Uno dei tanti project space europei gestiti da artisti: così Luigi Presicce definisce Brown Space, che ha fondato a Milano insieme a Luca Francesconi. Per loro la curatela è un medium al pari di altri, e gestire un'attività espositiva combinata ad una editoriale è un'estensione del proprio lavoro artistico. Così nascono mostre, studio visit, produzioni di multipli e una rivista: "con un approccio il più intimo possibile", preferendo la collaborazione alla competizione con altri artisti, sulla base di necessità ed interessi comuni. "Di tasca nostra" come dichiara Presicce in questa intervista...
Intervista a Luigi Presicce
A cura di Michela Gulia
Brown Projects Space nasce come spazio fondato e diretto da due artisti, Luigi Presicce e Luca Francesconi, mentre ad oggi in Italia la maggior parte dei non profit sono gestiti da collettivi o di curatori o di curatori ed artisti insieme.
Brown ci riporta agli anni ’70, al Centro Jartrakor a Roma o a Zona a Firenze. Mi riferisco a questi spazi perché entrambi erano caratterizzati, come voi oggi, da un’attività espositiva combinata ad una editoriale, oltre che da una tendenza all’autonomia e alla ricerca rispetto alle contingenze del sistema del mercato dell'arte.
Cosa ha motivato voi come artisti, ad aprire uno spazio indipendente e ad avviare Brown Magazine?
Direi innanzitutto che non abbiamo la pretesa di essere né il primo né l’ultimo spazio di questo tipo, anzi vorremmo essere uno dei tanti. In Europa ci sono molte realtà simili alla nostra, gestite interamente da artisti. Da noi invece c’è una sorta di competizione tra artista ed artista, manca quel tipo di collaborazione che sarebbe utile per andare avanti, e questo può far sembrare anomalo che due artisti decidano di promuoverne altri.
Brown Magazine è nato dalla nostra esigenza di indagare territori differenti da quelli soliti alle riviste che circolano in Italia.
Ci siamo dati un taglio ben preciso riguardo quelli che dovevano essere i nostri argomenti ed abbiamo scelto di non fare pubblicità, di non recensire mostre, di dedicarci principalmente alle tematiche che ci interessano come artisti, ossia la spiritualità, la metafisica, l’alchimia, l’arte popolare, invitando anche altri artisti e curatori, che condividono con noi questi interessi, a parlarne. Sono queste le tematiche specifiche di Brown sia per quanto riguarda lo spazio che la rivista, che sono un’estensione del nostro lavoro come artisti.
Interviste come testi orizzontali a due voci, studio visit dove mettete a disposizione di giovani artisti il vostro spazio, un focus che accoglie le esperienze di altre realtà simili alla vostra…. Puoi parlarci di tutte queste iniziative? Da cosa nascono?
Nascono dall’esigenza di cercare un approccio il più intimo possibile, che resta presente anche nel modo in cui ci sovvenzioniamo, ossia collaborando con artisti che ci piacciono e producendo una loro opera a tiratura limitata, un multiplo. In questo modo si instaurano dei rapporti che vanno al di là di un singolo episodio, rapporti che speriamo possano avere una lunga durata, rapporti continuativi. Il format dello studio visit permette ad un artista che non ha lo studio né la possibilità di far vedere il proprio lavoro di ottenere una certa visibilità per un giorno.
Per il momento ce n’è stato solo uno, perché utilizziamo lo spazio di Brown quando è vuoto, tra il disallestimento e l’allestimento di altre mostre. In questo caso abbiamo scelto Jacopo Miliani in continuità con la sua doppia personale, insieme a Richard Clements, appena conclusa. In questo modo è stato possibile offrire una visione completa del suo lavoro, comprese cose su cui sta ancora facendo sperimentazione e che ha voluto inserire per raccogliere pareri.
Questa è una cosa molto interessante, che difficilmente un artista farebbe in sedi "ufficiali". Da Brown non c’è la tensione della galleria, una tensione legata alla paura di sbagliare e alla assoluta necessità di vendere. Per quanto riguarda il focus, già nel secondo numero di Brown Magazine abbiamo inserito le interviste con due project space europei in qualche modo simili al nostro e cercheremo di proseguire in questa direzione.
L’idea è quella di creare una piattaforma di scambio e collaborazione con questi spazi, idea che c’era già in partenza, quando abbiamo deciso di fondare la rivista.
Brown funziona anche come spazio espositivo per le vostre opere? La domanda può sembrare cattiva perché ha a che fare con qualcosa di simile all’auto-promozione…
Non è previsto che si possa fare qualcosa con il nostro lavoro all’interno di Brown. E’ più un’idea curatoriale quella che portiamo avanti rispetto allo spazio. Noi curiamo tutti gli eventi e questo è già un’estensione del nostro lavoro, perché consideriamo la curatela come un medium artistico al pari di altri. Io e Luca lavoriamo già molto come artisti e non abbiamo pensato Brown come un modo per promuovere il nostro lavoro.
Lo spazio serve a dare una possibilità a chi non ne ha, serve ad un giovane artista per far vedere il proprio lavoro in modo ‘genuino’, fuori dal mercato e da situazioni vincolanti. Non abbiamo monopolizzato però l’idea di curatela, ed infatti ospiteremo per l’inizio del prossimo anno il progetto di un curatore esterno…
Sembra emergere sempre più forte la volontà dei non profit italiani di creare un network a livello nazionale ed internazionale, una piattaforma di collegamento - come dicevi tu - tra le diverse realtà. In che modo vi collocate all’interno di questa visione? Ci sono prospettive di collaborazione?
Per il momento abbiamo partecipato solo come spettatori ad alcune riunioni, come quella organizzata a Milano in Triennale, ma non so realmente come si evolveranno le cose. Credo che la nostra situazione sia molto differente da quella degli altri spazi indipendenti italiani che spesso hanno sovvenzioni o altre agevolazioni che noi non abbiamo.
Noi paghiamo l’affitto e produciamo le opere di tasca nostra, e soprattutto diamo spazio a chi davvero ne ha bisogno. Resta il fatto che la nostra idea di collaborazione è molto forte e con chi ha capito la nostra filosofia, come ad esempio FormContent di Londra, ci sono stati scambi veramente molto belli.
In che modo si colloca Brown nella scacchiera degli spazi espositivi milanesi? Che forma prendono i rapporti con altre realtà come gallerie, fondazioni ecc…?
Quando siamo nati come spazio, ci siamo posti il problema di essere qualcosa che non andasse a competere con la realtà milanese, composta fondamentalmente da gallerie, ma di lavorare su un terreno in qualche modo parallelo. Certo i contatti esistono e le collaborazioni nascono ogni giorno. Ad esempio, non sarebbe stato possibile produrre la grande scultura di Francesco Arena che abbiamo presentato recentemente come opera in edizione - in realtà una singola opera che si scompone in 8 pezzi - senza la collaborazione della Galleria Monitor di Roma.
Chi è abbastanza aperto da capire che non stiamo andando ad occupare lo spazio delle gallerie è in perfetta armonia con noi.
Riguardo ai multipli invece?
Direi innanzitutto che in Italia non c’è una cultura del multiplo. In altre parole il multiplo resta un’ipotesi poco valutata, mentre si tratta di un ottimo espediente per far girare il lavoro e per permettere a più persone di comprare l’opera di un artista.
In Italia ci sono molti giovani collezionisti non iper facoltosi che vorrebbero avvicinarsi di più all’arte. Così, avendo deciso di non fare pubblicità, nè di raccogliere denaro da altre fonti, abbiamo pensato di produrre questi multipli – di fare arte producendo arte.
La nostra necessità è quella di accettare meno compromessi possibili. Brown esisterà finché ci sentiremo liberi di fare ciò che facciamo.
Brown Project Space
Via Eustachi, 3 - Milano
tobebrown@gmail.com
Le puntate precedenti della nostra inchiesta sui nuovi spazi non profit italiani:
Politiche: paralleli e meridiani
Scambi d’arte ‘made in Europe’...
Oggi, ieri, domani
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Abbasso Prospero e Robinson Crusoe
Meno veloce della luce
Il totale è più della somma…
Napoli bella e dannata
Qualcosa di nuovo a Milano #2
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FormContent: profilo di uno spazio
Michela Gulia è laureata all'Università di Roma "La Sapienza" in semiologia dell'arte contemporanea. Ha lavorato presso la Fondazione Baruchello (Roma), dove ha partecipato a diversi seminari di ricerca, tra cui quello su "Roma '77" con Rogelio Lopez Cuenca, e "Senza titolo per parlarne" con Mauro Folci e Osservatorio Nomade. Attualmente collabora con UnDo.Net
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