Tutti gli sviluppi dell'architettura in effetti sono dovuti proprio a questa convinzione di poter analizzare e costruire e rendere migliore il corpo sociale attraverso un'organizzazione ben precisa dello spazio fisico.
La cosa certa comunque è che il
domicilio distingue e forma, attraverso un gioco di opposizioni tra l'idea del fuori e del dentro che chiama in causa il concetto di
appartenenza, il soggetto sia come individuo e sia come parte di una collettività. Quando viene meno questa differenza e quindi una possibilità dialettica e di scambio tra queste due dimensioni, quella che compete al singolo e quella che deve negoziare con gli altri (Salvatore Natoli in
Comunicazione e decisione. Pubblico e privato in una società complessa, 1991), il concetto stesso di
abitare perde il suo senso. Questa condizione è direttamente il frutto della distinzione tra il
vivere e il
progettare la città istigata e definita dal concetto stesso di
moderno.
Roland Barthes nel 1967 in Semiologia ed Urbanismo poteva ancora affermare che la città è un discorso che potremo analizzare solo quando non verrà più vissuta come una metafora, ovvero come quel misto di pratica quotidiana, desiderio del singolo e memoria collettiva.
Questa ''analisi'' però può portare anche ad una troppa distanza dalle cose producendo una sistematizzazione che non coincide poi con l'elemento di casualità provocato dalle relazioni e legami che si formano tra gli individui, legami invisibili ma che fondano sia l'esistenza dello spazio personale che di quello collettivo. Infatti, delineando e sistematizzando un percorso in una regola si perde la memoria. La traccia si sostituisce alla pratica. E manifesta la proprietà (vorace) del sistema geografico di poter trasformare l'agire in leggibilità, facendo però dimenticare un modo di essere al mondo (
Pratiche di spazio in
L'invenzione del quotidiano di Michel De Certeau). Quello che fa la differenza e che unisce e forma quindi la dimensione del privato e quella del pubblico è l'azione continua della
memoria del singolo rispetto a quella degli altri suoi simili.
Proprio parlando di progettazione in astratto dello spazio da abitare e dello spazio da condividere viene in mente subito
il villaggio verticale di Le Corbusier realizzato tra il 1947 e il 1952 in una parte periferica della città di Marsiglia in Francia. Questa costruzione è un grande condominio che può ospitare 1600 persone e in cui oltre a mini appartamenti vi sono scuole, supermercati, cinema. L'idea era quella di rendere tutto alla portata dell'abitante in modo che non fosse costretto necessariamente ad uscire da quel complesso. Robert Hughes, nel libro
Shock of the New porta questo progetto come l'esempio palese dell'utopia del moderno e della sua impossibilità di renderlo praticabile. L'inquilino di questo complesso vive lo spazio del collettivo come squisitamente personale portandolo ad abbassare il suo grado di responsabilità sociale e di percezione di una comunità allargata al di fuori del suo luogo personale di vita, ''della sua casa''. Studi recenti hanno analizzato queste architetture, costruite nel corso degli anni '80 anche in Italia nella periferia di Roma e di Genova, come un modo non per aiutare e coinvolgere, ma per esercitare un controllo sociale nelle classi meno agiate basandosi sull'azione della separazione. Queste strutture alla fine sono una sorta di
Panopticum Foucaultiano in cui però la differenza fondamentale risiede nel fatto che il controllore è lo stesso controllato.
Questa condizione del soggetto non è molto differente da quella dell'attuale cittadino globale in cui la paura del controllo lo porta ad autoregolarsi e ad autoescludersi dalla pratica sociale. Mentre però con il complesso di Le Corbusier era lo spazio sociale che veniva lasciato fuori, oggi accade perché lo spazio
del fuori ha completamente invaso lo spazio del privato attraverso le possibilità di comunicazioni immateriali fornite dalla grande diffusione dei mezzi tecnologici. In questo modo abbiamo assistito nel corso della seconda metà degli anni '90 ad una vaporizzazione della dimensione della casa (memoria, famiglia, punto di osservazione). La casa, e ciò che rappresenta, è vissuta oggi più come idea e atto di
omaggio a ciò che era, più che un luogo e pratica continua di identificazione e di formazione da parte del suo proprietario-abitante. Questo accade perché il singolo si rapporta con il mondo in maniera ''diffusa'', senza un vero interlocutore preciso, facendogli vivere come personali quei problemi che dovrebbero essere risolti a livello collettivo come la apatia politica, incapacità di realizzare legami duraturi, solitudine, gettandolo così in una tremenda frustrazione (Zygmunt Bauman in
La modernità liquida).
Questa situazione è evidente nell'attuale opacizzazione della piazza e del concetto di partecipazione politica dei cittadini, dimensioni che non riescono più ad essere riattivate da nessuna sollecitazione. Non è più scontata la diretta relazione tra il singolo e lo spazio sociale visto che quest'ultimo è totalmente rarefatto. Per questo motivo è necessario individuare nuove modalità e dimensioni di spazio con cui realizzare un rapporto di condivisione e di dialogo tra i singoli individui. Le artiste invitate per riflettere sul tema della casa per
Networking partono da questa presa di coscienza per realizzare un discorso sulla memoria collettiva e personale, sul ruolo del soggetto, sull'autocoscienza dell'individuo. Queste artiste riflettono sulla loro posizione fisica e mentale (come donne, come artiste, come madri, ma anche come cittadine, spettatrici, ecc.) rispetto all'idea di mondo ed all'idea di
altro e lo fanno fornendo azioni ed interventi nel tessuto sociale e non rappresentazioni di uno spazio privato. La concretezza della casa per queste artiste è il loro essere, il loro reagire alle cose e condividerlo. È un sentire personale che non si chiude in autobiografia e chiusura all'esterno, e le porta a non definire uno spazio di tipo fisico, ma mentale e possibile.
L'idea di casa per queste artiste ha subito a che fare con quella di identità e con l'esigenza di stimolare una condivisione intima che porti ad un dialogo collettivo tra gli individui. In questo senso un elemento fondamentale per loro è proprio il concetto di memoria: memoria da costruire, da condividere e da stimolare. Questo è un modo totalmente diverso e propositivo di considerare il lavoro sulla propria intimità, intimità vissuta come intimismo chiuso in sé dagli artisti che hanno affrontato il tema della casa solo come metafora o rappresentazione nel corso degli anni '90. Sarebbe curioso tracciare un percorso dalla fine degli anni '80 di come ha cambiato accezione il tema dell'abitare, della casa, dell'identità dell'individuo e le implicazioni di senso a loro connessi. All'inizio degli anni '90, con artisti come Pedro Cabrita Reis, Ilya Kabakov, Kawamata, avevamo una visione della casa vissuta come concetto metafisico in cui la sua formalizzazione coincideva con il soggetto che si confrontava con il mondo in senso ontologico e non storico. Nel corso degli anni '90, con l'irrompere dell'aspetto del reale e delle problematiche del sociale nelle pratiche artistiche, la casa ha assunto connotati più pragmatici. Proprio di quegli anni è la presenza dell'interno e dello spazio del personale, campo di azione affrontato soprattutto da artiste donne che si imposero da allora nel mondo maschilista, bianco e occidentale dell'arte. Tra questi artisti possiamo citare Kiki Smith, Tracey Emin, Emmanuelle Antille, tra i più recenti Monika Sosnowska, Gregor Schneider, ecc. Un'altra sfumatura del concetto di casa ampliamente praticato in questi anni è quello della casa come punto di origine, usato dagli artisti per parlare e confrontarsi sull'idea di appartenenza culturale e quello di sradicamento. Questa è una prospettiva aperta soprattutto dagli artisti dell'est europeo che hanno dato nuova linfa alle riflessioni sul concetto di relazione e di diversi punti di vista sulle cose di tipo geopolitico,tra questi Sisley Xhafa, Adrian Paci, Kim Sooja.
Contemporaneamente però molti artisti hanno reagito alla situazione geopolitica e dell'informazione di cui facevano parte pensando di intervenire nel reale con soluzioni pratiche-utopiche, con cui risolvere il problema della gestione nelle metropoli dello spazio privato e di quello collettivo collegato non solo a problemi di tipo etico, ma partendo da problemi pragmatici. Tra questi artisti vi sono Rehberger, Atelier van Lieshout, Stalker, ecc. facenti parte di quest'ultima prospettiva inoltre abbiamo artisti come Tiravanija, Althamer, Superflex, Surasi Kusolwong, Cai Guo Qiang, ma che puntano però ad una dimensione diversa dell'opera e dello spazio a cui si vogliono riferire. Questi sono tutti artisti che realizzano azioni effimere e che servono per innescare una dimensione di attenzione e di compartecipazione collettiva totale. L'opera per questi artisti alla fine consiste nell'esperienza collettiva condivisa dai partecipanti all'inaugurazione all'evento, che divengono così parte di una condizione nuova, una nuova comunità anche se in potenza. Con loro abbiamo la realizzazione evidente della necessità di avere una condivisione collettiva delle cose, dei fatti, adesso è il momento di riparlare ed introdurre un aspetto più personale in una prospettiva collettiva. Questa dimensione intima e personale da usare come stimolo per riflettere sulla dimensione collettiva e su cosa deve essere la società è quello che fanno le artiste invitate come tutor al progetto di
My home dei
workshop in Toscana di quest'anno.
Lorenzo Bruni (Firenze, 1976) durante i suoi studi con Enrico Crispolti alla facoltà di Lettere e Filosofia a Siena, collabora con Fabio Cavallucci alle tre edizioni di Tuscia Electa tenutesi nel territorio del Chianti dal 1996 al 2000. Dal 2000 ad oggi prende parte alle attività del collettivo degli artisti di BASE progetti per l'arte, e alla realizzazione di progetti specifici nello spazio no profit di Firenze. Inoltre nel 2001 viene chiamato a curare la mostra inaugurale della Fondazione Lanfranco Baldi Onlus di Pelago (Firenze), momento da cui inizierà una collaborazione prolifica e continuativa con la Fondazione Baldi e Pier Luigi Tazzi che ne è il presidente. Tra le varie attività realizzate e curate lì da Bruni ricordiamo la mostra ALBáNIA con A. Paci e S. Xhafa nel luglio 2001 e il progetto Italia-Italia, luglio del 2003, con E. Benassi, N. Pellegrini e O. Mocellin, A. Linke e S. Galegati. Oltre a scrivere per le riviste ''Arte e Critica'' e ''Around Photograpy'', attualmente sta curando il progetto di tre mostre dal titolo ATTITUDINI alla Galleria Comunale di Castel San Pietro Terme (Bologna) all'interno del progetto più che ventennale di Critica in Opera fondato e seguito da Mauro Manara.
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Andrea Abati è l'autore delle foto pubblicate in questo GATE.