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Aperture (2002 - 2004) Anno 7 Numero 13 2003



Bottiglie rotte su Marte

Danilo Selvaggi

L'egoismo della specie umana e la cura ecologica



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Arne Naess, 1996, ritratto

Se la situazione la si guardasse dal pianeta Sirio, le soluzioni sarebbero a portata di mano.
Felix Guattari


1. Ultra-egoismo, ovvero la x umana

Tra i numerosi meriti della cultura ecologica, ne esiste uno di singolare rilievo: aver riscritto il concetto di egoismo, arricchendolo di una nuova variante: l'egoismo della specie umana. Vissuto e concepito a lungo come una dimensione puramente individuale (il mio personale benessere), o collettiva e sociale (il benessere delle nostre famiglie, comunità, classi sociali, nazioni), l'egoismo diventa infatti specifico, cioè un status che si estende ad un'intera specie, la specie umana, e ricade a livello interspecifico.
Per definire l'egoismo della specie umana, scienza, filosofia e cultura hanno formulato la nota definizione di antropocentrismo. Peraltro, una definizione ormai abusata e persino distorta, come avviene per quelle cose che pronunciamo di continuo fino a logorarle, privandole di valenza semantica. Non per questo, tuttavia, l'antropocentrismo rappresenta una dimensione fittizia. Tutt'altro. Gran parte della storia del mondo è stata infatti segnata dall'impatto antropocentrico, dal ego-centrismo della specie uomo e dai suoi effetti. Come dire: l'antropocentrismo esiste da sempre, o quanto meno da lunghissimo tempo. E tuttavia la piena consapevolezza dell'antropocentrismo è un fatto recente, sviluppatosi con le nuove scienze, il crescere della crisi ecologica e gli antidoti (scientifici, politici, culturali) ricercati per essa.
Molti studiosi hanno d'altra parte chiarito come l'egoismo non sia affatto un fenomeno di esclusività umana: ogni specie è centrica, ogni specie difende sé stessa dagli eventi, dalle difficoltà, dai conflitti con altre specie. Cioè, ogni specie si impone, o cerca di farlo, per mantenersi a galla nel complicato sistema della vita. L'antropocentrismo ha tuttavia una sua caratteristica peculiare: è il centrismo di una specie dominante, enormemente più incisiva di ogni altra. E' l'egoismo dei forti, il centrismo di chi lascia sovente segni e rovine. E' insomma una sorta di ultra-egoismo: un egoismo di base (simile per ogni specie) abbinato però ad una variabile specifica, una x che porta con sé, oltre alle grandi capacità umane, quanto di superfluo, eccessivo, nocivo, insostenibile, distruttivo scaturisca da molte azioni della specie uomo. Questa x è ciò con cui facciamo quotidianamente i conti in termini di crisi ecologica, abuso di risorse, squilibri socio-ambientali, perdita di biodiversità.
E' a questa x (e ai suoi effetti) che l'ecologia desidera quindi trovare una cura. La cura ecologica dovrà agire sull'egoismo della specie umana, trasformandolo in modo deciso. Ma che genere di trasformazione sarà? Cosa accadrà all'egoismo dopo la cura ecologica, ammesso che questa risulti efficace? Che tipo di essere umano, di futuro sognano gli ecologisti? E, prima ancora, su quali basi si fonda l'egoismo della specie umana ?


2. Acqua che non è acqua. La cultura antiecologica dell'io.

In una delle sue opere più note1, Eugene Hargrove presenta una tesi molto in voga, già propria di numerosi esponenti del pensiero ecologista (ad esempio John Passmore2) e prima ancora della nuova filosofia post-idealista: la tesi secondo cui le origini della crisi ambientale sono principalmente di natura culturale e vanno rintracciate, oltre che nella visione biblica del mondo (tema di grande rilievo, qui non affrontato), in quella straordinaria esperienza che è la Grecia antica. Le basi dell'antropocentrismo coinciderebbero dunque con gli albori della filosofia occidentale.
La tesi è suggestiva e, come notato da molti, sostenuta da ragioni più che valide. Né Hargrove né altri ignorano di certo la storia evolutiva di homo sapiens, le tappe fondamentali della sua crescita socio-biologica, i lunghi processi di ominidizzazione e, soprattutto, l'avvento dell'agricoltura. Questi ed altri sono capitoli fondanti della trasformazione umana del mondo e della stessa affermazione generica della cultura umana.
La tesi esposta da Hargrove è tuttavia più specifica: con l'esperienza dei primi filosofi occidentali si pongono le basi per quella forma di cultura razionalistica che segnerà in modo profondo, per due millenni e mezzo, il cammino (culturale e non) di una parte consistente dell'umanità. In quell'esperienza nasce l'ego, l'io razionale che legge il mondo, lo interpreta secondo una data chiave e lo riduce progressivamente a sé. In quell'esperienza nasce la frattura esplicita, teorica, filosofica tra antropos e natura. L'eccezionale esperienza culturale dei greci, padri della filosofia, della dialettica, della democrazia nell'agorà ha dunque per converso una visione della natura che è l'origine della cultura antiecologica occidentale.
E' indicativo, in questo senso, che le prime riflessioni filosofiche siano proprio di carattere naturalistico. Aristotele definirà fisiologi, studiosi della natura, i primi filosofi greci (Anassimene, Anassimandro, Talete ecc.). Oggi, con una leggera forzatura potremo addirittura sostenere che la filosofia occidentale nasce specificamente come ecologia, cioè come riflessione (logos) sull'ambiente e la natura circostanti (oikos). I filosofi naturalisti si dedicheranno allo studio dei fenomeni e degli elementi naturali interrogandosi sull'acqua, sul fuoco, sul movimento, sulla varietà della natura. Tuttavia, e questo è il punto, tale interesse andrà ben oltre l'oggetto materiale dello studio. Obiettivo di quelle indagini sarà invece la ricerca di una realtà stabile che potesse valere da principio ordinatore del caos naturale circostante.
Che cosa accomuna la varietà naturale? Che cosa c'è al di là del mutevole che ci appare, immediatamente, osservando la natura? L'idea di questi primi filosofi era che il mondo fosse organizzato secondo un ordine e che i princìpi atti a governarlo fossero validi in modo universale. Il mondo, al di là della mutevolezza materiale e visibile, ha insomma una struttura semplice e razionale. Per quanto naturali, gli elementi primi che i fisiologi individuarono vennero dunque concepiti in senso metafisico, cioè come privi di materialità: l'acqua di Talete, ad esempio, non è propriamente acqua, ma quell'elemento formale che fa apparire l'acqua e tutte le cose dall'acqua composte. L'acqua di Talete è cioè un "sostrato che, assumendo una varietà di forme", potesse "dare origine al mondo mutevole delle apparenze"3. Così per l'aria di Anassimene, la terra di Senofane, il fuoco di Eraclito.
In questo percorso denaturalizzante, alcuni filosofi "dell'origine" si spingeranno ancora oltre, convinti di dover ignorare persino i fenomeni, le manifestazioni stesse di quest'ordine: "la vera sostanza prima...doveva essere qualcosa che non s'incontrasse, in sé, nell'esperienza quotidiana"4: Anassimandro la rintraccerà in una struttura puramente razionale (apeiron, l'illimitato), Pitagora nel numero, Democrito (con una teoria decisamente avanzata) in una struttura atomica infinita, invisibile e indivisibile. Infine Platone, a chiudere il cerchio, con la sua condanna dell'illusorietà naturale: il mondo della natura e dei sensi è ingannevole, la vera realtà è costituita da forme, idee non raggiungibili con l'esperienza quotidiana ma solo tramite le più elevate attività della ragione.
Nessun risvolto proto-ecologico era dunque presente nell'esperienza naturalistica greca. Ai greci interessavano poco le reti naturalistiche, l'evolversi di un ambiente, il lento formarsi di una roccia, la trasformazione di una spiaggia segnata dal mare. Il mondo, il vero mondo, è per i greci una realtà metafisica, intangibile, teorica.

Si confronti, ad esempio, la concezione filosofica greca del fuoco con la sua controparte ecologica del ventesimo secolo. Oggi, gli ecologisti ritengono che lo studio del fuoco nella natura sia un soggetto complesso e affascinante. A volte lo considerano parte di un ciclo ecologico in cui la foresta diventa periodicamente prateria, consentendo la reintroduzione, per un certo periodo, di animali che richiedono habitat specifici rappresentati da fasi distinte della riconversione della prateria in foresta. Altre volte, lo considerano uno strumento dello status quo, che impedisce alle adiacenti zone a foresta di trasformarsi in steppe e praterie... Anche se in linea teorica i greci avrebbero potuto trarre conclusioni analoghe, il loro orientamento filosofico generale rendeva virtualmente impossibile tali scoperte. Allorché un filosofo greco guardava il fuoco in natura, questo sollevava nella sua mente domande circa i principi fisici e chimici che governavano la combustione, non circa l'effetto del fuoco sulla storia naturale della zona5.

"Princìpi fisici e chimici" stanno qui per princìpi primi, elementi di un'architettura regolare e permanente. Fisico, sostanzialmente, sta per metafisico. Nella metafisica dei greci, nella loro opera di rimozione del sensibile, della varietà, del mondo fisico in genere vanno dunque rintracciate, secondo Hargrove, le ragioni storiche dell'antiecologia. Le basi culturali dell'egoismo della specie umana, il suo stesso significato, sono da cogliere nel processo che l'intelletto umano conduce per risolvere il conflitto con il disordine della natura materiale. Natura che, di per sé stessa, sarebbe invece inautentica, insignificante.
Le filosofie occidentali successive raccoglieranno molte delle conclusioni greche, facendole proprie e perfezionandole con nuovi e più sofisticati strumenti di indagine, mantenendone tuttavia la tendenza antinaturalistica: la natura non ha valore di per sé ma è l'involucro che rimanda a/nasconde qualcos'altro. Può essere una semplice copia imperfetta delle idee o la loro degenerazione (mistica medievale); il simbolo della caduta e della morte (neoplatonismo); la strada da superare per raggiungere la verità (alchimia, filosofia rinascimentale); un meccanismo da analizzare e correggere (razionalismo); l'oggetto da autenticare attraverso l'attività del pensiero (idealismo).
In tutti questi casi, come già avvenuto per i greci, la natura ancora non è emersa nelle sue componenti bio-ecologiche ma rappresenta l'ostacolo, variamente interpretabile, che la ragione affronta e supera nel suo progresso. Tale ostacolo ha motivo di essere solo nella sua opposizione funzionale alla razionalità umana. La natura, in altri termini, serve "culturalmente" all'uomo per la definizione dialettica delle proprie categorie di pensiero, così come gli serve, in chiave pratica, per la soddisfazione (nonché la "creazione") dei bisogni. La natura è funzionale all'uomo, è intorno all'uomo, esiste per l'uomo. E forse addirittura non esiste, perché 1) solo chi pensa esiste, 2) solo l'uomo pensa, 3) dunque, solo l'uomo esiste.
Poche immagini quanto il cogito cartesiano -qui tradotto liberamente in sillogismo- descriveranno così causticamente il potere (auto) assegnato all'io, e dunque la cultura dell'egoismo della specie umana e il suo successivo impatto tecnico-pratico sull'intero pianeta: foreste devastate, inquinamento, perdita di biodiversità, una terra più che sofferente. E l'acqua, che non è acqua, ma che comunque scarseggia.


3. Destinazione Marte (ed oltre).

La Terra è sconvolta da una guerra senza quartiere che, in trent'anni, ha distrutto ogni cosa. La superficie terrestre è divenuta invivibile, la temperatura dell'aria altissima, il terreno arido e senza vita. Per sfuggire alla guerra e alla devastazione planetaria, gli uomini sono costretti a vivere al buio, nel cuore di tunnel sotterranei. Ma la situazione è al limite. Quanto a lungo potrà durare quella condizione? Quale futuro garantisce un presente di guerra, inquinamento, nascondiglio? Un presente che i terrestri non sopportano più. "Gli uomini", dicono ora, "non sono fatti per vivere in tunnel di metallo, nutrirsi di cibo coltivato in vasche, lavorare e dormire e morire senza mai vedere il sole".
E poi, i bambini... Cosa dire dei bambini, "generazione nata nel mondo sotterraneo"?
Così, i terrestri decidono di agire. Non c'è modo di "riportare in vita Terra, rigenerare il suolo". L'unica cosa da fare è andare altrove, cercare un altro mondo. Viene dunque organizzata una squadra di ricognizione spaziale, con il compito di raggiungere il pianeta Marte, ispezionarlo e valutare se l'umanità possa trasferirvisi realmente. E' questa, di fatto, l'unica alternativa: tra gli otto pianeti del sistema solare, Marte sembra l'unico non invivibile a priori.
La squadra dunque parte, il viaggio scorre tranquillo e solo verso la fine un dubbio assale gli astronauti: i marziani..! Ci saranno marziani? E, se sì, come ci accoglieranno? Il dubbio viene tuttavia sciolto poco dopo, quando finalmente il team giunge a destinazione. Quello che appare agli occhi dei terrestri è una città, una vera città marziana, ma completamente distrutta, senza alcun abitante o altra forma di vita. Una città morta in un pianeta in rovina. Cos'è accaduto? Dove sono gli abitanti?
I tecnici della squadra terrestre cominciano ad adoperarsi, a cercare segni, oggetti e qualunque cosa possa spiegare la storia di Marte, la sua desolata devastazione. Grazie ad una serie di documenti, si scopre così che i marziani sono andati via, abbandonando il pianeta. Rampe di lancio hanno sparato verso un altro pianeta ogni cosa avesse un valore. Marte, per i suoi vecchi abitanti, era divenuto invivibile. Ma un destino comune sembra delinearsi tra marziani e terrestri. Anche i marziani, infatti, hanno vissuto una fase sotterranea della propria storia. Prima di volare via hanno scavato tunnel e rifugi per ripararsi da un mondo divenuto, come la Terra, ostile e impossibile.
Appurata l'invivibilità di Marte, la preoccupazione principale della squadra di ricognizione diviene dunque quella di scoprire l'esito della migrazione marziana e, soprattutto, il lontano pianeta su cui quegli esseri si sono spostati. Scoprirlo per raggiungerli, condividere con loro quel mondo o, in caso di necessità, cercare di strapparglielo.
Grazie ai documenti ritrovati, i tecnici terrestri riescono a rispondere ai quesiti: il viaggio era avvenuto seicentomila anni prima. Il pianeta raggiunto dai marziani era fertile e lussureggiante, "alberi e prati e oceani azzurri", un vero paradiso. Ma la migrazione non era stata indolore: infatti, le colonie marziane giunte a destinazione erano per varie ragioni cadute in disgrazia. "E' un'impresa colossale trasferire un'intera società, armi e bagagli. Hanno impiegato tre o quattrocento anni a trasbordare tutto ciò che avevano di utile da Marte all'altro pianeta". Ma non avevano previsto i rischi di una simile impresa e così i coloni erano rapidamente regrediti. "Non sono riusciti a tenere vive tradizioni e conoscenze. La società si è sfaldata. Poi sono venute la guerra, la barbarie".
Una migrazione dolorosa, dunque. Tuttavia erano sopravvissuti.
I terrestri avrebbero dovuto fare altrettanto. Marte, mondo in rovina, non poteva accogliere la migrazione terrestre. Occorreva dunque scoprire l'altro pianeta, raggiungerlo e conquistarlo.
Poi, un telescopio, servito per guidare il lancio marziano.
I terrestri guardano dentro. Dall'altra parte, al centro della lente, il pianeta raggiunto dai marziani: è la Terra.
"I quattro uomini restarono zitti. Si fissarono a labbra strette". Avevano capito.
"Abbiamo distrutto due mondi, disse infine Halloway. Non uno solo. Prima Marte. Lo abbiamo ucciso e ci siamo trasferiti sulla Terra. E abbiamo distrutto Terra con la stessa sistematicità usata su Marte".
"Un circolo chiuso, disse Mason. Siamo tornati al punto di partenza. Raccogliamo il raccolto seminato dai nostri antenati. Ci hanno lasciato Marte in questo stato. Del tutto inutilizzabile. E adesso noi ci aggiriamo tra le rovine in cerca di qualcosa, come anime dannate"...
"Un'area per picnic. Bottiglie rotte e lattine e piatti di carta. Dopo che la gente se n'è andata. Solo che adesso è tornata, e sarà costretta a vivere nel merdaio che ha fatto".
E ora?
"Continueremo a cercare finché non troveremo qualcosa. Non resteremo su questa pattumiera dimenticata da Dio... Lo troveremo. Un mondo vergine. Un mondo non ancora distrutto"...
"Non è giusto, urlò Mason. Due mondi bastano! Non distruggiamone un terzo".
Ma due mondi non bastavano affatto. I terrestri stavano già immaginando il nuovo pianeta, "stringendolo con tutta la forza delle loro mani. Facendolo a brandelli, atomo dopo atomo...".


4. Cavallette nucleari. La pratica antiecologica dell'io.

Nel 1954 Philip K. Dick scrive "Survey team", Squadra di ricognizione6, breve racconto-metafora su uno dei possibili futuri dell'umanità. In piena guerra fredda, con le prime avvisaglie di crisi ecologica e la paura di una catastrofe incombente, Dick lanciava così, secondo il suo stile, un allarme laconico e disincantato: verrà davvero il tempo in cui dovremo predisporre una squadra di ricognizione? A quanti mondi si fermerà l'egoismo della specie umana?
Il racconto è un'eccellente immagine di quella che zoologi ed ecologi chiamano strategia r, la strategia dell'annienta e fuggi, tipica di alcune specie animali cosiddette fuggitive (le cavallette, i lemmings, il lavoratore dal becco rosso7). "Una specie fuggitiva, per definizione, è una specie sospinta da un posto all'altro a causa del suo legame con una nicchia ecologicamente instabile"8. In altri termini, una specie costretta continuamente a migrare per via delle modalità del suo stesso comportamento: riuniti in gruppi numerosissimi, gli animali giungono nel luogo in questione, lo assaltano depauperandolo di ogni risorsa e, dopo essersi ampiamente riprodotti, migrano in altro luogo. Lasciando sul campo, come direbbe Dick, bottiglie rotte, lattine e piatti di carta.
A questa strategia, i naturalisti ne contrappongono un'altra, nota invece come strategia K. Nel caso K, gli animali (ad esempio aquile e lupi) sono in grado, invece, di "programmare la densità delle loro popolazioni in modo da prelevare risorse dall'ambiente senza depauperarlo..."9 e dunque creando situazioni generalmente stabili, tali cioè da mantenere in equilibrio tanto le specie in quell'ambiente quanto l'ambiente stesso.
I fatti dicono come oggi la strategia r sia il modus vivendi principale delle comunità umane dominanti (occidentali ma non solo). In realtà, una versione estrema della strategia r, applicata non a zone definite e contenute, come avviene per gli altri animali (ad esempio gli uccelli denominati lavoratori dal becco rosso), ma potenzialmente all'intero pianeta. Insomma, una strategia da cavallette potentissime, armate di strumenti distruttivi.
Per lungo tempo, l'uomo ha tuttavia condotto la propria esistenza secondo i dettami dell'altra strategia, la K: le società di cacciatori-raccoglitori, caratteristiche dell'umanità fino all'avvento dell'agricoltura, vivevano in base a canoni di stretta ricerca del necessario, cacciando il cibo occorrente, raccogliendo frutta, muovendosi di continuo in modo da non incidere irreparabilmente sul territorio. Il nomadismo di questi gruppi, solitamente composti da poche decine di individui, si declinava in modalità che oggi definiremmo sostenibili: la limitazione delle risorse utilizzate e gli spostamenti da un luogo all'altro comportavano un impatto estremamente limitato sull'ambiente interessato. Infine, la bassa popolazione complessiva e l'inesistenza di tecniche, diciamo così, inquinanti, facevano il resto.
Praticata dalla specie umana per tempi lunghissimi, tale strategia cade progressivamente in abbandono. "Il vero inizio del presente, la vera rivoluzione ha avuto luogo circa 10.000 anni fa con l'addomesticamento degli animali e delle piante. Con il conseguente avvento della pastorizia e dell'agricoltura ha avuto origine il progressivo sviluppo delle risorse, e con ciò la rottura del primitivo equilibrio, l'incremento demografico, la nascita di villaggi e poi città. E a causa del controllo culturale della sua socialità l'uomo ha potuto cambiare completamente, addirittura rovesciare, il suo stile di vita..."10.
L'abbandono progressivo del sistema nomadistico di caccia-raccolta a favore delle prime vere forme di agricoltura è, secondo alcuni, "la più importante transizione dell'umanità"11. Tale transizione, nota come rivoluzione neolitica, si sviluppò a partire dall'Asia sud-occidentale (9000 a.C.), dalla Cina e dall'America centrale (6000 a.C.)12 e pur non avvenendo in modo repentino rappresentò un fatto sostanzialmente irreversibile. La coltivazione del terreno e l'uso di animali domestici permisero infatti la disposizione di maggior quantità di risorse e dunque l'aumento della popolazione. Al tempo stesso, l'aumento della popolazione impediva di fatto il ritorno ad un sistema (caccia-raccolta) che risultava adatto a gruppi sociali molto più ridotti rispetto a quelli ormai creatisi. Dunque, il primo passo verso l'irreversibile era compiuto. La società degli uomini diveniva sedentaria, numerosa, complessa. Nascevano le prime città, le gerarchie sociali, i primi conflitti. Soprattutto, si affermava l'idea dello sfruttamento territoriale: ricavare quanto più possibile dal terreno, dal proprio terreno, escogitando tecniche sempre più mirate. Infine, si gettavano le basi per quello che abbiamo definito l'ultra-egoismo della specie umana: non più semplice mantenimento di sé, ma costruzione e soddisfazione di un ultra-sé (individuale, sociale e di specie) attraverso il reperimento di risorse sempre maggiori rispetto a quelle soddisfacenti.
Ancora oggi non è chiara la ragione (o l'insieme di ragioni) che favorì il passaggio da una strategia all'altra. Certo è che l'avvento del sistema agricolo costituisce, nella pratica, ciò che il razionalismo occidentale rappresenta per la teoria, cioè un fondamentale superamento di soglia. L'ambiente, per quanto in forme minime rispetto alle attuali, comincia a patire il carico di un azione depauperante attraverso forme di sfruttamento sempre più intensive. Soprattutto, la specie umana imbocca quel percorso, per certi aspetti paradossale e chiuso così come descritto da Dick, il cui motivo principale era (e resta) il seguente: l'utilizzo eccessivo di risorse genera nuovi bisogni e nuova necessità di risorse. In altre parole, le risorse non servono a "soddisfare" ma soprattutto a "creare" bisogni. In questo singolare paradosso va forse individuata la chiave dell'egoismo pratico della specie umana: non semplice egoismo ma, come dicevamo, ultra-egoismo; non semplici esigenze ma ultra-esigenze.
Per molto tempo, causa la popolazione non elevatissima e le caratteristiche non ancora devastanti delle tecniche conosciute, i danni ecologici saranno tuttavia ridotti. K.W. Weber ne descrive alcuni già apparsi nelle epoche greca e romana: disboscamenti feroci finalizzati al legname per le flotte o alla creazione di campi agricoli; intense estrazioni minerarie; forme di proto-inquinamento; stragi di animali selvatici negli anfiteatri (ad esempio, gli 11000 animali sterminati, in soli 123 giorni, per festeggiare la vittoria di Traiano in Dacia)13. In un'ottica ecologica, nessuno di questi danni risulterà forse irrimediabile. Ma con il tempo, la forza impattante della specie umana cresce a dismisura, viene esportata ovunque (la colonizzazione dal 1500 in poi) e trova infine coronamento nelle nuove grandi rivoluzioni, quella industriale (1700-1800) e quella postindustriale e tecnologica (1900).
Con il ventesimo secolo, il senso di precarietà strategica è ormai generalizzato: le guerre mondiali, il rischio nucleare, la globalizzazione di fenomeni, l'esplosione della crisi ecologica in tutte le sue varianti segnano il tramonto dello "sviluppo illimitato" e il traumatico avvento dell'era del rischio. Scopriamo cioè di essere a rischio. Tutti, tutto il pianeta. Dopo due milioni di anni vissuti in modo sostenibile, in pochi millenni (dall'8000 a.C. ad oggi) la specie umana passa da quattro milioni a sei miliardi di abitanti, brucia interamente un mondo e infine, quasi al limite, si accorge che quel grande mondo è invece piccolo e ormai compromesso: deforestazione, distruzione di habitat, crisi delle diversità biologiche, tendenza all'esaurimento delle risorse, enorme richiesta di risorse, mutamenti climatici, inquinamenti atmosferico, genetico, del suolo e dell'acqua, problema rifiuti e altro ancora.
Il solito elenco.
Bottiglie rotte, lattine, piatti di plastica dovunque.
Inoltre, squilibri sociali di grande portata. Cioè, crisi ecologica intraspecifica, tra uomini e uomini, popoli e popoli. Infine, crisi dell'ecologia della mente umana: inquinamento all'interno della psiche. Rifiuti e bottiglie rotte anche lì.
In definitiva, la specie umana scopre (dove più, dove meno, dove non ancora) che esiste un effetto boomerang dell'ecologia e che alla convenienza di un benessere parziale e all'origine violento, fa da contraltare la consunzione di un mondo e delle sue risorse. L'uomo culturale, al centro del mondo del sapere (ridotto all'unità del sistema razionalistico) e l'uomo pratico/agricoltore, al centro del proprio campo (ridotto all'ordine della produttività e della fertilità guidata): a entrambe queste figure, idealtipi dell'egoismo della specie umana, la resistenza della natura presenta infine il conto.


5. Quale cura? Astronauti contro ecologisti.

Di fronte alla profondità della crisi ecologica, la conclusione dovrebbe essere scontata: l'egoismo della specie umana è un fenomeno dagli effetti insostenibili che va contrastato. Tuttavia, se intorno a questa asserzione generale è possibile, in linea teorica, un accordo piuttosto largo, altra cosa è la "soluzione". Sul tipo di soluzione si consumano di fatto le grandi differenze. Quale tipo di cura ecologica è necessario? Come e con quali fini intervenire sull'egoismo della specie umana?
Il pensiero ecologico, nato con l'esplosione della crisi ma anche con le profonde svolte scientifiche e socio-culturali degli ultimi due secoli, è oggi un universo talmente vasto che l'idea stessa di un quadro univoco sarebbe semplicemente scorretta: troppo eterogenei (e talvolta controversi) i riferimenti culturali, troppo diverse le soluzioni proposte. Tuttavia tenteremo un'astrazione: usare due paradigmi, che definiremo dell'astronave (in relazione al racconto di Dick) e della coscienza ecologica, per indicare le principali prospettive della riflessione/azione ecologista. A tali opposti paradigmi (o ad una zona mediana in cui funzionano entrambi) la maggior parte degli ecologisti, pur con diverse terminologie, fa in qualche modo riferimento. Inoltre, intorno ad essi si consumano due differenti visioni (soft e hard, riformista e radicale) circa l'egoismo della specie umana. Vediamo.
Teoria dell'astronave. E' necessario puntare tutto sulla scienza e sulle capacità dell'ingegno umano di escogitare soluzioni tecniche alla crisi. Ciò fino all'ipotesi estrema, sarcasticamente proposta dal racconto di Dick, di costruire un astronave per Marte. La crisi, secondo la presente teoria, è figlia o di un cattivo uso della tecnica umana, o dell'uso di una cattiva tecnica umana, o di entrambi i fenomeni assieme. In ogni caso quello ecologico è considerato un problema tecnico che richiede una soluzione tecnica: usare meglio gli strumenti e/o usare strumenti migliori (depuratori, ingegneria ambientale, riciclaggio dei rifiuti, energie alternative ecc.). L'ecologismo tecnicistico è dunque la tendenza ad affrontare la crisi esclusivamente come un danno provocato da strumenti umani imperfetti ma perfezionabili. Poco importante, in questo contesto, è invece la questione della coscienza ecologica, di un altro uomo, degli stili di vita, di una filosofia/etica ambientali. In sostanza, non è l'uomo, il suo passato, il suo antropocentrismo ad essere discusso, ma taluni effetti delle sue azioni. Quello che conta, la cura ecologica più corretta, è la capacità umana di agire in modo che il danno sia contenibile, gestibile, non definitivo e soprattutto tale da non ricadere (o almeno non troppo negativamente) sulla specie uomo. L'uomo resta al centro, ma in un centro illuminato da migliori capacità pratiche.
Teoria della coscienza ecologica. E' necessario puntare sulla identità ecologica dell'essere umano, sulla trasformazione dei suoi sentimenti, stili di vita, razionalità. La crisi, secondo questa teoria, è originariamente dovuta ad una cultura che dimentica o ignora il valore inerente, e non semplicemente utilitaristico, della natura. I danni ambientali, pur materialmente causati dalla tecnica, hanno la vera origine nelle forme culturali dominanti: ignoranza delle reti biologico-culturali, competizionismo, produttivismo, filosofia consumistica. In breve, antropocentrismo ed egoismo dilaganti. Così, intervenendo esclusivamente sulla tecnica si curerebbero solo e temporaneamente gli effetti, lasciando intatte le cause. Ecco invece la soluzione: un altro uomo, una nuova e profonda ecologia. All'antropocentrismo più o meno illuminato, bisogna opporre il cosiddetto ecocentrismo (o biocentrismo): al centro non l'uomo ma l'insieme naturale, la vita stessa.
Non è sempre automatico ricondurre le numerose esperienze ecologiche ad uno di questi due contenitori. In molti casi, come dicevamo, le teorie si mescolano, talvolta in modo irrisolto e confuso. Appare peraltro chiaro come la teoria dell'astronave sia la prospettiva tipica di governi, organizzazioni paragovernative, grandi istituzioni internazionali, enti scientifici, aziende private, parte dell'opinione pubblica e talune associazioni non governative: in modo consapevole o meno, tali entità riflettono e lavorano semplicemente sugli effetti dell'egoismo umano, ovvero sui maggiori disastri pratici dell'ultra-egoismo. E per quanto le soluzioni tecniche possano anche influire sulle coscienze (come di fatto accade), ciò avviene in maniera incidentale. La teoria dell'astronave non ha, tra i suoi scopi principali, la trasformazione in senso altruistico (ecologico) dell'egoismo umano. Il dialogo finale di Squadra di ricognizione è in questo senso emblematico: con un sussulto di coscienza, Mason dice "Non distruggiamo un altro mondo", ma gli altri sono mentalmente già lì, sul nuovo pianeta, a dominarlo "atomo dopo atomo". Non si scherza, c'è da salvare l'umanità! Per loro, la salvezza e il benessere della specie umana sono il valore unico a cui tutto il resto si relativizza. Anche le sorti di un eventuale popolo marziano.
Opposta a ciò è la visione della coscienza ecologica: non è solo la x (l'ultra-egoismo) a necessitare di radicale correzione, ma l'egoismo in quanto tale, i caratteri più profondi dell'essere umano. E' cioè necessario trasformare l'egoismo in un concreto sistema di pratica e pensiero che valuti l'agire umano, individuale e collettivo, alla luce delle conseguenze sulle altre forme di vita e sulle generazioni future, umane e non. A tale teoria potremmo ascrivere le maggiori elaborazioni dell'etica ambientale, dall'ecosofia di Arne Naess alla deep ecology di George Sessions e Bill Devall (e dello stesso Naess), dal preservazionismo di John Muir alle filosofie animaliste, dal bioregionalismo a molta della filosofia post-idealista contemporanea.
Secondo tale visione generale, la realizzazione autentica dell'io (quella che Arne Naess chiama Ecosofia T3) nasce da una consapevolezza biocentrica ed antiegoistica, ovvero da quella mescolanza essenziale di conoscenza e sentimento, uomo e natura, identità e alterità (biologiche, sociali, culturali) che l'uomo ecologico deve essere capace di operare, al di là di tornaconti egoistici, utilitaristici e meramente materiali. La tecnica è un aspetto rilevante ma non originario della dimensione-uomo: essa è semplicemente uno strumento, per quanto di enorme potenza, della coscienza umana Per disinnescarne gli effetti negativi è dunque indispensabile intervenire sulla coscienza, sulla dimensione ecologica dell'uomo, sulla sua visione del mondo. In particolare, fare in modo che quest'ultima si indirizzi verso il superamento della radicale distinzione soggettivistica tra uomo/cultura e natura, e si estenda fino a comprendere l'insieme biosferico, l'intera comunità del vivente. "Il benessere e la prosperità della vita umana e non umana sulla terra hanno valore per sé stesse (in altre parole: hanno un valore intrinseco o inerente). Questi valori sono indipendenti dall'utilità che il mondo non umano può avere per l'uomo"14.
La questione valore intrinseco-valore estrinseco è del resto uno dei parametri più efficaci per distinguere tra loro le prospettive indicate. E' evidente come il valore dato al non umano dalla teoria dell'astronave sia di tipo totalmente utilitaristico, dunque estrinseco: il non umano è valido come risorsa per l'umano. Altrettanto chiaro è che l'ecocentrismo consideri invece il non umano come valido in sé, intrinsecamente meritevole di vita (il che, peraltro, comporta non poche difficoltà concettuali). Ora, le conseguenze di tale contraddizione non hanno solo un sapore sofistico: i futuri immaginati appaiono totalmente diversi. I tecnici dell'astronave pensano ad un mondo che mantenga gli attuali standard e caratteristiche di benessere coniugandoli, almeno in teoria, con una loro più ampia diffusione (all'interno della specie umana) e con una loro maggiore sostenibilità ecologica. Un mondo riformato o poco più. Quello sognato dagli ecocentristi è invece un futuro all'insegna (almeno tendenzialmente) dell'egualitarsimo biosferico15: un mondo semplice, essenziale, anticlassista, attento all'insieme della vita, vicino alla terra e ai suoi ritmi. Un mondo con meno tecnica, minori e diverse esigenze, una popolazione umana più bassa. Insomma, un mondo decisamente rivoluzionato. Al soft delle proposte tecniche, l'ecocentrismo oppone l'hard di un futuro naturalizzato, talvolta memore dell'antica strategia K.
D'altronde, è importante notare come l'opposizione soft/hard non funzioni soltanto nel confronto tra le due teorie e le relative proposte di cura, ma anche all'interno delle singole prospettive: notevoli, nell'ambito della prospettiva tecnicistica, potrebbero essere le differenze strategiche tra, ad esempio, un'azienda che promuove un prodotto non inquinante e un gruppo di scienziati sinceramente impegnato sul problema inquinamento. O ancora, tra un governo che aderisce genericamente ad un protocollo sul clima e un'associazione non governativa che si batte per il rispetto di tale protocollo. Altrettanto complicato, se non di più, è il discernimento soft/hard interno alla prospettiva della coscienza ecologica. Anche qui, infatti, la dicotomia antropo/ecocentrismo risulta riproposta, alcune volte in modo netto, altre in modo tale da mescolare le due visioni in un insieme indistinto. Alla domanda Perché l'ecologia? (Perché dobbiamo salvare la natura?), cioè a quella che viene definita "la questione del teleologismo ambientalista"16, le risposte sono insomma molteplici: tecnici contro ecologisti, ecologisti contro ecologisti, preservazionisti contro conservazionisti, coscienza/etica contro scienza/politica, e a volte tutto insieme, più o meno appassionatamente.
Dunque, anche se dal pianeta Sirio potrebbero apparire semplici, le soluzioni non lo sono affatto. Tuttavia, rispondere a quel perché, al perché salvare la natura, o quanto meno rifletterci seriamente intorno, potrebbe risultare un fatto di grande rilievo: potrebbe favorire idee più chiare, designare obiettivi più concreti, eliminare numerosi equivoci. Potrebbe insomma affrettare la cura, la sua prescrizione e applicazione, scavalcando le controversie e i conflitti veri/presunti, in direzione del bene maggiore complessivo.


6. Un egoismo che assomiglia al mondo.

Come sarà quindi l'egoismo dopo la cura ecologica? E quale cura infine prevarrà? Qui di seguito, una ricapitolazione conclusiva di quanto detto, con l'aggiunta di alcune brevi considerazioni.
1) L'egoismo umano è un fenomeno articolato: ne esiste una forma individuale, una sociale e una di specie: l'egoismo della specie umana (il benessere del genere umano, a discapito di tutto il resto) .
2) L'egoismo della specie umana è anche noto come antropocentrismo. Per quanto ogni specie sia centrica, il centrismo di antropos è fin'ora risultato ecologicamente devastante. Tale centrismo si differenzia dagli altri per una sorta di x, di variabile tipicamente umana (da cui l'ultra-egoismo umano), che porta con sé le meraviglie di cui l'uomo è capace (scienza, etica, arte) ma anche la sua carica distruttiva.
3) Le cause originarie di tale egoismo, oltreché di carattere bio-genetico, sono di derivazione storica e in particolare tecnico-culturale. La scoperta dell'agricoltura ha segnato un passaggio decisivo in termini di dominio umano sulla terra. La nascita della cultura filosofico-razionalistica (tipicamente occidentale) ha inoltre legittimato culturalmente, con il supporto di talune forme religiose, tale dominio.
4) E' possibile leggere la storia delle filosofie/culture occidentali in modi molto diversi. Nel corso dei secoli, molte culture filosofiche minoritarie (si pensi a Plutarco, Montaigne ecc.). hanno tracciato quadri del mondo ecologici e possibilisti. Inoltre, anche le culture dominanti, la filosofia greca, il pensiero rinascimentale o l'idealismo kantiano, per fare solo alcuni esempi, contengono spunti di eccezionale valore per la fondazione di una filosofia ecologica e di un pensiero che lotti contro la crisi ambientale. Una lettura sensata della storia della filosofia (ed una sua più frequente uscita dalle accademie) sarebbe in tal senso molto utile.
5) All'attuale crisi ambientale si oppone un movimento ecologico vasto ed estremamente eterogeneo. Una parte di esso (definito dell'astronave) punta a soluzioni tecniche, e generalmente soft, un'altra guarda principalmente alla coscienza, all'altruismo, ad un'educazione profonda dell'uomo, ad una cura più radicale. Le ragioni dei due ecologismi e i mondi da essi immaginati sono sostanzialmente molto diversi.
6) Alla domanda Perché salvare la natura? non esiste dunque una risposta univoca. Tale domanda è tuttavia scottante. E' indispensabile trovare ed applicare rapidamente un'efficace cura ecologica all'ultra-egoismo della specie umana, per evitare infine che la profezia di Dick (o una ancora peggiore) si avveri.
7) Nessuno è esente dal dovere di impegnarsi seriamente in questa ricerca.
Aggiungiamo inoltre che:
8) Le soluzioni fin qui messe in atto sono risultate inefficaci e talvolta irriverenti. Perché la cura ecologica funzioni non bastano rimedi specialistici. La tecnica non può curare da sola la tecnica, né l'egoismo curare da solo sé stesso. La cura ecologica dovrebbe nutrirsi di complessità, analizzare profondamente i problemi e disporli in circolo, sulla base di un parametro tipo il seguente: il pianeta è uno e interconnesso in tutte le sue forme di vita (umane e non); le possibilità di benessere collettivo a lungo termine sono probabilmente maggiori se le strategie adottate favoriscono quanta più vita possibile. A scuola, per fare un esempio, è preferibile insegnare l'etica, l'estetica e le scienze ecologiche (discipline che promuovono la vita) anziché i valori della pura competizione. Dunque, tra le prime azioni della cura ecologica dovrebbe esserci una seria riforma del pensiero e dell'insegnamento. Se ciò non avviene è perché a qualcuno interessa conservare lo status quo.
9) L'uomo non è "il signore del mondo", come sostenuto da alcuni tecnicisti, né "il cancro del mondo", come sostenuto da alcuni ecologisti. L'uomo (la x umana) è capace di grandi cose e di grandi disastri. Le une e gli altri sono in qualche modo analizzabili e misurabili. Le prime vanno preservate, i secondi ridotti e tendenzialmente cancellati.
10) Infine, la cura ecologica. Dovrebbe forse assomigliare ad un pensiero complesso, ad una complessa rivoluzione culturale che organizzi il sapere scientifico, filosofico, estetico, giuridico, politico, tecnico, socio-economico in un preciso percorso di senso. Inoltre, che abbia il coraggio di costruire il futuro andando oltre la pura preservazione di sé (e dei sé). Infine, che guardi dall'alto, come se fosse da Sirio, le differenze e le opposizioni: cultura-natura, tecnica-coscienza, intrinseco-estrinseco, in modo da conservarle e al tempo stesso risolverne le ricadute negative.
Filtrato dalla cura del pensiero ecologico, l'egoismo sarà pur sempre un egoismo, ma un egoismo memore del passato e desideroso di conservare le maggiori possibilità vitali per il futuro. Un egoismo tenue, trattabile, simpatico. Un egoismo che assomigli un po' di più all'infinita varietà del mondo.

1 Eugene Hargrove, Fondamenti di etica ambientale, Muzzioscienze 1990.
2 John Passmore, La nostra responsabilità per la natura, Feltrinelli 1986.
3 David Oldroyd, Storia della filosofia della scienza, pag. 16, EST 1998.
4 Eugene Hargrove, cit., pag. 24.
5 Ibid., pagg. 29-30.
6 Philip K. Dick, Squadra di ricognizione, da Formiche elettriche, Oscar Mondatori 1997.
7 Danilo Mainardi, La strategia dell'aquila, pag. 6, Mondatori 2000.
8 Ibid., pag. 7.
9 Ibid., pag. 6.
10 Ibid., pagg. 6-7.
11 Clive Ponting, Storia verde del mondo, pag. 44, SEI 1992.
12 Ibid., pagg. 50 e 62.
13 Karl-Wilhelm Weber, Smog sull'Attica, Garzanti 1991.
14 Bill Devall, George Sessions, Ecologia profonda. Vivere come se la natura fosse importante, pag. 78, Edizioni Gruppo Abele 1989.
15 Arne Naess, v. Ecosofia. Ecologia, società e stili di vita, Red 1994.
16 Brian Schroeder, Silvia Benso, Pensare ambientalista. Tra filosofia e ecologia, pag. 24, Paravia 2000.