità troppo rapidamente per consolidarsi ina abitudini e fissarsi in un comportamento routinario [...]. L'inattendibilità dei segnali disposti lungo la strada della vita e la vaghezza dei punti di riferimento esistenziali non possono più esser visti come un inconveniente temporaneo cui si potrà porre rimedio con l'acquisizione di nuove informazioni... Vivere nell'incertezza ci appare così l'unica vita che abbiamo'' (La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, 2000).
In questa assenza di orizzonti comuni, l'appartenenza a una comunità passa allora anche per piccoli gesti, per una quotidianità vissuta come fosse una infaticabile ricognizione, una ricerca. Lo spazio domestico, un tempo focolare familiare, recinto protetto, viene catapultato all'esterno, s'invera in un progetto extraterritoriale. È transitorio anch'esso ma custodisce in sé una permanenza che salva il cittadino dalla sua solitudine globale. La casa allora diviene cellula sociale, rete relazionale, non più ghetto ma spazio aperto dove la dimensione dell'esistenza individuale si confronta con diverse realtà e storie, i patrimoni personali con cui viene necessariamente in contatto. È come se ogni stanza di appartamento si trasformasse in una specie di condominio: frequentata e occupata sì dalla privacy di una famiglia ma anche dal retroterra degli altri da sé in una sorta di neotribù che accoglie un po' di tutto. I networks dunque non sono soltanto spaziali o temporali ma anche emozionali e affettivi, aiutano a far nascere quelle che Appadurai chiama comunità di sentimento. Gli individui che vi transitano sono le variabili, i soggetti che fanno da raccordo alla rete di comunicazione. La quotidianità diviene allora una costruzione di un sistema, un luogo della riconoscibilità: ha come riferimento la biografia,
ciascuna storia individuale è una mediatrice del tessuto sociale. Il vissuto, l'esperienza di ognuno costituisce quel rapporto diretto col mondo necessario per la sopravvivenza di qualsiasi comunità umana. L'everyday non è mai impersonale: è una strategia di esistenza, ha i suoi riti, le sue impronte, le sue magie e possiede un'unicità che scarta sempre dalla banalità, contribuendo a creare un nuovo mondo, mutevole, pieno di connessioni, inter-soggettivo. La globalizzazione non riesce del tutto ad anestetizzare il cittadino, a disperdere il suo io. ''La città globale - sostiene la sociologa americana Saskia Sassen - è un luogo strategico per attori privi di potere giacché li mette in grado di affermare la propria esistenza''. Lo spazio dell'agorà, deputato all'incontro e al confronto si è indebolito ma non è scomparso: la metropoli ha perso il suo centro, hamille microspazi satelliti da connettere con modalità inedite e la società liquida ha come risorsa l'esistenza personale, esistenze senza più frontiere, che migrano e si ritrovano, si ri-orientano. La metropoli è, come scrive Marc Augé, romanzesca, pullula di racconti, di fili da tessere. Per quanto aperta e fluidificata, ha una sua dimensione della memoria, contiene le tracce della storia collettiva ma anche di milioni di individui che la abitano, che scelgono al suo interno itinerari differenti, sistemi di segni cui «votarsi» ogni giorno.
Attori nei luoghi
L'edizione Networking 2004-2005, che si è dipanata tra le maglie strette di una rete di comuni della Toscana, ha scelto di invitare alcune artiste che usano le pratiche del ''quotidiano'' non tanto per sacralizzare la routine quanto per spiazzare il sistema di relazioni improntato alla produttività del mercato. Sono perlopiù artiste che hanno inscritto nel loro dna lo sradicamento: nate in un luogo e in una cultura e poi traslocate in altro contesto, a causa di guerre, amori, studi. Per loro, la casa è un luogo ambivalenteche ospita sia il concetto di passaggio e transito che di percorso sedimentato, affollato di ricordi, tradizioni, riti. È un ponte sociale, un microcosmo urbano dove invertire i ruoli, far deflagrare i clichés e nominare le nuove comunità che si vanno aggregando.
I workshop che si sono svolti in diverse città (Firenze, Monsummano Terme, Seravezza, Livorno, Pontedera, Prato) sono stati tenuti da tutor che hanno messo in gioco se stesse dentro un tessuto di rimandi, quale può essere un network.
La polacca Katarzyna Kozyra, che da sempre lavora sugli interni, sugli spostamenti di identità e sul proprio corpo, intendendolo come soggetto mutante, ha scelto di rendere attori nei video i giovani artisti del laboratorio, sulla base dell'idea che «la casa deve essere ovunque vai». La turca Gülsün Karamustafa, il cui lavoro si concentra sull'universo domestico, sulla costellazione delle memorie e delle icone espresse da una società, come metafora dello spostamento da un mondo a un altro, dove post-colonialismo, islam e l'essere donna vengono continuamente messi in discussione, ha interpretato la parola casa come uno spazio che è migrante in sé, transitorio come una baracca, realizzando la sua shanty-home e raccogliendo testimonianze e sogni di persone straniere che si sono insediate in Italia. «Qual è la mia realtà culturale nella mia geografia? Qual è la realtà culturale della mia famiglia sopravvissuta a più e più migrazioni?» si domanda Gülsün. Dragana Parlac, proveniente dalla ex Jugoslavia ma ormai stabilmente residente a Roma, si muove nel campo della performance. Il suo lavoro si sviluppa a partire da gesti apparentemente insignificanti, come il cucinare, lo stirare, per poi deviare verso qualcosa di diverso, che spezza la routine dell'azione per riconsegnare quell'atto a una nuova semantizzazione, inquietante e inquinante. Come set della sua azione per Networking ha scelto gli appartamenti sconosciuti, lasciandosi guidare dall'ambiente e tentando di contaminare le proprie memorie e inibizioni con le sollecitazioni esterne.
L'algerina Zineb Sedira (nata a Parigi, ora vive a Londra) testimonia una storia di transiti attraverso le relazioni sentimentali con i diversi componenti della sua famiglia e con gli intrecci di lingue straniere, progressivamente divenute lingue di appartenenza a seconda dei flussi migratori. A Firenze ha chiesto ai giovani artisti del workshop di proporre la loro interpretazione soggettiva di casa e di farlo attraverso la fotografia, mantenendo però un'attitudine installativa, coinvolgente del medium. L'italiana Gea Casolaro, il cui percorso artistico è costruito sul tema del viaggio e dello slittamento dei ricordi, sul ribaltamento del concetto di strada in quello di luogo pieno, abitato, non solo punto di passaggio indefinito, si è imbarcata in un'opera di destrutturazione, edificando un puzzle domestico che fosse anche un ricettacolo di desideri futuri. La sudafricana Doris Bloom (conferenza finale di Networking 2004, a Livorno) è un'artista che riproduce in fotografie tipo tableaux vivants, in quadretti di fiction, le vicende brutali della sua terra ai tempi dell'apartheid ma che per riuscire a mettere in scena quelle memorie infantili ha dovuto emigrare in Danimarca, raggiungendo quindi una reale distanza affettiva e spaziale dalla propria casa.
Arianna Di Genova è nata a Roma il 27 giugno 1964. Dopo studi classici ha frequentato l'Università La Sapienza presso il dipartimento Teatro Ateneo, laureandosi poi (cattedra di Arte contemporanea) con una tesi sulla fenomenologia del colore, attraversando la natura di diversi media.
Critica d'arte, dagli anni Novanta è giornalista professionista, redattrice presso il quotidiano.
Il Manifesto dove lavora nella sezione Visioni e nel supplemento Alias, settimanale di intrecci e contaminazioni culturali. Oltre ad aver pubblicato numerosi articoli in riviste specializzate e settimanali, ha collaborato con Raisat arte e nel 2002 ha pubblicato un saggio sulle performances dei media per la rivista della Biennale di Venezia. Come curatrice, insieme a Anna Cochetti, nel 1994 ha organizzato la rassegna collettiva Aggregante/Disgregante, a Palazzo Racani Arroni di Spoleto. Ha scritto diversi saggi e testi critici per cataloghi di manifestazioni artistiche (tra i più recenti, il testo su Maria Lai per la mostra alla Galleria nazionale d'arte moderna, 2004, e quello su Giosetta Fioroni a Bologna, galleria De' Foscherari, per la personale dal titolo Internofamigliare, 2005).
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Andrea Abati è l'autore delle foto pubblicate in questo GATE.