Aperture (2002 - 2004) Anno 7 Numero 13 2002
Se il nostro io e' per noi l'unico essere, in conformita' del quale modelliamo e comprendiamo tutto l'essere: molto bene! Allora e' molto opportuno il dubbio che qui ci sia soltanto un'illusione di prospettiva - l'unita' apparente nella quale tutto si chiude come in un orizzonte.
Nietzsche, Wille zur Macht, 518
Il nome delle cose importanti
C'è qualcosa che accomuna gli scienziati ai politici, o meglio le loro reciproche ambizioni: è la sete di gloria. Non facile da gestire, perché la gloria e la fama coronano solo pochi capaci d'imprimere un senso nuovo al loro presente, ognuno cerca di cavarsela come può per accaparrarsi un pezzettino di notorietà. La gloria viene riconosciuta o presunta sulla base della fama, della notorietà, che in un'epoca sempre più determinata da mezzi di comunicazione di massa come la televisione significa essere nominati o apparire pubblicamente. Questo perché la notorietà viene implicitamente identificata con una delle forme dell'immortalità. La vanità personale, il narcisismo primario, l'egoismo secondario e terziario che spinge a far parlare di sé e restare il più possibile al centro dell'attenzione, sono forze irresistibili che impongono la ferrea e spietata legge dell'egocentrismo. Ferrea e spietata, perché l'apparire, che sovrasta ormai completamente l'essere, è sempre inevitabilmente di breve durata, e fa giustizia della vanità dei potenti.
Fra i politici, in particolare fra i parlamentari, questa vanità si rivela in quell'attività che rappresenta il compito specifico che spetta al Parlamento, che è quello di legiferare. Ogni legge promulgata, o quasi, è legata al nome di chi la propone. Questo spinge il parlamentare, soprattutto il neofita o quello che sa di restare per una o al massimo due legislature, a inventarsi una legge, una leggina purchessia, e a proporla e a insistere perché venga approvata: è l'unica occasione, lo sa bene, perché il suo nome venga legato indissolubilmente alla legge e resti per sempre (o quasi) nella memoria parlamentare del Paese. Di qui, naturalmente, un fiorire di leggi incredibilmente varie e straordinariamente inutili, la cui origine e motivazione sta esclusivamente nel vanitoso egocentrismo del suo autore. Di qui, anche, tutte quelle leggi di comodo, opportunistiche, solo circostanziali o emblemi di piaggeria che arricchiscono costantemente la nostra giurisprudenza.
Per questo talvolta i giornali riportano la notizia, altrimenti incomprensibile, di parlamentari che si accapigliano fra loro per la paternità di questa o quella leggina, e le sfuriate del deputato X quando scopre che il suo gruppo o un gruppo alleato ha modificato il testo cui voleva legare il suo nome ma di cui ha così perso la paternità.
Più raramente, ma non meno appassionatamente, questo accade anche fra gli illustri rappresentanti della scienza occidentale. Perché molte leggi, teorie o teoremi scientifici vengono identificati col nome del loro ideatore. Tutti conoscono il teorema di Pitagora, le leggi di Mendel o il piano cartesiano; ma se si studia in modo più approfondito la fisica, la chimica, la matematica o la biologia ci si ritrova sommersi di nomi propri legati a leggi, teoremi, forze, formule, reazioni chimiche, elementi, comete, cellule, organi, ecc. E se un tempo questo fenomeno era solo l'omaggio dei posteri nei confronti di un grande maestro, oggi è una corsa frenetica per il prestigio personale, ossessionata e incrementata da quell'idiota meccanismo economico che lega il finanziamento e il prestigio di uno studioso alla quantità di volte in cui il suo studio viene citato da altri (inventato dagli americani in nome della "produttività").
Questo fenomeno non bisogna pensare sia di recente tradizione, frutto di una modernità tecnologicamente narcisistica e autocelebrativa. Le sue origini sono invece antiche come la storia, e basta pensare alle vie consolari che diramano da Roma per rendersi conto di quanto sia stato importante legare il proprio nome a qualcosa d'imperituro. Basta pensare anche alle dispute sulla paternità delle scoperte e delle invenzioni, come quella celebre fra Newton e Leibniz sull'invenzione del calcolo infinitesimale.
Nei casi poi in cui siamo noi posteri ad attribuire il nome alla cosa, manifestiamo come una sorta di paura primaria, quasi che ci fosse difficile pensare le cose nel loro anonimato e separate da noi. Ecco fiorire quindi palazzi storici chiamati col nome del loro proprietario, monumenti chiamati col nome di chi dovevano celebrare, sculture col nome di chi le ha possedute. Centriamo la cosa sul suo nome proprio, perché così ci è più facile identificarla. Ed è sempre lo stesso problema dell'identificazione che spinge l'ambizione del matematico a trovare un teorema che possa portare il suo nome (il che però succede di rado) o il politico la sua legge (il che succede quasi sempre).
Come interpretare questo teatrino delle vanità, questo desiderio di attribuire il proprio nome a una cosa duratura nel tempo e pubblica? Non è certamente riducibile soltanto alla sete di potere e agli interessi economici che ne derivano - aspetti della questione certamente fondamentali - perché l'ansia vanitosa dell'apparire rivela anche una specifica filosofia, una concezione del mondo e dell'io su cui vale la pena di soffermarsi.
Fin dagli inizi, la psicanalisi (ma non solo lei) ha capito quanto l'individualità dell'io si costituisca come una dolorosa separazione dall'ambiente circostante, dagli oggetti e soprattutto dal corpo della madre. Si è scritto che l'esperienza primaria traumatica della nascita (l'uscita e la separazione dall'unità "oceanica" nel mare amniotico con la madre) come perdita dell'unione col tutto sia alla base dei miti storico-religiosi della caduta, della perdita della grazia, della fine dell'età dell'oro, eccetera. "La nascita ha messo fine all'esperienza di autosifficienza narcisistica e all'unione con il mondo, anche se molti genitori cercano per un po' di tempo di ricreare in parte la sicurezza e l'appagamento dell'utero..."1, per cui il neonato fa a poco a poco l'esperienza di essere dipendente da cose esterne per i suoi bisogni primari. E questa esperienza è assai più drammatica che per gli animali, visto che fra tutti l'essere umano è quello che più a lungo resta del tutto dipendente e impotente dopo la sua venuta al mondo.
Il piccolo umano deve imparare a sue spese che l'onnipotenza primaria non vale più, e che le cose sono separate da lui: molti studiosi del narcisismo dopo Freud, da B. Grunberger a Ch. Lasch, hanno sottolineato l'importanza che l'esperienza della separzione dalle cose riveste per la formazione dell'equilibrio psichico. Il narcisismo anzi consiste in quella specie d'irresistibile istinto che spinge a una ritrovata comunione con le cose in cui l'io non sia più separato da esse, ma parte integrante di un'unità onnipotente che nella realtà non esiste più. A differenza dell'egoismo, che accentra su se stessi il mondo intero, il narcisismo è più radicale e primario in quanto è dettato da quel senso (poi fantasia) di onnipotenza in cui l'io come entità separata non aveva neppure ragione di esistere nella beatitudine indifferenziata interna all'utero2. Per questo occorre cautela nel definire la nostra epoca come un'epoca narcisistica: malgrado l'apparire e il trionfo delle immagini, il nostro opulento occidente sembra essere decisamente più egoista ed egocentrico
Senza volermi ora addentrare in questioni più specifiche sul narcisismo, quello che mi sembra importante è questa difficoltà primaria di ammettere non solo la propria inadeguatezza (rispetto al senso di onnipotenza), ma anche la nostra separazione da cose e persone e la nostra dipendenza da esse. Accennerò in seguito al significato e all'importanza che ha invece la "relazione" con l'alterità per la definizione di un "io", ammesso che si possa mantenere questa terminologia. Per ora, il problema di Narciso, che è quello di non potere/sapere/volere distinguere sé e l'ambiente (sé e il riflesso, io e non-io) potrebbe rivelarsi anche dietro l'aspirazione invincivile e sempre più tronfia di attribuire il proprio nome alle cose. In questo modo le cose, le cose "importanti", si identificano col proprio sé, perdono le loro caratteristiche distintive per diventare immediatamente il nome che le nomina. Ogni forma di anonimato diventa terribile, e le cose stesse, quelle "importanti" naturalmente, sembrano quasi perdere di valore se sprovviste di un nome di riferimento.
Al contrario di quanto pensa Lasch3, in molti casi il desiderio di attribuire il proprio nome a una scoperta, a una legge, a un'opera d'arte, ecc. implica che non si accetta di esserne separati, che se ne vuole essere l'unico e principale protagonista, che si vuol essere riconosciuti sulla base di quella cosa perché la cosa e l'io che gli fornisce il nome diventano un'unica istanza. Istanza unitaria e centralizzata rispetto alla cosa, che serve per sottolineare la propria eccezionalità, la propria unicità (in tal senso tutt'altro che narcisistica, ma più che altro egoistica): il fatto che un io, possibilmente un solo ed unico io, ne sia l'artefice e il proprietario. Questa era la ragione profonda del litigio fra Newton e Leibniz: io, e non tu. Ecco l'essenziale.
Si tratta ora di capire (sommariamente) in che modo si articola quest'imposizione dell'io come centro del mondo delle cose, a quali forze obbedisce il suo vanitoso ma vano teatrino, e cosa tende principalmente ad escludere. Non è infatti vergognoso attribuire un nome proprio a qualcosa, che anzi potrebbe essere un segno per cui le cose (soprattutto nelle scienze) non sono necessariamente separate e anonime, neutrali e del tutto indipendenti da qualsivoglia forma di soggettività4. Ciò che è vergognoso è ciò che si pretende imponendo il proprio nome alle cose, l'egocentrismo che si mette in scena e che pretende che l'io cui rimanda sia un nucleo solido e stabile, ben centrato su se stesso, che decide intenzionalmente cosa fare e non fare. Vergognosa, perché ridicola e risibile, è l'esclusività egocentrata della cosa nominata, la vanesia pretesa di essere identici a sé perché identificabili con la cosa che si ritiene di aver prodotto, fatto, creato, scoperto, posseduto, eccetera.
La recente autoesposizione ipertrofica di sé nella vita politica, esaltata dai mezzi di comunicazione di massa, fa parte dello stesso teatrino delle vanità. Si cerca di emergere, si spera affannosamente di farsi notare, si pensa d'imporsi come modello e s'insegue affannosamente il "potere" ponendosi al cenro dell'attenzione mediatica: più si è esclusivi, più si pensa di poter contare. Si inganna, e ci si inganna, in nome di un'identità, di un "io", che si pretende al centro della scena. A condizione di non chiedersi mai cosa questo "io".
Io fragile, io consumato, io relazione...
"Io, come soggetto, non coincido mai con me stesso", ha scritto M. Bachtin5 riprendendo una tradizione letteraria che nella prima metà del '900 ha caratterizzato buona parte delle opere pubblicate. Chissà cosa ne avrebbe pensato il buon Socrate, che dell'iscrizione sul tempio di Apollo "Conosci te stesso" aveva fatto uno dei capisaldi del suo insegnamento filosofico. Viene in mente allora il povero Pitagora, che per i più coincide con il suo teorema famoso, quasi che lui fosse il teorema e non una persona in tutta la sua complessità. I più colti forse lo chiamano matematico, magari unendovi l'attribuzione di "grande" quasi a consolarlo del resto che viene eliminato, oppure lo definiscono "filosofo", come nei manuali per il liceo o l'univeristà. Occorrerebbe invece chiedersi se l'io di Pitagora coincidesse all'epoca sua col suo teorema, o la sua filosofia dei numeri o della musica, in un'esistenza in cui certamente non era solo un grande maestro, ma un umano come tutti (anzi, oggi è per noi più facile far coincidere Pitagora con quello che ci resta di lui, proprio perché si tratta di resti, di residui: la storia tramanda infatti solo residui di "io", e fa coincidere le persone con qualche loro resto; ecco perché a nuovi punti di vista e nuove conseguenti ricerche su un certo personaggio, Heidegger per esempio, vengono a galla aspetti della persona prima sconosciuti, che possono addirittura stravolgere o mettere in discussione ciò cui prima quel nome era legato, come appunto nel caso di Heidegger, la profondità del suo pensiero filosofico e la sua adesione al nazismo).
Milan Kundera si è chiesto in cosa consista l'identità di qualcuno, il suo io: "cos'è che definisce un io? Quello che fa, le sue azioni? Ma l'azione sfugge al suo autore, rivoltandosi quasi sempre contro di lui."6 E continua spiegando come neppure le emozioni segrete, i pensieri profondi o la visione del mondo bastino a fondare l'identità di un individuo. "Alla ricerca di tale fondamento - una ricerca interminabile - Thomas Mann ha dato un contributo assai importante: noi crediamo di agire, egli afferma, crediamo di pensare, ma è un altro o sono altri ad agire e a pensare in noi: abitudini ancestrali, archetipi tramandati sotto forma di miti da una generazione all'altra; e sono questi archetipi, dotati di un'immensa forza di attrazione, che dal fondo di quello che Mann definisce "il pozzo del passato" continuano a governarci"7. Ma forse è proprio per questo che ognuno di noi cerca di emergere da questo pozzo, di tirar fuori la testa e gridare "io" almeno una volta, facendo così cadere un'altra goccia ad alimentare il pozzo stesso. Ed è questo che la storia trattiene, qualche volta, secondo le situazioni in cui si trova ad essere scritta o narrata, mentre il resto rimane accumulato informe nel pozzo. In questo modo però l'io di una persona non ha più quella solida compostezza sulla quale si spera sempre di poter contare, ma è solo un'emergenza, un singhiozzo, una piccola alterazione provocata da una serie di circostanze esterne ed interne che non si possono mai definire una volta per tutte. E che proprio per questo, molto spesso, non si verificano neppure, o si verificano su scale talmente differenziate che è difficile poi ritrovare, articolando "la storia" in un'infinità di storie, ognuna con le sue emergenze, ognuna che sfuma nelle altre senza ridurvicisi, dalla storia familiare a quella personale, dalla storia di paese a quella cittadina, nazionale, mondiale oppure da quella psichica a quella economica, sociale, politica, e così via.
Pirandello lo ha descritto in Uno, nessuno, centomila e Mann, citato da Kundera, lo ripete così: "E' proprio vero che l'"io" dell'uomo è rigidamente circoscritto ed ermeticamente racchiuso entro i suoi limiti carnali ed effimeri? Non è vero al contrario che molti degli elementi di cui è composto appartengono all'universo esterno e anteriore ad esso?". Ma noi - occidentali - apparteniamo a un sistema culturale, economico e politico in cui l'eroe non occupa solo un posto mitico, ma s'impone anche come un essere pratico e concreto, valorizzato come individuo agente ed egoisticamente al centro del suo mondo, o del mondo che comunque è tenuto a costruire e imbastire intorno a sé.
Anzi, nei tempi moderni della cultura e del consumo di massa dove la "privacy" è addirittura tutelata dalla legge, l'identità privata sembra essere sempre di più il pilastro schizofrenico della società: per un verso, è ciò che costituisce il fondamento del sistema economico-sociale (l'iniziativa individuale è sempre incoraggiata), per un altro verso però è fragilizzata e il più delle volte negata dalla massificazione dei consumi.
Per un verso assistiamo all'apparentemente imprescindibile necessità di identificare l'autore delle azioni, per cui accade spesso che quando si va in libreria si guardano i nomi degli autori più che i titoli dei libri oppure al museo si controlla prima il nome dell'artista e poi si dà un giudizio estetico sull'opera (oggi per esempio si fanno campagne pubblicitarie indirizzate sempre più ad personam). Per un altro verso assistiamo al fenomeno della moda, che è un esempio eccellente della massificazione perché nega, nei fatti, la libera espressione individuale al di fuori dei canoni stabiliti, canoni che sono beninteso articolati sulla base di precise strategie economico-commerciali (secondo la produzione-consumo di massa). Per cui in libreria ci orientiamo su quegli autori che sono di moda, su quegli autori che sono "condivisi", combinando in un modo assai complesso l'individualità privata dell'autore che firma il best-seller e il fatto che lo prendiamo in considerazione solo perché "di moda". Il che vuol dire due cose: senza l'autore che lo scrive e lo firma, il best-seller non esiste; ma senza il successo editoriale garantitogli da un buon sistema pubblicitario che lo fa diventare un fenomeno di massa, lo scritto dell'autore non diventerà mai un best seller.
In occidente - ma in modo sempre più diffuso anche in altre aree culturali del pianeta che vengono "colonizzate" dal sistema della produzione-consumo di massa - l'io individuale si è enormemente fragilizzato. Stretto in questa morsa per cui ha dignità solo se emerge (come individuo privato, dotato di capacità d'iniziativa personale), ma emerge ed esiste solo se corrisponde ai bisogni condivisi del suo tempo, quindi se si identifica nella massa, l'individuo non ha più punti solidi di riferimento. Le sue possibilità si riducono il più delle volte a due: o "si fa un nome", ossia lascia dietro di sé il nome proprio che lo identifica, legandolo a un atto, a un'opera, a un teorema o a una legge, oppure resta nell'anonimato indistinto, e quindi scompare come individuo identificandosi con la massa.
Ma queste due possibilità - che per fortuna non sono le uniche, perché ancora infinite sono le strategie per sottrarsi a questa morsa, anche se sempre più difficili da realizzare - non sono che la manifestazione dello stesso fenomeno: il valore di personalità individuale è garantito a chi vi rinuncia in nome della corrispondenza a una produzione-consumo di massa. Ma il nome emergente è così destinato ad essere consumato nell'effimera gloria di un attimo, il tempo di apparire in televisione e di essere menzionato su qualche pagina di giornale. H. Marcuse, nel suo L'uomo a una dimensione, ne ha tracciato il profilo in un modo che resta ancora oggi decisamente valido. Nel teatrino delle vanità che sono i mezzi di comunicazione di massa, l'essenziale è che appaia il proprio nome, una propria immagine, purché sia e si possa dire, mostrandola, "io sono questo", "di me si parla qui".
Chi non sogna di essere insignito del premio Nobel, o di un suo equivalente più o meno simbolico, più o meno noto? E' il sogno della celebrità, che si pensa realizzi la propria personalità (e invece spesso la blocca e la uccide): si ritiene sempre più che il proprio io sia eccezionale e insostituibile, che la propria dimensione privata sia e debba restare intangibile e vada protetta, che l'individuo sia infrangibile e indiscutibile, centro d'irradiazione del proprio mondo. Ma la sua esaltazione mediatica fa sì che si pensi che valga la pena di essere se stessi solo se si può emergere in qualche modo, se qualcuno lo nota o lo si può far notare a qualcuno. In realtà in questo modo si rivela soltanto la propria fragilità, quell'io "minimo" che Ch. Lasch giustificava come ultimo baluardo di difesa contro un mondo sempre più massificato e sempre più simile a quello descritto da Orwell in 1984. E le cose poi non sono così lontane da quel quadro allucinante.
Il linguaggio pubblicitario è sempre più personalizzato, e tende a dirigersi in via selettiva ai singoli più che alle masse. La legge sulla privacy è nata da questa trasformazione dei meccanismi pubblicitari e dalla diffusione e accessibilità dei dati personali: siamo sempre più "esposti" e pubblici, ma lo siamo in quanto individui. I nostri "segreti" hanno sempre meno possibilità di essere tenuti nascosi, e la cosa più terribile è che anche le nostre passioni e i nostri desideri possono essere accessibili a tutti, soprattutto al sistema produttivo e di marketing. Spesso la spudoratezza, l'autoesposizione e la nudità vengono assunti comevalori contro i disvalori come la vergogna, la riservatezza o la timidezza (la difesa e la segretezza delproprio privato). La pubblicità personalizzata si basa su un'idea ben precisa di personalità individuale: datemi i vostri desideri, i vostri interessi, le vostre debolezze, il vostro sesso, la vostra età, le vostre dimensioni corporee, il vostro grado d'istruzione e molte altre cose, ed io vi darò ciò che volete, bloccandovi allo stato presente, blandendo i vostri piaceri e saziando i vostri appetiti in modo tale che si sviluppino nella direzione che sarà necessaria al mercato.
Questo implica una concezione statica e uniforme dell'individuo, il cui io dovrebbe coincidere con una media statistica, capace di evolversi in un modo facilmente prevedibile. Implica soprattutto una debolezza fondamentale della propria personaità, ormai priva di segreti, da riempire con i prodotti alla moda e gli ultimi modelli degli apparecchi, sempre migliori e adeguati a soddisfare quegli standard operativi che prima ci si era curati di creare come aspettative. Salvo poi, in certi momento particolari della propria vita, a rendersi conto che tutto ciò che si riteneva indispensabile a se stessi, per il proprio equilibrio e la propria felicità, per la realizzazione di sé ed il riconoscimento altrui, non è servito a nulla. Sono i momenti in cui si crolla, da dentro, e ci si rende conto della "propria" vuotezza, dell'artificialità del proprio io costruito di prodotti indotti, di apparenze, di beni di consumo consumati, in cui non resta più niente cui aggrapparsi e riconoscere come "proprio" (neppure il vuoto lasciato dal crollo). Sono anche i momenti in cui crolla il mondo circostante, fisicamente e moralmente, come quando muore qualcuno o si è coinvolti da una catastrofe naturale e si perde tutto, quasi persino la vita. Sono i momenti in cui appunto ogni vanità scompare e il teatrino viene giù come un castello di carte.
Ma la vita è piena anche di altri momenti assai meno drammatici in cui la vanità del proprio io si rivela vana: sono le fasi della crescita e del cambiamento, sono gli anni che passano, gli ambienti che cambiano, i bisogni che mutano. Un cinquantenne professionalmente realizzato come ce ne sono tanti in giro guarda con accondiscendenza le proprie foto di trent'anni prima, quando se ne andava in giro vestito come uno straccione, i capelli lunghi e la sigaretta in bocca a imitare quelli come lui: confessa, fra sé, "io non sono più così" e mostrando la foto ai figli dice ad alta voce: "guardate un po' com'ero!". Si sente cambiato. E' cambiato. Oggi non si concerebbe più così. Quanto era ridicolo! pensa. Non si rende conto che è conciato nello stesso modo, solo che le manifestazioni apparenti sono altre, e al posto dei capelli lunghi ha i capelli corti magari con un po' di brillantina, il vestito con la cravatta, il telefonino e il computer palmare in tasca. Il suo teatrino delle vanità ha cambiato solo allestimento, ma le scene e l'intreccio sono rimasti uguali.
Ciò che è rimasta uguale è soprattutto la sua immagine di sé, composta dall'immagine che il mondo esterno ha preparato per lui e dalla consapevole/inconsapevole accettazione e adeguazione a questa immagine. Perché il più delle volte il meccanismo di adattamento ai fenomeni di moda - che sono meccanismi di inserimento e integrazione in contesti sociali vincolati dal fattore temporale8 - non è solo passivo, ma attivo e partecipato. Questa attività e questa partecipazione però si mantengono a un livello che resta intermedio, come quello di un gocatore che segue le regole del gioco, non come quello di chi inventa il gioco e ne stabilisce le regole. In tale situazione, vi è chi decide positivamente di adeguarsi alle regole del gioco, adattando il proprio io ai modelli proposti e sforzandosi di mantenerlo adattabile nel tempo; e vi è chi invece si adatta passivamente, inconsapevolmente ai modelli proposti, seguendo di volta in volta pedissequamente le informazioni (è su questa tipologia che la pubblicità conta di più). In entrambi i casi però c'è un'irriducibile identificazione di sé al modello proposto da un esterno cui non si può né si deve partecipare. Ma ci basta ed avanza, se questo esterno ci fa sentire al centro dell'attenzione e ci blandisce.
Per dirla al modo di Bateson, è più facile giocare un gioco già pronto che inventare un nuovo gioco. Il problema nasce quando non ci si accorge che le regole del gioco diventano sempre più vincolanti, e si finisce col diventare le pedine di un gioco altrui: il proprio io (meglio sarebbe parlare del proprio sé) si è allora dileguato, si è "alienato" e "vanificato" a beneficio di un gioco in cui non si gioca più, ma si è giocati. E quando la vanità egocentrata spinge a dire "io ho fatto...", "io sono diventato...", questo io dichiarato ed enunciato non appartiene al proprio sé, non gli appartiene più, ma è soltanto il misero prestito di un contesto nel quale si è presi e posti al centro, come una pedina nella sua casella, contenta e tronfia perché se ne sente al centro, e non si accorge che è solo una casella e che le mosse obbediscono ad altre regole.
Chi dice "io... io..." rivela più il suo essere pedina che il proprio sé: ragiona e pensa ancora in modo tolemaico, per così dire. Si fa prendere dalla vanità di mostrarsi e credersi al centro del proprio mondo, e cerca in tutti i modi di sottolineare questa sua centralità, rivelando così la realtà del suo io alienato, preso in prestito, affittato, fatto apposta per rinchiudervisi dentro come un assoluto. Ma è un io tragicamente fragile, come gli psicoterapeuti di ogni scuola sanno bene, perché è un io che non riconosce alcun sé, che non riconosce il contesto in cui è giocato e non può quindi partecipare al gioco (e meno che mai contribuire a stabilirne le regole, o pensare di modificarle): può essere solo giocato, salvo poi crollare miseramente quando viene spostato di casella, o eliminato perché non serve più.
Poi c'è l'ultima, tragica situazione in cui qualcosa dentro di sé reagisce, disperatamente o patologicamente, e "si sta male". Si tratta di un malessere in cui l'immagine di sé non corrisponde più a ciò che ci si aspettava, in cui l'immagine non coincide più con il vissuto, in cui diverse immagini non si corrispondono più fra loro, in cui "non ci si sente più a proprio agio con se stessi", in cui "non ci si riconosce più in ciò che si fa o si è fatto", eccetera. Ma questo star male è almeno un sintomo in cui si manifesta che non tutto è perduto, e che l'alienazione non è stata totale: il sistema tolemaico non regge e l'egocentrismo si rivela un'amara illusione. Occorre capire cosa si dice quando si dice "io...", perché forse la centralità perduta e rimpianta e sofferta era solo un inganno, una maschera, una sceneggiata.
Fra gli argomenti di cui tratta Mente e natura di Bateson, c'è anche quello sui confini dell'io: "Esiste - si chiede l'antropologo-filosofo - una linea o una specie di sacco così che si possa dire che 'dentro' la linea o l'interfaccia ci sono 'io' e 'fuori' c'è l'ambiente o qualche altra persona? Con quale diritto facciamo tali distinzioni?"9. Naturalmente, spiega, non si tratta innanzitutto di concepire tali limiti come spazio-temporali, perché 'dentro' e 'fuori' non sono che metafore visto che la mente "non contiene cose o maiali o persone [...] ma solo idee (cioè notizie di differenze), informazioni su 'cose', tra virgolette, sempre tra virgolette"10. Se questi limiti esistono, non possono quindi essere di tipo spaziale. Sono, scrive Bateson, fondamentalmente "relazionali", e in quanto tali soggetti a un costante gioco di cambiamenti e stabilizzazione in cui l'io non occupa più nessun centro. Occorre pensare sempre alle due parti della relazione, quelle appunto che siamo abituati a chiamare interno e esterno, io e mondo, soggetto e oggetto, io e l'altro, perché "la relazione non è interna alla singola persona" e "viene prima, precede" le persone stesse. I modi che abbiamo abitualmente di definire l'io, il soggetto, sono del tutto inadeguati proprio perché ancora "tolemaici", egocentrici ed egocentrati. Quando descriviamo qualcuno come aggressivo, orgoglioso, dipendente, affettuoso, eccetera, riteniamo implicitamente che queste cose siano "dentro" la persona, e che ne caratterizzino il comportamento esteriore. Bateson spiega invece come queste cose abbiano le loro radici "in ciò che accade fra una persona e l'altra", nella relazione appunto, e che è proprio tale relazione a modificare le persone (quindi a modificare i confini del sé). L'io, da questo punto di vista, non è più quindi un'interiorità, ma un modo della relazione. Per questo non può più proporsi come un centro, né come un'unicità.
Non si può spiegare un'aggressione, per esempio, facendo riferimento all'aggressività supposta istintiva in una persona (e oggi alimentata dalla cieca ricerca di geni che la determinerebbero bio-fisicamente), proprio perché l'aggressione stessa è un atto relazionale e ha senso solo come tale. Sostenere l'esistenza di qualcosa come l'aggressività interna, "che sposta l'attenzione dal campo interpersonale a una fittizia tendenza, o principio o istinto o che so io, interiore, è, ritengo, un'enorme sciocchezza, che serve solo a nascondere i problemi reali"11.
E i problemi reali si pongono in termini appunto di relazione. Questo vuol dire che occorrerebbe cominciare a capire cosa succede tra gli elementi in gioco, perché è questo "tra" a delinearne di volta in volta i confini. La distinzione fra esterno ed interno subisce così un cambiamento di prospettiva, per cui l'interiorità è stabilita dalla relazione stessa, e l'esteriorità è quella di ciò che non fa parte della relazione. L'io, o il sé, non vanno più concepiti come un nocciolo duro e invariabile che permane nel tempo, ma come un sistema di relazioni. All'io unico si sostituisce l'io relazionale, l'io dell'interscambio per il quale la nozione spaziale di centralità non ha più senso.
Nella prospettiva di Bateson quindi il teatrino delle vanità acquista tutto il suo significato, ma cambia radicalmente di senso: l'io perde la sua supposta ma fittizia centralità di attore unico, ma il gioco teatrale prende senso nella misura in cui scene, personaggi, luci, musiche, parole, imprevisti e tecniche entrano in relazione fra loro. Non è più il teatrino delle vanità, allora, ma il teatro della vita.
Io è un altro e un altro e un altro...
D. Parfit ha sostenuto una teoria di io multipli che si accumulano, si aggiungono e si sottraggono gli uni agli altri. Secondo lui l'io non è un continuum, ciò che di noi perdura nel tempo. Il corpo non dura nel tempo, per il semplice fatto che la maggior parte delle nostre cellule cambiano in continuazione. Neppure la memoria, che per Locke era ciò che caratterizzava in maniera forte l'identità personale, è durevole in senso assoluto. Parfit, coerentemente con quanto aveva scritto Th. Mann, ritiene le persone degli insiemi di esperienze caratterizzati da una certa continuità; ma tale continuità è circoscritta ad ambiti specifici. L'io non esiste come un'entità autonoma, come una cosa, ma è piuttosto un insieme come un gruppo, un partito politico, un club, una nazione. Quindi per comprendere cosa sia dobbiamo "suddividere la vita di una persona in quella di molteplici io" che siano però fra loro coerenti, in continuità successiva o coesistenti. Bateson, lo si è visto, avrebbe parlato di essere in relazione.
Nel caso del cinquantenne di prima, Parfit spiega che ci sono tanti io quante sono le fasi della propria vita, tutti connessi fra loro. Ci sono però delle situazioni in cui tali connessioni psichiche sono meno accentuate, e "una volta che tale attenuazione abbia avuto luogo, il mio io precendente può sembrare estraneo al mio io attuale e se questo non si identifica con quello, in qualche modo io penso quello come una persona diversa da me. Qualcosa di simile possiamo dire dei nostri io futuri"12. Il giovane capellone degli anni '70 non avrebbe forse mai identificato se stesso col professionista del 2000, mentre questi guarda con accondiscendenza il suo io precedente, riconoscendovisi a mala pena. Il più delle volte, anzi, cerca di non riconoscervisi affatto nei casi in cui il suo io attuale rischia di venire pubblicamente alla luce, e la sua vanità non ammette di essere oscurata dalle sue precedenti condizioni d'esistenza.
Un caso simile è accaduto qualche tempo fa a un Ministro degli Esteri tedesco, J. Fischer. Quando un quotidiano dell'opposizione di centro-destra ha cercato di delegittimarlo pubblicando una foto d'archivio che lo mostrava in procinto di bastonare dei poliziotti durante una manifestazione degli anni '70, tutti i giornali d'Europa hanno riportato la notizia e la foto affiancandola a quella del Fischer ministro, dando l'effetto di mettere a confronto effettivamente due persone diverse. Il cinquantenne in completo grigio ministeriale era la stessa persona del ventenne capellone e violento? Fischer ha dovuto giustificarsi e avrebbe molto volentieri distrutto quella foto e fatto dimenticare il suo io di allora. Ma Parfit spiega che la "persona" in questione può identificarsi come tale solo sulla base della somma numerica di tutti i suoi io, cosa che di fatto sostenevano il giornale e l'opposizione, che chiedeva a gran voce le dimissioni del ministro. Tuttavia, se nessuno può rinnegare i suoi io passati, deve comunque fare i conti son i suoi io successivi e futuri, vale a dire, in termini più banali, con i "cambiamenti". Come dire: Pitagora non era solo quello del teorema.
Un io che restasse identico a se stesso nel tempo sarebbe un io malato proprio perché la sua identità non potrebbe identificarsi con quella costellazione plurale che caratterizza in modo aperto gli individui. L'io quindi è paradossalmente un "soggetto collettivo"13, non un individuo isolato. Rimbaud aveva scritto: "Io è un altro", e nelle innumerevoli interpretazioni di questo enunciato è possibile considerare anche quella che dà tutto il suo peso all'articolo indeterminativo, che nella sua indeterminazione implica un'apertura a una collettività. Nella prospettiva che stiamo analizzando, però, va aggiunto qualcosa: io è un altro e un altro e un altro... E tutti questi io sono in relazione fra loro, sono in relazione con altre persone, sono in relazione con le cose del mondo, eccetera.
Parfit spiega che i legami esistenti fra i miei diversi io possono essere più o meno forti, e che quindi gli stadi dell'esistenza di una persona possono per questo essere sentiti come maggiormente propri rispetto ad altri. Questo accade praticamente negli stessi termini in cui abbiamo relazioni più o meno intense con altre persone. Da questo ne consegue la definizione dell'io come di un soggetto collettivo alla stregua di un club, di una nazione, di un partito. Una conseguenza di questa concezione è allora che non tutte le connessioni sono significative per definire la persona a un determinato stadio della sua esistenza, e che l'identità personale di qualcuno si definisce sulla base delle connessioni più forti in quel determinato momento (anche se tutte le altre connessioni non possono essere trascurate, per cui un ministro che da giovane sia stato un rivoluzionario non rassicura certo un'opposizione conservatrice, anche se non è legittimo ridurlo a quella sua specifica personalità passata).
S. Tagliagambe, commentando proprio questi aspetti della teoria di Parfit, accoglie l'idea del soggetto collettivo, ma considera come un valore aggiunto la coerenza delle connessioni, per cui una persona, nella sua complessità costitutiva, tanto più "vale" quanto più rende forti le sue connessioni14 (è quello che comunemente si chiama coerenza, o "onestà"). Nietzsche l'aveva capito più di un secolo fa, ormai, quando aveva criticato senza appello la mentalità del risentimento borghese, quella mentalità nichilistica che spinge a rimpiangere o a voler negare ciò che si è stati. La stessa mentalità che porta a prendere le distanze dal proprio io della giovinezza, o che spinge a rimpiangere i bei tempi andati in cui si era giovani e spensierati, belli e pieni di energia.
L'io come soggetto collettivo è uno stato delle connessioni sempre aperte in cui interno ed esterno restano in perenne rapporto, mantenendo costantemente una differenza irriducibile. Non può essere identificato con un'entità separata, con una sorta di nocciolo duro di se stessi, anima, spirito, mente, carattere o come altro lo si voglia definire. In realtà una definizione stessa dell'io è inappropriata, se è vero che l'io come costellazione mutante e aperta di io diversi interconnessi non è mai finito, mai completamente de-finito, delineato. Non è l'interno di un esterno, non è una cosa, non è mai chiaramente e definitivamente identificabile. Bateson ha cercato in tutti i suoi libri di mostrare come i limiti del soggetto "io" non siano determinabili, perché le delimitazioni appartengono esse stesse a un "io" inteso come un tessuto di relazioni. Se a questo aggiungiamo le conseguenze di teorie come quelle di Parfit, il risultato sarà il seguente:"L'io, da questo punto di vista, si presenta pertanto come un sistema fondamentalmente incompleto, e dunque 'aperto', una collezione indistinta di eventi dai contorni labili e porosi, che può venire di volta in volta e provvisoriamente percepita e assunta come un 'insieme conchiuso' di variabili soltanto in virtù di una specifica 'decisione' metodologica da parte del soggetto interessato, che può a tal fine operare sul complesso delle proprie esperienze selezionando quelle che, in una determinata fase della sua vita,considera le più incisive e pertinenti ai fini della migliore definizione della propria identità"15.
Ecco perché dire: "io sono questo e quello", "io sono quello che ha fatto questo", "io sono quello che è apparso in televisione, che ha dato il nome a tale legge, che ha vinto quel certo premio" è fondamentalmente ridicolo e talvolta persino fatale. Non è ridicolo nel senso che non faccia parte della propria identità, ma è ridicolo quando lo si erge a sfondo della propria vanità, selezionando ferocemente sulla costellazione che si è. Questa però s'impone nei momenti in cui "si fanno i conti con se stessi", e che talvolta sono talmente crudi e drammatici - sul piano della disillusione, quando ci si rende conto che quell'io è in realtà risibile, che ci si è solo presi in giro, e che l'immagine di sé non corrisponde a ciò che ci si "sente" di essere - che si è spinti al suicidio, pur di non riconoscere e accettare la costellazione complessa che si è. Suicidio che corrisponde a una vendetta di sé nei confronti di se stessi, quando il delirio di onnipotenza (egoistico e al tempo stesso narcisistico) dell'io parziale che ha selezionato tutto eliminando ogni cosa si ritrova solo, capisce che da solo non è neppure più un io, e vuole portare alla rovina anche tutto il resto delle connessioni, come ultimo disperato e fragilissimo gesto in cui quell'io cerca di tirar fuori la testa dal pozzo (del presente questa volta) eliminandosi. La depressione che coglie chi ha avuto il suo momento (o il suo periodo) di gloria, la lucidità che lo spinge a dire "ma è tutto un malinteso, quel premio io in realtà non lo meritavo, l'ho ricevuto solo per l'immagine che ho saputo dare di me, ecc." corrisponde al delirio di onnipotenza, ma sostituisce determinate connessioni ad altre, un io isolato o eccessivamente selettivo a un altro (quello tronfio del successo o quello depresso e sfiduciato): non capisce il regime di collettività e di complessità aperta che sempre si è, né tollera che si possa essere al tempo stesso sublimi e meschini, deboli e forti, interessanti e noiosi. Non capisce che si è tali solo perché in relazione, perché si è in gioco e si gioca al tempo stesso, e che dire "io..." è aprire un rapporto a-centrato.
Nel teatrino delle vanità la scena è calcata da un solo personaggio, ma quando lo spettacolo finisce o al personaggio scappa la pipì, quando saltano le luci o i tecnici di scena si sono assentati un momento, quando il truccatore è svogliato o l'audio non funziona, quando la sedia si rompe o qualcuno ride dietro le quinte, quando l'attore secondario non dice la sua battuta o non risponde allora ci si rende conto di quanto quel personaggio, in sé, isolato dal resto, sia ridicolo e risibile.
N.B. In questo scritto non ho voluto di proposito trattare espliticamente di una questione che sottende l'intera tematica: quella dell'affettività. Questo lo rende naturalmente parziale, ma la questione dell'affettività richiede approfondimenti e spazi ben maggiori di queste pagine.
1 Ch. Lasch, L'io minimo, tr. it. Feltrinelli, Milano, 1985, p. 115; cfr. anche di Lasch, La cultura del narcisismo, tr. it. Bompiani, Milano, 1981.
2 "Il suo disprezzo per le richieste delcorpo e per l'io che deve ascoltarle e nello stesso tempo tenerle a bada, distingue il narcisismo dall'egoismo comune o dall'istinto di sopravvivenza", Ch. Lasch, L'io minimo, cit. p. 127.
3 Ivi, pp. 113-114.
4 Mi permetto di rimandare al mio "L'io e la scienza", in AA.VV. La Ginestra
5 M. Bachtin, L'autore e l'eroe, tr. it. Einaudi, Torino, 1988, p. 98.
6 M. Kundera, I testamenti traditi, tr. it. Adelphi, Milano, p. 20.
7 Ivi, pp. 20-21.
8 Per cui il francesismo "demodé" indica qualcuno che si veste o si comporta secondo moduli passati nel tempo, non più attuali.
9 G. Bateson, Mente e natura, tr. it. Adelphi, Milano, 1984, p. 177.
10 Ivi, p. 178.
11 Ivi, p. 180.
12 D. Parfit, Ragioni e persone, tr. it. Saggiatore, Milano, 1989, pp.407.
13 Cfr. S. Tagliagambe, Epistemologia del confine, Saggiatore, Milano, 1997, pp. 179-189 e M. Di Francesco, L'io ei suoi sé, Cortina, Milano, 1998, pp. 192- 209.
14 S. Tagliagambe, op. cit., p. 184: "Una volta che si sia convenuto che anche l'"io" è un soggetto collettivo, non pare ragionevole asserire che i nodi che compongono la sua complicata rete debbono esserecollegati da archi di eguale peso e importanza. Appare anzi come un obiettivo [...] che va perseguito con il massimo impegno, quello di conferire il più alto grado possibile di omogeneità a questo insieme, facendo inmod che fra le sue parti si stabiliscano la massima estensione e il più elevato grado possibile di connessione e di continuità. Solo in questo modo quel particolare soggetto collettivoche è l'"io" potrà acquisire un buon livello di stabilità e un soddisfacente equilibrio".
15 Ivi, p. 184-185.