Le Biennali sono il luogo dove i significati, le storie, le narrazioni possono essere riprodotte (Simon Sheikh).
"La mia avventura a Tirana è iniziata in compagnia di tre artisti albanesi, in una città piena di racconti e memorie dal passato. Poi alla Biennale, lontana dall'establishment del circuito internazionale dell'arte, parlando con i curatori Edi Muka e Joa Ljungberg, infine con Stefano Romano artista quasi albanese d'adozione" dice Elvira Vannini. Trova una 'cornice' in cui inquadrare una realtà contraddittoria ricostruendo i dialoghi di un viaggio sorprendente, oltre il canale d'Otranto senza il gommone...
Dopo Venezia, Istanbul, Lione, Berger, lo scorso 18 settembre ha inaugurato T.I.C.A.B Tirana International Contemporary Art Biannual.
Suddivisa in tre episodi consecutivi e in successione temporale, il titolo The symbolic efficiency of the frame è ripreso da un concetto di Slavoj Zizek: più che mai, oggi, la nostra percezione della realtà e il suo relazionarsi col mondo dipenderebbero da immagini e rappresentazioni mediali frammentate, "un discorso critico" secondo uno dei curatori Edi Muka, "sul modo con cui ci rapportiamo con il reale, nella sua moltitudine.
E' una questione filosofica, sul rapporto dell'uomo con la realtà. L'uomo non può mai raggiungere l'essenza della realtà ma si rapporta con diversi suoi aspetti, si creano delle cornici, che possono essere anche di tipo ideologico".
Le cornici inquadrano, evidenziano e spettacolarizzano. E attraverso varie inquadrature ho affrontato recentemente la questione della Biennale come fenomeno globale con cui spesso si costruiscono le modalità contemporanee del mostrare: la Biennale come una "post-istituzione del lavoro immateriale" (Pascal Gielen) definita anche da un sistema discorsivo, uno spazio culturale che produce pensiero: fino a che punto il formato espositivo può ancora consentire la sperimentazione di nuovi dispositivi culturali?
Nelle strutture egemoniche dell'attuale apparato politico e sociale (Chantal Mouffe) le pratiche artistiche e culturali possono giocare un ruolo maggiore poiché producono soggettività.
E a Tirana, la Biennale rappresenta un importante fattore nei processi di crescita del Paese, si confronta con la storia, la memoria, l'architettura come strumento del potere.
L'assunto modernista, l'austerità e il rigore costruttivo del razionalismo italiano al servizio del fascismo hanno generato, in un passato recente, una serie di soluzioni tipologiche e funzionali dell'architettura: la "Tirana Littoria" fu costruita nei mesi precedenti la seconda Guerra mondiale in un clima di propaganda politica. Il viale Deshmoret e Kombit che unisce piazza Skanderbeg con l'Università, è pieno di palazzi, dall'inconfondibile architettura «fascista» ispirati da Piacentini, edificati dagli italiani durante l'occupazione.
Lungo questo asse sorge l'Hotel Dajti, che ha ospitato la quarta edizione della Biennale, abbandonato, sgombro e dismesso da molti anni, doveva decantare l'altisonante ideologia fascista fu poi conservato dal regime di Hoxha, e considerato, al tempo, il miglior albergo della città, dove alloggiavano solo ospiti stranieri, inaccessibile agli albanesi e che paradossalmente potrebbe diventare la prossima sede del Ministero degli Esteri.
Il retaggio post-comunista, le utopie e le attuali distopie, il sogno europeo: accompagnata da tre artisti albanesi, Pleurad Xhafa, Sokol Peçi, Gedmond Lushka e da Dedej Arlinda è iniziata la mia avventura a Tirana, lontana dall'establishment del circuito internazionale dell'arte, piena di racconti, storie e memorie dal passato.
Parte I: Durante il viaggio in macchina verso l'aeroporto
Elvira Vannini: Tirana, sta attraversando degli sviluppi urbani rapidissimi, molto più di altre capitali europee, sembra una città in ricostruzione segnata dall'irreversibilità dei processi di globalizzazione: con cantieri e scheletri di palazzine dappertutto, un laboratorio sotto il controllo politico del capitalismo che genera trasformazioni sociali e urbane. E' preparata Tirana ad assimilare questi modelli di globalizzazione rispetto alla memoria storica di un popolo, di una società, di una città?
Sokol Peçi: Noi siamo pronti per essere globalizzati, psicologicamente ci adattiamo molto velocemente, siamo individualisti senza fede, questa è una terra senza Dio. Una terra di secoli di comunità auto-organizzate, di leggi non scritte fondate dal popolo e tramandate oralmente di generazione in generazione.
Gedmond Lushka: Le persone hanno tendenze individualistiche che ostacolano i bisogni dell'intera società. Ma l'individualismo non è un fenomeno solo albanese, il processo di transizione è stato prolungato a causa della mancanza di esperienze, di idee ossessive e totalitariste ereditate dal regime, per via dell'esistenza, ancora persistente, di una società tradizionale di parentela dove i legami sono molto forti.
SP: Il comunismo ha lasciato come eredità la sua ombra, la sua élite, in una sorta di rete intricata di relazioni basate più sul rapporto diretto che istituzionale. L'Albania è una piccola nazione, è dotata di una metropoli non molto sviluppata, e se osservata da un punto di vista sociale, è come se fosse un grande villaggio sempre più globale.
EV: Le strategie economiche neoliberiste, capitalizzano non solo lo spazio ma anche le relazioni sociali, come hanno stravolto la società albanese, come è cambiata le città dopo il confuso e sregolato decennio post-comunista?
Pleurad Xhafa: Questi stravolgimenti hanno trasformato le città in veri e propri cantieri affollati di persone venute da diverse zone rurali per migliorare la loro vita. La migrazione interna della popolazione ha aperto nuovi canali di sviluppo ma anche di caos. Sono state costruite intere zone informali, senza una pianificazione urbanistica, dove la gente ha innalzato la propria casa in cemento in terre che appartenevano ad altri.
EV: Per Saskia Sassen "il termine di economia informale: designa le attività generatrici di reddito che si svolgono al di fuori del quadro normativo predisposto dallo stato, pur avendo analogie con forme presenti in quel quadro. L'ambito e la natura dell'economia informale sono definite dallo stesso quadro normativo che essa elude."
Pensate si stia accentuando il divario, sempre crescente, tra le regole conosciute di organizzazione e ordine, di gestione degli spazi edificabili e dei vuoti della città pianificata, con gli 'stati di eccezione urbana' a carattere di crescita incontrollata, senza regole, caratterizzati dalla nascita di insediamenti informali nelle zone periferiche, come si stanno sviluppando questi processi?
GL: I nuovi arrivati si informano sulle volontà del proprietario della terra identificata, perché se risulta statale, la possibilità di ottenerla sono maggiori in quanto la proprietà statale si considera di nessuno. I primi arrivati nella zona agiscono come "sekser" (agente immobiliare informale), sotto-dividendo e vendendo la terra. In realtà in queste zone non si compra la terra, ma il diritto di stabilizzarsi attraverso accordi d'onore che non hanno alcun valore giuridico.
SP: Alla consegna della parcella non avviene subito l'edificazione, all'inizio si costruisce una baracca oppure semplicemente si posizionano dei materiali da costruzione come segno della presenza della proprietà privata. In questo modo si testa l'atteggiamento delle autorità.
GL: Questo spostamento di massa verso il centro ha portato con sé conflitti culturali e modi di pensare diversi tra loro. La necessità di istituzioni culturali che integrino la città con la sua periferia dimostra un rallentamento nel processo di sviluppo.
EV: Bathore è un quartiere periferico di Tirana, che si è sviluppato in modo disordinato dagli anni Novanta, dopo la caduta del regime, con l'arrivo verso la capitale di numerose famiglie provenienti dalle montagne della zona nord dell'Albania: quali sono state le conseguenze sociali di questi flussi migratori nelle aree suburbane?
PXH: Hanno portato con sé il peso dell'anima con tutta l'eredita del Kanun, rimasto per secoli come l'unica forma di legge non scritta, per organizzare la vita in tutti i suoi aspetti. Lo stato comunista riuscì a congelare questa legge per 50 anni, non riuscendo tuttavia a distruggerla del tutto. Poi negli anni '90, l'Albania è ripiombata nel caos e nel nord è rinato l'antico ordine, reinterpretato nelle nuove condizioni.
SP: Tutto è stato distrutto e ricostruito, la terapia dello shock sta dando oggi i suoi frutti. Dall'azzeramento completo della proprietà privata alla privatizzazione totale dello Stato si sono creati seri conflitti fra la sfera privata e pubblica. L'isolamento durante il regime ha lasciato il posto a una parziale libertà di informazione e movimento. Tutto si è concentrato nella capitale con grandi flussi di emigrazione, la maggior parte della popolazione è rimasta dentro, come fuori dal tempo.
PXH: Il capitalismo è ormai il sistema globale e continuerà a esserlo anche in futuro. Produce modelli simili ma diversi perché diverse sono le società. Visto che non esiste un modello assoluto di capitalismo globale, per le istituzioni è necessario avere la possibilità di scegliere liberamente la natura del capitalismo da sviluppare.
GL: Tante organizzazioni non governative che all'inizio erano attive e dinamiche oggi si sono fossilizzate, sono diventate meccanismi politici oppure monopoli privati, perdendo nel tempo il proprio fine.
SP: Si costruisce e si demolisce dettati dalla necessita e non dal progetto. Non c'è tempo per ascoltare così come manca l'informazione giusta per sapere come migliorarsi. "Noi dobbiamo costantemente divulgare nuove idee che al momento giusto possono essere messe in pratica", cosi diceva Milton Friedman.
EV: Secondo Alessandro Petti in "Temporary zones: alternative spaces or territories of socio-spatial control?" questo tipo di spazi hanno assunto un carattere alternativo rispetto alle regole che normano la città. Si sono trasformati - per sfuggire a una certa strategia di controllo e di repressione degli stili di vita considerati pericolosi - in zone temporaneamente libere, risorse, azioni dal basso.
PXH: Tirana è una città che produce energia che bisogna cogliere e con cui si può interagire nei modi più flessibili lavorando sulla città e dentro la città, creando nuovi luoghi di condivisione collettiva e di coscienza sociale mettendo in atto nuovi e molteplici movimenti culturali.
SP: Molte attività possono essere costruite dal basso sfruttando il modo in qui la città agisce e costringe a reagire. Negli ultimi cinque anni Tirana si è espansa in modo esponenziale e nei prossimi cinque anni forse sarà ancora più in crescita, aspettandosi che la legge e le infrastrutture abbiano una linea sempre più marcata (in questa fase di transizione verso l'Unione Europea) si potrà, ancora per poco tempo, agire in una maniera informale-legale per accumulare energia prima che sia canalizzata.
La sensazione di una porta d'ambasciata internazionale.
EV: Una sezione della Biennale, curata da STEALTH.unlimited si occupava di trasformazioni sociali e sviluppo urbano presentando una serie di casi studio, con un approccio molto interessante in una città che si è affacciata al neoliberismo e al capitalismo nelle sue forme più selvagge proprio attraverso uno sfrenato e incontrollato sviluppo urbanistico, dove domina la contraddizione e lo scontro tra la proprietà privata e quella pubblica, dove diventa sempre più urgente affrontare con criticità questi aspetti. E molti di questi punti sono stati trattati e discussi in una serie di incontri co-curati da Emiliano Gandolfi; sarebbe auspicabile che la prossima Biennale, dopo aver analizzato e conosciuto questi casi studio che coinvolgono molti dei paesi dell'ex-blocco sovietico e dei Balcani, riuscisse a sviluppare una progettualità incisiva ed efficace nel suo contesto politico e sociale, perchè, per citare ancora il filosofo di Lubijana, "abbiamo bisogno di riabilitare e inventarci una nuova e più ampia forma di azione collettiva, propria del programma comunista, che non sia né Stato né Mercato", soprattutto nelle aree periferiche e informali della capitale albanese.
Agamben ha descritto Auschwitz come il paradigma della dimensione politica del campo di concentramento. I campi come spazi sospesi all'interno della metropoli contemporanea, centri di permanenza temporanea, aree informali, zone in emergenza nelle quali l'eccezione diventa norma e l'uomo viene ridotto alla "nuda vita", sprovvisto di qualsiasi diritto. La formazione di un campo può mettere in discussione l'idea stessa di città come apparato democratico. Città come Tirana ma anche Belgrado, Sarajevo, Pristina sono state analizzate come esempi di "frammentazione" politico-sociale che, mentre nelle nostre società potrebbe essere fonte di paura, qua è inglobata nella normalità quotidiana. Questa frammentazione è stata anche indicata come "balcanizzazione" come sinonimo di indebolimento dello stato, di parcellizzazione, di rottura dell'unità, che non viene qui assunta in accezione negativa perché invece è la condizione che permette di sostenere iniziative dal basso, forme di auto-organizzazione e auto-governo, economie parallele, sistemi paralleli, identità e micro-culture, conferire potere a gruppi e diventare una potenziale forma di democrazia nel rendere 'effettive' le forme di dissenso.
Parte II: Tirana e la Biennale
Le Biennali sono il luogo dove i significati, le storie, le narrazioni possono essere riprodotte (Simon Sheikh). Lo spazio pubblico creato dalle Biennali diventa il modello per un nuovo ordine politico (Boris Groys). La Biennale di Tirana è il più importante evento d'arte contemporanea in Albania, come è cambiata la città in questi anni? Qual'è la situazione artistica egemone e l'audience del pubblico? Può la Biennale assumere la funzione di attivatore di processi politici e sociali?
Edi Muka: Tirana è passata attraverso un enorme cambiamento durante gli ultimi 6 o 7 anni. La città può difficilmente essere riconosciuta, specialmente dalle persone che l'hanno lasciata negli anni Novanta e sono ritornate oggi.
Tuttavia molti problemi hanno accompagnato questo cambiamento, causati dall'instabilità politica e dalla lotta per il potere e il controllo da parte dei due più importanti schieramenti della politica albanese, e dall'altra parte dal profitto totalmente incontrollato e individualistico che ha guidato un tipo di sviluppo, generato principalmente dall'industria della costruzione e dalla mancanza di programmi sociali.
Riguardo alla situazione artistica, non si può davvero parlare in termini di egemonia. Essa riflette piuttosto la situazione complessiva della società albanese, con la mancanza di responsabilità collettiva e sensibilità, e la considerazione delle istituzioni culturali come luoghi del potere.
La parola chiave per descrivere la scena albanese è "discontinuità": generata dalla mancanza di iniziativa e di pensiero collettivo da parte degli artisti di ogni generazione, mancanza di interesse a uniformarsi rispetto alla situazione globale, la mancanza di motivazione per usare l'arte come uno strumento attivo nel discorso sociale. A questo proposito io vedo la Biennale come un importante dispositivo per generare questi collegamenti mancanti e discussioni nella società, come qualcosa che sempre di più riesce ad adempiere a questa funzione.
Già durante l'ultima edizione, appena conclusa, siamo riusciti a non presentare semplicemente un'esposizione ma ad organizzare un ampio numero di eventi collaterali, attivando la scena locale in modi differenti, con un settimana di incontri e discussioni, un programma di film e proiezioni, ecc. Quindi io credo che questo processo sia attivo per entrambe, la Biennale e la società, che dovrebbero cambiare riflettendosi l'una nell'altra.
L'audience poi è una delle cose che mi piace di più a Tirana. Funzionando attraverso la discontinuità è sorprendente che Tirana non sia ancora riuscita a creare una suo pubblico dell'arte e questa è la sua grande potenzialità. Alla Biennale non vedi le stesse facce (che girano ovunque tra le inaugurazioni dell'occidente sviluppato) non esiste l'ipocrisia dei sorrisi e baci del mondo dell'arte. Il pubblico è incredibilmente vario, e "dalla strada", vengono anche per pura curiosità. Ovviamente ci sono persone che non amano la Biennale, ci sono quelli che non ci capiscono niente, ma ci sono molti che vogliono capire, che trascorrono del tempo e alla fine ritornano, e c'è un grande pubblico giovane, promettente e che fa ben sperare perchè più incline a identificarsi con l'evento e creare un rapporto con i lavori.
Dall'altro lato, la parte più difficile, con l'assenza di un pubblico di professionisti, è la mancanza di un'analisi lucida e di una critica adeguata. Tuttavia penso ci sia un grande potenziale in questo tipo di pubblico che non smette mai di stupirmi.
Joa Ljungberg: Io credo che il cambiamento più evidente abbia coinvolto il paesaggio urbano e la società albanese. Tirana è oggi una città differente rispetto a dieci anni fa'. I modelli di consumo, di vita, di socializzazione e comunicazione si sono rovesciati drasticamente e oggi abbiamo una generazione di studenti che non ha memoria del passato comunista. Sono il contesto e il pubblico che ha registrato le più radicali trasformazioni.
Stefano Romano: Tirana in questi anni è cambiata molto, è cambiata la direzione politica, è cambiata la città, sono cambiate le persone. Oggi l'Albania fa parte della NATO e si discute della liberalizzazione dei visti per il 2010. Non ci sono più albanesi che tentano di attraversare il canale di Otranto con il gommone, lo standard di vita si è alzato e le aspettative sono maggiori. L'arte è diventata qualcosa a cui più persone accedono, non esiste ancora il "sistema dell'arte" come noi lo intendiamo, quindi la questione su cosa sia "arte contemporanea", superata da tempo è invece qui ancora dibattuta dagli intellettuali albanesi. In questo modo è comunque più difficile portare il discorso sui temi più dibattuti all'estero, la biennale e le mostre del TICA sono comunque ancora le uniche possibilità di spostare la discussione altrove. La funzione "politica" dell'arte si esercita, io credo, nella produzione artistica, in quanto produce discussioni che spostano e allargano il senso di ciò che è interessante fare e vedere oggi ed in qualche modo influenzano la produzione di tutto ciò che è cultura e quindi il modo di guardare agli eventi contemporanei sociali e politici.
EV: I problemi di natura politico-economica, prima il regime poi il neoliberismo, il crollo delle utopie e la deriva socialista, il forte sistema accademico e istituzionale, la situazione culturale, le riforme del sindaco-artista, in questo background sociale e culturale, credi che la Biennale possa avere qualche implicazione geopolitica nel sistema capitalistico globale?
JL: Quando si analizza complessivamente il fenomeno delle Biennali credo sia importante anche esaminare i singoli eventi come episodi individuali. A Tirana, per esempio, la Biennale è iniziata dall'organizzazione di un team di curatori, artisti e amici e perciò non è un'iniziativa politica. E' venuta fuori da un interesse genuino nell'arte e dalla convinzione che l'arte abbia un ruolo importante nella percezione critica e nel discorso intorno alla società, i suoi cambiamenti, il mondo in divenire. Questa specifica condizione della Biennale di Tirana è stata importante per articolare l'evento espositivo e in qualche modo l'ha salvaguardata dall'essere ridotta a un mero spettacolo di marketing della città e del Paese.
Quindi la Biennale di Tirana si è costituita, in modo positivo, non come un'iniziativa politica, ma artistica e personale. Tuttavia partecipa a una scena internazionale, espone artisti internazionali, e li giudica ed è a sua volta giudicata da standard internazionalmente condivisi su cosa è interessante in quanto arte o meno. In questo modo è possibile naturalmente dire di essere parte di un omogeneizzante movimento di un ampliamento globale dello scenario contemporaneo. E' molto difficile, se non impossibile, separare questo allargamento apparentemente positivo del mondo internazionale dell'arte, che permette una maggiore condivisione di riflessioni, idee, domande, ecc., e gli aspetti dell'omologazione dello stesso movimento.
EV: T.I.C.A.B si è strutturata in diversi episodi che corrispondono al numero dei curatori invitati. Può il format espositivo essere ancora uno spazio di produzione culturale? Perché questa scelta?
JL: Forse il motivo più importante di questa struttura è che permette al pubblico locale di vedere e digerire una piccola parte della Biennale alla volta. Incoraggia così un incontro più concentrato con le opere d'arte e un maggiore impegno. Questa struttura mantiene vivo il contatto, sia col pubblico che con i media, durante un periodo di tempo più ampio e rende possibili dibattiti e discussioni che prendono forma a partire dal contesto espositivo.
Forse è importante ricordare che, anche se riceviamo un caloroso benvenuto dal pubblico internazionale, il nostro target principale e di riferimento è l'opinione pubblica albanese. Le tematiche dell'edizione di quest'anno sono rilevanti a livello globale ma sono anche risposte specifiche alla società albanese e alla necessità di riflettere sulle nostre drastiche trasformazioni socio-politiche.
EV: TICA è uno spazio indipendente, un'istituzione flessibile, attiva da qualche anno, per la ricerca, la produzione e la diffusione dell'arte contemporanea nella scena locale e internazionale. Gestito da un team di curatori e artisti, con un'attività interdisciplinare, un programma espositivo e di residenze internazionale, TICA è una continuazione della Biennale? Quale tipo di relazioni intrattiene?
SR: Il TICA è nato nel 2006 dopo la terza edizione della Biennale di Tirana e alla fine del progetto 1.60insurgent space che per 2 anni ha provveduto alla mancanza di continuità nell'offerta di eventi artistici nel territorio albanese, e più specificamente nella città di Tirana. Il TICA è nato appunto, con l'intento di garantire continuità e varietà alla proposta artistica e culturale nel panorama albanese. Due dei sei co-direttori del TICA sono anche i due direttori artistici del TICAB (Tirana International Contemporary Art Biannual), Edi Muka e Joa Ljungberg, ma il TICA è un'entità separata dalla biennale; naturalmente c'è scambio e condivisione, però le scelte curatoriali e decisionali del TICAB sono esclusivamente a carico di Edi Muka e Joa Ljungberg.
JL: Avviato come una piattaforma permanente per l'arte, con l'ambizione di evitare che durante il lasso di tempo tra le Biennali, la scena locale fosse completamente disattivata, TICA ha permesso piccole ma significative presentazioni di lavori di artisti e ha giocato un importante ruolo nella promozione di giovani artisti dando loro la possibilità di esporre le proprie opere nonchè di viaggiare all'estero attraverso programmi di residenza.
EM: TICA è nato dalla necessità di creare la continuità mancante. Persino la Biennale stessa, semplicemente a causa del fatto che avviene ogni due anni (e se riusciamo a farla) sebbene offra grandi opportunità, non aiuta a colmare il vuoto nel periodo di mezzo. Ecco perché abbiamo deciso di creare TICA e chiudere il vecchio e fallimentare Istituto della Biennale nel tentativo di creare una struttura più piccola ma flessibile che possa fornire una piattaforma multipla con eventi, discussioni e residenze in grado di aiutare precisamente la continuità con la scena artistica locale. TICA finora ha funzionato abbastanza bene, ma adesso come molte altre iniziative simili si trova ad affrontare una grave mancanza di fondi, così noi dobbiamo ripensare ancora una volta nuove strategie e percorsi per continuare.
EV: "4 ways to" è stato uno degli eventi satellite della Biennale, come si è sviluppato il progetto?
SR: E' nato da un viaggio. 4 artisti italiani - Stefano Romano, Francesco Pedrini, Andrea Nacciarriti e Claudia Losi - sono partiti da casa loro, in Italia e hanno raggiunto Tirana. Il viaggio è stato individuale, nessuno conosceva gli spostamenti degli altri, ognuno ha avuto la possibilità di scegliere il percorso, i mezzi, i tempi di questo viaggio di cui si conosceva solo la data di arrivo a Tirana. Ci sono poche esperienze come quella del viaggio, attraversare un territorio, partendo da un punto – una realtà – per arrivare in un altro punto – un'altra realtà – dopo aver vissuto un momento di sospensione, un momento in cui siamo più ricettivi, fragili, melanconici, propositivi, entusiasti. Tanti e diversi sono gli stati d'animo che ci accompagnano durante un viaggio, di qualunque natura esso sia.
Tirana il punto d'arrivo, dove i 4 artisti si sono ritrovati per discutere di questa esperienza, ma soprattutto per realizzare un'opera e una mostra. "4 ways to" è nato come un progetto di riflessione sul processo di creazione stessa di un'opera, e cioè sulla necessità di un'esperienza diretta, fisica per così dire e non soltanto concettuale di un'esperienza. La scelta dell'esperienza del viaggio è stata per lo più dettata dalla coincidenza della Biennale di Tirana. Ma avrebbe potuto essere (e probabilmente sarà in altre occasioni) un altro tipo di esperienza. Altra riflessione aperta da "4 ways to" è la necessaria formalizzazione che dovrebbe allontanarsi quanto più possibile dalla documentazione da cui il mondo dell'arte è invaso in questo momento.
EV: Oltre alla natura erratica, nomadica, il viaggio e la dimensione del viaggio sono un fattore esperienziale e processuale nella tua pratica artistica, spesso la condizione necessaria per la costruzione dell'opera in generale.
SR: E infatti l'idea mi è venuta appunto… viaggiando, nel viaggio che ho effettuato dall'Albania all'Italia per andare e ripartire verso Tirana. Il lavoro, una riflessione sul concetto di casa ed intitolato "movements.6 – my home so far from home". Casa come luogo per ripararsi dagli agenti atmosferici, luogo di condivisione di spazi e situazioni, ma soprattutto luogo dove dormire. Nella nostra società ormai si viaggia molto e una casa, intesa come luogo di condivisione e di accoglienza, viene spesso sostituita da locali pubblici, centri commerciali, uffici, computer portatili. Lo spazio di condivisione reale viene sostituito sempre più da uno spazio di condivisione virtuale, i files preparati durante le attese negli aeroporti di tutto il mondo vengono scambiati attraverso la rete, accompagnati da cordiali battute tramite le chat room. Dunque quando possiamo dire di essere a "casa"? Forse questo momento così unico è rappresentato davvero soltanto dal luogo in cui dormiamo, in quel momento così magico, in cui siamo vulnerabili e lasciamo che il nostro inconscio abbia la meglio sulla ragione e che immagini a cui non avremmo dato spazio durante il giorno si facciano strada nella nostra mente liberandoci da noi stessi. Il lavoro si compone di una serie di disegni delle piante, a memoria, di tutti i luoghi in cui ho dormito durante il viaggio da casa mia a Tirana per il progetto "4 ways to", evidenziando come unico elemento di architettura d'interni solo il letto.
Informazioni sulla IV Biennale di Tirana:
T.I.C.A.B Tirana International Contemporary Art Biennial
4th Edition: The Symbolic efficiency of the frame
Yuri Ancarani - Pink Flag
Kinema Agimi, Tirana. Evento collaterale della IV Biennale di Tirana
4 ways to
Zenit Gallery, Tirana. Evento satellite della IV Biennale di Tirana
Informazioni su TICA
Elvira Vannini è storica dell'arte, critica e curatrice indipendente. Diplomata alla Scuola di Specializzazione in Storia dell'Arte Contemporanea, attualmente svolge un Dottorato di Ricerca in Storia dell'Arte presso l'Università degli studi Bologna. Svolge attività critica e curatoriale indipendente. Collabora con testate specializzate, si occupa di recensioni, articoli e interviste, con particolare attenzione alle ultime generazioni di artisti italiani e internazionali. Ha curato mostre personali e collettive in gallerie, spazi pubblici e situazioni no-profit, eventi performativi e articolazioni audiovideo. Riflette sulle relazioni tra pratiche artistiche, strategie di occupazione dello spazio pubblico e sistemi espositivi, alla luce delle trasformazioni sociali e urbane in una prospettiva geopolitica.