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Aperture (2002 - 2004) Anno 8 Numero 17 2004/2005



Tempi di viaggi

Enrico Castelli Gattinara



Punti di vista a tema
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Enrico Castelli Gattinara
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Goethe in Campagna dipinto da Tischbein

Il Vesuvio in un disegno di Gothe

Ludovico Ariosto

L’essere umano delle più remote origini è stato sempre un grande viaggiatore. Dal cuore dell’Africa si è spostato in ogni altra parte del mondo alla ricerca di terre migliori, o di minori minacce. E chissà, magari anche per curiosità e brama di sapere.
Avevano tempi, quegli esseri di allora; ma hanno compiuto viaggi lunghissimi che per noi oggi sarebbe inconcepibile affrontare senza mezzi di trasporto. Invece loro no. Loro non avevano mezzi, ma avevano il tempo. Anni, decenni, secoli o millenni. Magari anche decine di migliaia di anni. Un passo per volta. Una distanza colmata in un anno. Una breve distanza, diremmo noi oggi. Ma ogni anno la stessa. E decine di anni dopo, o centinaia, la distanza si è fatta lunga, lunghissima, incredibile. Un clan familiare, o un gruppo umano, potevano spostarsi di migliaia di chilometri. Ma ci mettevano il tempo che ci voleva. Non per spostarsi, ma per adattarsi. Perché un viaggio implica sempre un cambiamento. E quei nostri antenati viaggiatori lo sapevano bene.
Si preparavano. Si organizzavano per la partenza. E andavano. Ma non pianificavano. Non progettavano il viaggio, perché il più delle volte non sapevano dove andavano. O lo sapevano solo in modo molto limitato, per sentito dire, o per brevi tratte. Gli ominidi che siamo stati milioni di anni fa hanno fatto questo genere di viaggi. L’homo sapiens e quello sapiens sapiens, centinaia di migliaia di anni fa, si sono spostati. Con calma, ma l’hanno fatto.
Ma il loro viaggiare era frutto della necessità. Ogni viaggio comincia per una necessità. Per questo viaggiare è una necessità della specie umana.
Certo, anche gli animali viaggiano, e questo loro viaggiare noi lo chiamiamo “migrazione”. Migrare è un viaggiare dettato esclusivamente dalla necessità. Gli studiosi ci parlano delle “grandi migrazioni” dei popoli antichi o dei gruppi umani primitivi. Viaggi lunghissimi e interminabili che richiedevano tempi lunghissimi e interminabili: interminabili soprattutto per chi li intraprendeva, il quale spesso moriva strada facendo, lasciando la prole a proseguire. Chi terminava il viaggio migratorio spesso non era chi lo aveva intrapreso. E piano piano si adattava ai posti in cui si soffermava. Cambiava pigmentazione della pelle, statura, costituzione fisica.
Tempo, ci voleva soprattutto. Molto tempo. Perché le soste erano maggiori dei periodi di spostamento effettivo. E nelle soste ci si adattava. Nel senso che si cambiava. Di generazione in generazione. Il cambiamento era l’anima di questi viaggi delle origini.
Poi sono cambiati i tempi. C’è stata una rivoluzione, detta neolitica. E’ nata l’agricoltura, e molti gruppi umani si sono fermati dove stavano, se il posto era favorevole. Ma non tutti. Altri gruppi umani hanno continuato a vivere di caccia. Altri ancora hanno abbandonato la caccia, ma hanno mantenuto un rapporto privilegiato con gli animali: sono divenuti pastori e predoni. Ed hanno fatto del viaggio la loro esistenza: nomadi. Anche il nomadismo è stato sempre un viaggiare per necessità, ma diverso dalle migrazioni. E incomprensibile o inconcepibile da parte di chi restava fermo, costruiva un villaggio o una città, coltivava la terra. Il nomadismo istituiva fra l’altro anche un altro tempo: non più il tempo lungo o lunghissimo delle soste e degli spostamenti ancestrali, ma quello più veloce degli spostamenti stagionali o annuali.
Quando i gruppi umani sono diventati civiltà e si sono stanzializzati, quando sono cominciati i regni e le dominazioni, quando certi gruppi più agguerriti si sono spostati per occupare il posto di altri, e le lotte fra clan si sono trasformate in guerre, anche gli spostamenti sono cambiati. Popoli interi sono stati costretti a spostarsi per sfuggire alle guerre di conquista di altri popoli che si spostavano per spodestarli. E questi movimenti non sono finiti mai: per guerra, per fame, per povertà continuano ancora.
Oggi è difficile capire questi viaggi. Non li chiamiamo affatto così: li definiamo migrazioni, e chi li compie sono i migranti. Nomadi del tempo presente che hanno perduto tutto del nomadismo, tranne il coraggio. Il coraggio di cambiare. Che è poi quello di spostarsi.
Ma i migranti non sono sempre stati così. All’epoca della tratta dei neri verso le Americhe, migliaia di persone furono deportate e fatte viaggiare loro malgrado incontro a un destino tragico di morte o di schiavitù. La migrazione degli africani verso il nuovo continente, pur avendo inciso profondamente sullo sconvolgimento demografico dell’America, non fu né un atto di coraggio, né una crescita in termini di esperienza. Di questo occorre tener conto.
Ci sono viaggi che arricchiscono, viaggi che salvano, viaggi che aprono nuove speranze, viaggi che formano, viaggi che potenziano… ma ci sono anche viaggi che dannano, viaggi che sconfiggono e chiudono il destino di chi li fa, come i bambini, i vecchi o i deboli nei vagoni piombati che viaggiavano verso i campi di sterminio nazisti.
Noi occidentali siamo da sempre stati abituati a pensare al viaggio come a un momento di formazione. Si trattava e si tratta ancora per lo più di un viaggio individuale, o di piccoli gruppi: una gruppetto di amici, due amanti, una famiglia. Spinti dalla curiosità di sapere, quando non dalla necessità di scoprire o dalla brama di conquistare, i viaggiatori occidentali si sono mossi per il mondo già dai tempi dell’epico viaggio di Ulisse, e prima di lui il viaggio degli argonauti costituisce uno dei miti fondatori della nostra civiltà. A questi si è aggiunto il viaggio fantastico di Dante, dove religione e filosofia hanno spodestato definitivamente il mito, inaugurando in qualche modo l’era di quelli che in linguaggio moderno si possono chiamare i viaggi interiori.
Il viaggio per antonomasia è quello dal quale si torna cambiati. Ma è anche quello che cambia. Giasone torna cambiato dalla sua impresa, è insieme a Medea, possiede il vello d’oro. Ulisse non è da meno. Il viaggio è infatti un fattore di cambiamento per chi lo compie e per chi lo subisce, nel senso di chi subisce la visita del viaggiatore: chiedete a Menelao quali trasformazioni seguirono alla visita di Paride! Chiedete alla Colchide cosa rappresentò per i suoi abitanti quell’arrivo di un pugno di giovani su una nave chiamata Argo! Chiedete alle popolazioni indigene cosa portarono i viaggi di scoperta in America, in Africa, in Australia!
Anche di questo occorre tener conto.
Ogni viaggio implica un cambiamento: una trasformazione dello spazio in funzione di chi e di cosa si muove, e una trasformazione del tempo, perché ogni viaggio vi si inserisce come esperienza costitutiva e ne modifica l’assetto. E il tempo è sempre stato uno dei fattori principali di ogni viaggio. Il tempo del viaggio. Finché a un certo punto il modello industriale non ha scardinato proprio questo elemento, isolandolo dal resto e capovolgendolo nella metafora letteraria del viaggio nel tempo, e nella realtà della contrazione del tempo del viaggio.
Ancora nel XVIII e nella prima metà del XIX secolo il tempo del viaggio era una caratteristica che rendeva il viaggio tale, ossia una vera esperienza. Era il tempo a permettere il viaggio, perché la materialità del tempo stesso, i tempi reali degli spostamenti a piedi, a cavallo, in carrozza o in nave facevano sì che ad ogni tappa ci si riposasse, si prendesse tempo, e così facendo ci si guardasse intorno, si parlasse, si osservasse, si conoscesse. Un tempo “umano”, quasi animale, per adattarsi ed entrare meglio nelle cose e negli ambienti. Più lento il viaggio, più efficace il cambiamento.
Goethe, quando era già un uomo maturo e ben affermato, quando ricopriva già importanti cariche pubbliche ed era consigliere segreto del duca Carl August di Weimar, compì un viaggio in Italia la cui durata oggi sarebbe inconcepibile per chiunque: stette fuori per 21 mesi; e non gli bastò.
Il viaggio in Italia di Goethe fu un viaggio segreto che il poeta concepì per il suo proprio piacere e cura personale, e di cui poi si scusò per lettera con l’amante ignara o il duca che non ne era al corrente. Non si trattava di una missione segreta, ma di un bisogno impellente sebbene inconfessabile che il poeta aveva di vedere Roma e di curarsi l’anima. Partito il 3 settembre 1786, Goethe arriva nella città eterna il 29 ottobre. Sono quasi due mesi di viaggio vero e proprio, scandito da soste lunghe o brevi in altre città e paesi lungo il tragitto. E da scelte particolari, come per esempio quella di fermarsi a Firenze solo per tre ore (a Venezia per esempio si era fermato una settimana). E Goethe rivela che il viaggio sarebbe certamente durato assai di più se non fosse stato così spinto dal bisogno di vedere innanzitutto Roma!
Nella città passerà novembre, dicembre, gennaio e febbraio. Il 29 dicembre, vale a dire due mesi dopo il suo arrivo, Goethe scriveva all’amico J.G.Herder: “Per un po’ di tempo ho sospeso il vedere per lasciare che il veduto penetrasse in me. Adesso sto ricominciando e procedo ottimamente. Ma ti confesso anche che mi sto spogliando di tutte le vecchie idee, di tutte le pretese, per poter davvero rinascere e rifondarmi”. Gli ci vorranno ancora parecchi mesi trascorsi viaggiando per il bel paese.
Oggi nessun consigliere di Stato potrebbe permettersi un lusso simile, per poi tornare a casa sua, riprendere i lavori, lasciare alcuni incarichi e prenderne altri, e così via. Quando torna a Weimar, Goethe è cambiato.
Il cambiamento prodotto dal viaggio è stato giudicato in epoca moderna qualcosa di positivo e di formativo: il viaggio è la metafora reale del processo educativo, tanto che nel XIX secolo era proprio un viaggio – spesso in Italia – a concludere il percorso educativo di giovani destinati alla cultura e agli studi. Perché si era convinti che da un viaggio si torna comunque arricchiti di esperienza e di conoscenza. Si torna più saggi, si pensava, proprio come in quel viaggio fantastico che Astolfo fece sulla Luna nell'Orlando furioso dell’Ariosto.
Tutto l’Orlando furioso è come un continuo viaggio, dove i paladini si spostano con mezzi magici da una parte all’altra delle terre conosciute. L’ironia ariostesca occhieggia burlescamente a tutta la letteratura epica classica, inserendo riferimenti un po’ ovunque su Omero, su Virglio o su Dante. Il viaggio negli inferi, che era un topos classico ripreso da tutti e tre gli autori con tragica complessità è volto allo scherzo da Ariosto, con Astolfo che giunge alla fatale entrata, ci caccia dentro le arpie starnazzanti, butta un occhio per curiosare fra gli amanti ingannevoli e traditori e se ne va, dopo aver fatto franare un bel po’ di pietre a chiudere quell’entrata per sempre. Come a dire: ecco, vi ho dato il viaggio negli inferi, non ne parliamo più.
Ma Astolfo continua, arriva ai monti leggendari da cui avrebbero origine le misteriose sorgenti del Nilo e che proteggono in cima il Paradiso terrestre, ci sale sopra, poi prosegue su un carro di fuoco fino alla Luna. Non ha paura. E’ solo sconcertato da quello che trova sul pianeta. Una copia quasi perfetta di quello che c’è sulla Terra, con valli, fiumi, mari e città. Solo che qui c’è tutto ciò che sulla Terra è andato perduto. Tutto perfettamente conservato. Dalla gloria di eroi dimenticati alle promesse poi non mantenute, dalla bellezza delle donne poi invecchiate alla fama o alle illusioni di uomini passati nel tempo. E più di ogni altra cosa, Astolfo trova il senno degli uomini. Una montagna di senno. Da non crederci, quanto senno si è perduto e si continua a perdere. Dice che addirittura di uomini sulla cui assennatezza avrebbe giurato e spergiurato là sulla luna ce n’era una quantità insospettabile. E naturalmente trova anche il senno di Orlando, che costituiva lo scopo del suo viaggio.
Ma cosa succede ad Astolfo sulla Luna? Il suo viaggio, seppure ironico, è pur sempre un viaggio, e Astolfo infatti ne approfitta, cerca la boccetta col suo proprio senno, se la apre sotto il naso e se lo riprende. Per questo, al ritorno sulla terra, è diventato molto saggio. Torna saggio dal suo lungo viaggio. Ma siccome torna sulla terra, sappiamo che dopo un certo tempo – e per colpa di una donna – Astolfo ne riperderà un bel po’ di quel senno recuperato. E chissà che non lo perda proprio a ragion veduta? Ossia proprio perché è passato del tempo?
Se la vita degli uomini sulla terra è dissennata, lo è anche perché è così difficile amministrarne il tempo. Il tempo della vita, quello che nei viaggi si dilunga interminabile come la condizione stessa della loro possibilità, è come un vecchio pazzo e capriccioso. Vecchio (Cronos) e fanciullo (Aion) al tempo stesso, la Terra ne è talmente intrisa che Ariosto, tramite Astolfo, può fare la classica distinzione fra l’eternità immutabile del senza tempo e della perfezione (il cielo della Luna e delle stelle fisse) e la Terra dissennata perché sempre nel tempo. Astolfo, una volta recuperato il senno grazie al suo viaggio fuori del tempo, quando ci torna dentro (prima o poi, appunto) lo riperde.
Questo dovrebbe far riflettere tutti i viaggiatori che sperano di uscire dal tempo: il tempo è una condizione del viaggio, non un suo limite. Per viaggiare si ha bisogno di tempo.
Per esempio quarantadue giorni possono bastare a compiere un viaggio intorno alla propria stanza, come ha fatto Xavier de Maistre nel 1794. Con l’umorismo e l’ironia insieme che caratterizzano uno dei libri più intelligenti sull’arte del viaggiare, Viaggio intorno alla mia stanza, seguito poi da un Viaggio notturno all’interno della mia stanza, de Maistre ha mostrato quanto la frenesia del viaggio esotico (a quell’epoca l’esotico era Roma o Costantinopoli) fosse risibile.
L’agile libretto del francese – in cui sono contenute considerazioni interessantissime sulla nostra doppiezza umana, bestiale e spirituale – racconta come si possa viaggiare con tutte le comodità, senza spese e senza alcun rischio all’interno della propria stanza, e come si possa tornare da un simile viaggio enormemente arricchiti e dilettati. Un viaggio per tutti, quindi: per i pigri, che non hanno voglia di organizzare nulla; per i poveracci, che non hanno soldi da buttare; per i paurosi, che non vogliono correre rischi inutili; per gli avari, che non devono temere di farsi derubare… “Nell’immensa famiglia degli uomini che formicolano sulla Terra non ce n’è uno che (…), dopo aver letto questo libro, possa rifiutare la sua approvazione a questa nuova maniera di viaggiare che introduco nel mondo”. E’ dopotutto quanto scriverà anche Wittgenstein , quando spiegava che per trovare se stessi non occorreva allontanarsi troppo da dove si è.
Un viaggio siamo abituati a pensarlo nell’ottica della formazione, dell’educazione alla vita e al mondo, persino della sensibilizzazione alle differenze - in questo senso esperienza che arricchisce la vita - ma sempre nell’ottica quieta dei sedentari: ogni viaggio deve per noi avere un inizio e una fine. Si parte da un luogo e si giunge in un luogo. Ed anche se il luogo della partenza non corrisponde necessariamente al luogo della fine, del ritorno, comunque il viaggio resta un’esperienza temporanea, dove il prima e il dopo sono stanziali. Ecco perché i nomadi, quelli che non hanno mai un inizio e una fine, un luogo da cui partire e dove tornare, hano sempre preoccupato le altre civiltà. Che viaggio è quello che non finisce mai, quello per il quale non ha senso alcun ritorno? Piangono disperati coloro che salutano chi parte per un viaggio senza ritorno. Un viaggio deve finire a un certo punto.
Ma questo è proprio ciò che Rilke dice di non potere, nel male di vivere che affligge il poeta protagonista dei suoi Quaderni di Malte Laurids Brigge. Non avere un posto, un luogo dove fermarsi è una delle forme peggiori del male di vivere, ma anche una delle espressioni più forti della condizione di uomini nomadi, di cacciatori, di inquieti artisti maledetti. Viaggiatori come gli scienziati e gli storici, soprattutto gli storici, che sono per eccellenza dei viaggiatori nel tempo e col tempo, sono nelle condizioni di non arrivare mai, di non potersi mai fermare. Certo, il protagonista rilkiano si dice che sarebbe potuto essere un uomo normale, un borghese affermato nella sua professione, “se avessi potuto abitare in qualche luogo, in qualsiasi luogo del mondo, in una delle tante case di campagna, chiuse, di cui nessuno si cura. Mi sarebbe bastata una stanza sola (…). Ma è andata diversamente, Dio saprà perché. I miei vecchi mobili marciscono in un granaio, in cui ho potuto collocarli; e io stesso, sì, mio Dio, io non ho un tetto su di me, e mi piove negli occhi”.
Il nomade vive in una condizione di cambiamento permanente, di continua provvisorietà. E’ lui quindi a indicare un viaggiare quasi puro, o comunque altro, senza i termini che lo incatenano fra l’inizio e la fine, la partenza e il ritorno.
Il ritorno non è mai semplicemente un ritorno. Tutti i veri viaggiatori lo sanno. Se il viaggio resta un’esperienza di cambiamento, allora chi torna non è lo stesso di chi è partito. Nel suo bel libro sulla conoscenza storica, Prima delle cose ultime, S. Kracauer dedica un capitolo intero al “viaggio dello storico”. Nel suo viaggio nel passato lo storico dev’essere “capace di perdere il suo io”, perché, come scriveva anche L. Strauss, egli non mantiene la sua identità nel viaggio: “egli inizia un viaggio la cui fine gli è nascosta. Non è probabile che torni alle sponde del proprio tempo come se fosse esattamente lo stesso uomo di quando è partito”. Lo storico che torna dal passato non è più la stessa persona di quando era partito dal proprio presente. Solo alla condizione di avere “un io elastico”, ossia non rimanendo la stessa persona, può “penetrare la nebbia che vela la vista non appena arriverà sul posto”. Infatti il tempo dello storico, il suo presente affrettato, può impedirgli di capire i tempi passati in cui si muove. Ecco perché per Kracauer “l’influsso esercitato dal suo viaggio sulla forma mentale dello storico è un’ulteriore smentita del luogo comune secondo il quale egli è figlio del suo tempo. In verità è figlio di almeno due tempi: il tempo in cui vive e il tempo che sta studiando. In una certa misura la sua mente non è localizzabile, vaga senza fissa dimora.”
Ecco allora che de Maistre, Rilke e Kracauer dicevano qualcosa di più. Prendendosi gioco della moda del viaggiare, e descrivendo minuziosamente le parti della sua stanza, sottolineando la condizione di quello a cui piove negli occhi o che viaggia nel tempo, mostravano che nessuno è in realtà privo della facoltà di partire. Il viaggio come metafora dell’esperienza resta una figura significativa e importante della cultura occidentale. Purché il viaggio, come esperienza, possa mettere in discussione il chi e il dove del suo compimento.
La Luna violata da Astolfo – benché con la benedizione di San Giovanni – non può più essere la stessa di prima, inviolata e cristallina nella sua perfezione. La stanza di de Maistre non è più la stessa stanza sconosciuta di prima del viaggio. Il passato percorso dallo storico non resta uguale a se stesso. Il cambiamento non riguarda solo il soggetto, ma anche l’oggetto, a tal punto che i due termini si confondono fra loro nell’esperienza.
Il prima e il dopo hanno importanza per questo. Come tempi diversi che si mescolano fra loro.
Ma cosa succede quando quasi si azzerano i tempi del viaggio, ossia quando lo spazio percorso diventa quasi ininfluente? Cosa succede quando il tempo del viaggio diventa una variabile trascurabile, da ottimizzare, da ridurre sempre di più? Quando conta solo il nostro tempo, ed a questo adattiamo tutto il resto (tour di Roma in quattro ore, tour di Firenze in due, giro d’Italia in quattro giorni, ecc.)?
Oggi siamo spaventati da un viaggio che dura troppo, e giudichiamo insopportabile il tempo che separa la partenza da Roma e l’arrivo a Sidney, quasi 24 ore fra volo e scali vari. Tempo perso, diciamo. Eppure lo continuiamo a chiamare viaggio.
Nel turismo massificato e redditizio il tempo è cancellato o ridotto come un ostacolo ingombrante. Abbiamo un modo completamente diverso di viaggiare. Ciò che succede nel mezzo, durante il tragitto, vale a dire nel tempo, non ci riguarda quasi. Invece per Goethe era importantissimo. Rendeva viaggio il viaggio.
Oggi il tempo è passato, dei lunghi viaggi di formazione. Si fanno viaggi di istruzione, commerciali, di scambio, diplomatici, ecc. Si fa del turismo passivo. Non si ha più tempo per fare altro.