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Aperture (2002 - 2004) Anno 7 Numero 13 2003



Ipertrofia dell'io

Gillo Dorfles

egocentrismo o intolleranza?



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Ritratto

Gillo Dorfles, robot

E' lecito considerare come fenomeno specifico dei nostri tempi la presenza di una ''ipertrofia dell'io''? Tanto piu' se la consideriamo legata a quella condizione psichica che va sotto il nome di narcisismo? Innanzitutto, prima di affrontare un argomento gia' di per se' spinoso, vorrei precisare che, nel caso che qui mi interessa, non intendo riandare alle postulazioni freudiane (a partire dal famoso saggio Zur Einführung des Narzissismus del 1914), alle sue distinzioni fra narcisismo primario e secondario e alla sua identificazione del processo come una "stasi della libido". E non vorrei neppure sofermarmi alle successive argomentazioni di Jung e della Klein; né su quelle, sempre concatenate alle prime, come la ben nota "fase dello specchio" di J. Lacan. Se, infatti, il "narcisismo primario" di Freud designa uno stato precoce del bambino che investe la sua libido su se stesso; mentre quello "secondario" indica il ripiegamento della libido sull'Io, deviata dai normali investimenti oggettuali; quello invece che qui mi preme di analizzare è un tipo di narcisismo - ma è meglio definirlo egocentrismo patologico - che sia esteso non al singolo individuo ma a vaste comunità e popoli, addirittura, per il quali "l'oggetto libidico" diventi un "io collettivo" così dsa autorizzarci ad appplicare i concetti di "deviazione libidica" addirittura a una intera società.
In altre parole, ritengo che si possano ipotizzare dei narcisismi "minori" non giustificabili soltanto con gli schemi troppo perentori e circoscritti di Freud (né con quelli della Klein o di Lacan), eppure fortemente incisivi sulla situazione sociale, politica, esistenziale dei nostri tempi; capaci di condurre alla instaurazione di una vera "gigantizzazione" della propria persona (o del proprio popolo, della propria religione) di fronte alla pochezza attribuita a tutto quanto non rientri nell'abito personale (o di personalizzazione etnica-nazionale).

Sembrerebbe un'eventualità assurda quella cui ho appena accennato, eppure si ha la sensazione che avvenga proprio così: alcuni "grandi uomini" o grandi nazioni - o grandi comnplessi economici, religiosi, politici ( in realtà piccolissimi e mediocri per cuore e cervello) - si "illuminano d'immenso". Ma non "ungarettianamente"; solo per la spavalda e sfacciata magnificazione del proprio Io.

Qual è la causa prima di questo atteggiamento? Assenza di carità, assenza di amore? Soprattutto assenza d'interesse per l'altro da sé; e la convinzione di essere al centro dell'universo. Quasi fossero ritornati a una sorta di anticopernicanesimo.

Tutti questi dati confluiscono in una situazione che ormai è più di "costume" che di morale, più di presunzione che di tolleranza. Ed ecco perché - tralasciando ormai ogni riferimento a modelli psicoanalitici, dando per scontato che l'Io ingigantito non può essere soltanto psicologicamente giustificabile, mentre è sociologicamente condannabile - vorrei analizzare più da presso innanzitutto il rapporto fra egocentrismo e intolleranza.

Uno degli aspetti che colpiscono a prima vista chi consideri alcuni dei comportamenti dell'umanità odierna (sia nel caso del singolo individuo che in quello di intere popolazioni) è l'insufficiente tolleranza. Forse m'illudo che in tempi andati la situazione fosse meno grave; ma non c'è dubbio che oggi è molto difficile trovarsi di fronte a chichessia - magnate dell'industria o artista d'avanguardia - che presenti un quoziente "accettabile" di tolleranza.
Tolleranza significa: ammettere che il prossimo possa essere in buona fede; che il proprio comportamente possa risultare altrettanto sgradevole di quello altrui; che gli errori degli altri non siano forse maggiori dei nostri, ecc. Ma significa anche: non inalberarsi se il prossimo non condivide i nostri gusti, le nostre inclinazioni socio-politiche-religiose, ecc.

Il fatto di avere una scarsa "sopportazione" del prossimo conduce, poi, a delle intolleranze che finiscono per condurre alle ben note situazioni esterofile, antisemitiche, antiislamiche e via dicendo.

Come si vede - o almeno vorrei che fosse evidente - l'intolleranza va di pari passo con l'egocentrismo; ne è in certo senso la matrice; e questo ci permette di dare una versione meno ristretta alle tendenze egocentriche e narcisistiche che sono oggi - come ho già detto - particolarmente vivaci e perniciose.

Credo, insomma, che si debba istituire, a questo punto, una vera e propria - anche se azzardata - "diagnosi clinica" di tali comportamenti. Ossia: non bastano le certamente abili interpretazioni freudiane o kleiniane; non bastano le giustificazioni esclusivamente politiche o economiche, quando ci troviamo a ragionare (anzi a non poter ragionare) con individui o popolazioni che appartengono a qualcuna di queste categorie gonfie del proprio Io individuale o di un "Io collettivo" etnico o religioso. Credo che in simili casi si debba ipotizzare una situazione psicopatologica che va ben al di là delle tradizioni, dei costumi, delle fedi; la cui identità è difficile da individuare e ancora più difficile da sanare.
Ma come potremo considerare questa "ipertrofia dell'io comunitario" in modo da utilizzare positivamente tale ipotesi?

Più d'una volta in varie circostanze mi è parso giusto ventilare l'ipotesi dell'esistenza di vere anomalie psichiche capaci di venir estese a intere popolazioni, come nel caso di quei raptus per i quali singoli gruppi di decine o centinaia d'individui sono stati spinti a un suicidio di massa sotto l'influenza di falsi guru o di pseudoiniziati. In quei casi, tuttavia, si trattava di qualche decina o centinaia di persone già in partenza anomali se non altro per essersi lasciate irretire da qualche santone o falso guru. Ecco perché un discorso analogo non può essere fatto a proposito dei fondamentalismi e delle ortodossie (islamiche o ebraiche) che abbiamo sotto gli occhi e di cui appare sempre più arduo giustificare l'esistenza in seno a un'umanità che crede - o s'illude - di essere giunta all'"età della ragione".

Per queste popolazioni - da considerare indubbiamente di per sé "ragionevoli" e raziocinanti (al di fuori della loro infatuazione religiosa o, se vogliamo, d'un loro nucleo delirante), - non mi sembra possa esserci che una giustificazione: quella di appellarsi a un'ipotesi che ammetta l'esistenza di una sorta di "sindrome borderline socio-politica". La quale - trasponendo qui una diagnosi psichiatrica - permetta di continuare a considerarli entro la norma, ma affetti da una forma paranoide del tipo "borderline"; e dunque senza giungere a un livello decisamente psicotico.
Ecco dunque come, per spiegare alcuni casi, da un lato d'intolleranza (politico-religiosa), dall'altro di "ipertrofia dell'io" estesa a interi gruppi sociali, possiamo fare appello a una vera condizione morbosa la cui identità è difficile da giudicare e ancora più da "sanare".

Una cosa tuttavia mi sembra evidente; ed è strano che - a quanto mi risulta - non sia mai stata presa in considerazione: a prescindere da quella che può essere un'autentica fede religiosa, com'è possibile giustificare gli eccessi a cui porta e che sono sotto gli occhi di tutti, se non postulando l'esistenza di quello stato delirante cui accennavo e che può essere fatto risalire a una fanatica "esaltazione del proprio Io" (personale o comunitario)? Ma, a questo punto, in quale modo potremo convincere un uomo politico, un sociologo o un intero popolo circa l'anomalia del proprio giudizio o circa la pericoosità della "sindrome" psichica di cui è vittima? Non saranno certo le "buone parole" né le minacce a poter correggere una mentalità patologicamente alterata: bisognerebbe poter risalire alle origini stesse del pensiero delirante, derivato appunto dall'ipertrofia dell'Io o, se preferiamo, da un narcisismo unito all'estrema intolleranza.

Forse solo un lento processo educativo e l'abbandono degli stimoli attivanti il delirio, potranno, nel corso di generazioni, smorzare le malefatte di un egocentrismo che va ben al di là di quanto di solito accade nel normale rapporto tra gli uomini.